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Ludovico Ariosto Rime IntraText CT - Lettura del testo |
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V
Anima eletta, che nel mondo folle e pien d'error sì saggiamente quelle candide membra belle reggi, che ben l'alto disegno adempi del Re degli elementi e de le stelle, che sì leggiadramente ornar ti volle, perch'ogni donna molle e facile a piegar ne li vizi empi, potessi aver da te lucidi essempi, che, fra regal delizie in verd'etade, a questo d'ogni mal seculo infetto giunt'esser può d'un nodo saldo e stretto con summa castità summa beltade; da le sante contrade, ove si vien per grazia e per virtute, il tuo fedel salute ti manda, il tuo fedel caro consorte, che ti levò di braccia iniqua morte. Iniqua a te, che quel tanto quieto, iocondo e, al tuo parer, felice tanto stato, in travaglio e in pianto t'ha sotto sopra ed in miseria vòlto; a me giusta e benigna, se non quanto l'odirmi il suon di tue querele drieto mi potria far men lieto, s'ad ogni affetto rio non fusse tolto salir qui dove è tutto il ben raccolto; del qual sentendo tu di mille parti l'una, già spento il tuo dolor sarebbe ch'amando me (come so ch'ami) debbe il mio più che 'l tuo gaudio rallegrarti, tanto più ch'al ritrarti salva da le mondane aspre fortune, sei certa che commune l'hai da fruir meco in perpetua gioia, sciolta da ogni timor che più si moia. Segui pur senza volgerti la via che tenut'hai sin qui sì drittamente; ch'al cielo e alle contente anime altra non è che meglio torni. Di me t'incresca, ma non altrimente che, s'io vivessi ancor, t'incresceria d'una partita mia che tu avessi a seguir fra pochi giorni; e se qualche e qualch'anno anco soggiorni col tuo mortale a patir caldo e verno, lo déi stimar per un momento breve verso quest'altro, che mai non riceve né termine né fin, vivere eterno. Volga Fortuna il perno alla sua ruota in che i mortali aggira; tu quel ch'acquisti mira, da la tua via non declinando i passi; e quel che a perder hai, se tu la lassi. Non abbia forza il ritrovar di spine e di sassi impedito il stretto calle, di farti dar le spalle al santo monte per cui al ciel tu poggi, sì che all'infida e mal sicura valle che ti rimane a drieto, il piè decline; le piagge e le vicine ombre soavi d'alberi e di poggi non t'allentino sì che tu v'alloggi; ché, se noia e fatica fra li sterpi senti al salir la poco trita roccia, non v'hai da temer altro che ti noccia, se forse il fragil vel non vi discerpi. Ma velenosi serpi per le verde, vermiglie e bianche e azurre campagne, per condurre a crudel morte con insidiosi morsi, tra' fiori e l'erba stanno ascosi. La nera gonna, il mesto oscuro velo, il letto vedovil, l'esserti priva di dolci risi, e schiva fatta di giochi e d'ogni lieta vista, non ti spiacciano sì che ancor captiva vada del mondo, e il fervor torni in gelo, c'hai di salir al cielo, sì che fermar ti veggia pigra e trista: ché quest'abito inculto ora t'acquista, con questa noia e questo lieve danno, tesor che d'aver dubbio che t'involi tempo, quantunque in tanta fretta voli, unqua non hai, né di Fortuna inganno. O misero chi un anno di falsi gaudi o quattro o sei più prezza che l'eterna allegrezza, vera e stabil, che mai speranza o téma o altro affetto non accresce o scema! Questo non dico già perché d'alcuno freno ai desiri in te bisogno creda, che da nuova altra teda so con quanto odio e quanto orror ti scosti; ma dicol perché godo che proceda come conviensi e come è più opportuno, per salir qui, ciascuno tuo passo, e che tu sappia quanto costi il meritarci i ricchi premi posti. Non godo men ch'all'inefabil pregi, ch'avrai qua su, veggio ch'in terra ancora arrogi un ornamento che più onora che l'oro e l'ostro e li gemmati fregi; le pompe e i culti regi sì riverir non ti faranno, come di costanzia un bel nome, fede e castità, tanto più caro, quanto esser suol più in bella donna raro. Questo è più onor che scender da l'augusta stirpe d'antiqui Ottoni, estimar déi; di ciò più illustre sei, che d'esser de' sublimi, incliti e santi Filippi nata ed Ami ed Amidei, che fra l'arme d'Italia e la robusta, spesso a' vicini ingiusta, feroce Gallia, hanno tant'anni e tanti tenuto sotto il lor giogo costanti con li Alobrogi i populi de l'Alpe; e de' lor nomi le contrade piene dal Nilo al Boristene, e da l'estremo Idaspe al mar di Calpe. Di più gaudio ti palpe questa tua propria e vera laude il core, che di veder al fiore di lise d'oro e al santo regno assunto chi di sangue e d'amor t'è sì congiunto. Questo sopra ogni lume in te risplende, se ben quel tempo che sì ratto corse tenesti di Namorse meco il scettro ducal di là da' monti; se ben tua bella mano il freno torse al paese gentil ch'Apenin fende, e l'Alpe e il mar diffende. Né tanto val ch'a questo pregio monti che 'l sacro onor de l'erudite fronti, quel tósco in terra e in ciel amato Lauro socer ti fu, le cui mediche fronde spesso alle piaghe, donde Italia morì poi, furon ristauro; che fece all'Indo e al Mauro sentir l'odor de' suoi rami soavi; onde pendean le chiavi che tenean chiuso il tempio de le guerre, che poi fu aperto, e non è più chi 'l serre. Non poca gloria è che cognata e figlia il Leon beatissimo ti dica, che fa l'Asia e l'antica Babilonia tremar, sempre che rugge; e che già l'Afro in l'Etiopia aprica col gregge e con la pallida famiglia di passar si consiglia; forse Arabia e tutto Egitto fugge verso ove il Nilo al gran cader remugge. Ma da corone e manti e scettri e seggi, per stretta affinità, luce non hai da sperar che li rai e 'l chiaro sol di tua virtù pareggi; sol perché non vaneggi drieto al desir, che come serpe annoda, ti guadagni la loda che 'l patre e li avi e' tuoi maggiori invitti si guadagnar con l'arme ai gran conflitti. Quel cortese signor ch'onora e illustra Bibiena, e inalza in terra e 'n ciel la fama, se come, fin che là giù m'ebbe appresso, n'amò quanto se stesso, così lontano e nudo spirto m'ama; s'ancora intende e brama satisfare a' miei preghi, come suole, queste fide parole a Filiberta mia scriva o rapporti, e preghi per mio amor che si conforti.
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