Giovanni Boccaccio
Il Corbaccio

I

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I

Qualunque persona, tacendo, i benefìci ricevuti nasconde senza aver di ciò cagione convenevole, secondo il mio giudicio assai manifestamente dimostraessere ingrato e mal conoscente di quelli. Oh cosa iniqua e a Dio dispiacevole e gravissima a' discreti uomini, il cui malvagio fuoco il fonte secca della pietà! Del quale acciò che niuno mi possa meritamente riprendere, intendo di dimostrare nell'umile trattato seguente una speziale grazia, non per mio merito, ma per sola benignità di Colei che impetrandola da Colui che vuol quello ch'ella medesima, nuovamente mi fu conceduta. La qual cosa faccendo, non solamente parte del mio dovere pagherò, ma sanza niuno dubbio potrò a molti lettori di quella fare utilità. E perciò, acciò che questo ne segua, divotamente priego Colui del quale e quello di che io debbo dire e ogni altro bene procedette e procede, e che di tutti, come per effetto si vede, è larghissimo donatore, che alla presente opera della sua luce siffattamente illumini il mio intelletto e la mano scrivente regga, che per me quello si scriva che onore e gloria sia del suo santissimo nome, e utilità e consolazione delle anime di coloro li quali per avventura ciò leggeranno, e altro no.

 

Non è ancora molto tempo passato che, ritrovandomi io solo nella mia camera, la quale è veramente sola testimonia delle mie lagrime, de' sospiri e de' rammarichii, sì come assai volte davanti avea fatto, m'avvenne che io fortissimamente sopra gli accidenti del carnale amore cominciai a pensare; e, molte cose già trapassate volgendo e ogni atto e ogni parola pensando meco medesimo, giudicai che, senza alcuna mia colpa, io fossi fieramente trattato male da colei la quale io mattamente per mia singulare donna eletta avea e la quale io assai più che la mia propia vita amava e oltre ad ogni altra onorava e reveriva. E in ciò parendomi oltraggio e ingiuria, sanza averla meritata, ricevere, da sdegno sospinto, dopo molti sospiri e rammarichii, amaramente cominciai non a lagrimare solamente, ma a piagnere. E in tanto d'afflizione trascorsi, ora della mia bestialità dolendomi, e ora della crudeltà trascutata di colei, che, uno dolore sopra uno altro col pensiero aggiugnendo, estimai che molto meno grave dovesse essere la che cotal vita; e quella con sommo disiderio cominciai a chiamare; e, dopo molto averla chiamata, conoscendo io che essa, più che altra cosa crudele, più fugge chi più la disidera, meco imaginai di costrignerla a tôrmi del mondo.

 

E già del modo avendo diliberato, mi sopravenne uno sudore freddo e una compassion di me stesso, con una paura mescolata di non passare di malvagia vita a peggiore, se io questo facessi, che fu di tanta forza che quasi del tutto ruppe e spezzò quello proponimento che io davanti reputava fortissimo. Per che, ritornatomi alle lagrime e al primiero rammarichio, tanto in esse multiplicai che 'l disiderio della morte, dalla paura di quella cacciato, ritornò un'altra volta; ma, tolto via come la prima e le lagrime ritornate, a me, in così fatta battaglia dimorante, credo da celeste lume mandato, sopravenne uno pensiero, il quale così nella afflitta mente meco cominciò assai pietosamente a ragionare:

 

«Deh, stolto, che è quello a che il poco conoscimento della ragione, anzi più tosto il discacciamento di quella, ti conduce? Or se' tu sì abbagliato che tu non t'avvegghi che, mentre tu estimi altrui in te crudelmente adoperare, tu solo se' colui che verso te incrudelisci? Quella donna che – tu, sanza guardare come, incatenata la tua libertà e nelle sue mani rimessa – t'è, sì come tu di', di gravi pensieri misera e dolorosa cagione, tu se' ingannato: tu, non ella, ti se' della tua noia cagione. Mostrami dov'ella venisse ad isforzarti che tu l'amassi; mostrami con quali armi, con qual giurisdizione, con qual forza ella t'abbia qui a piagnere e a dolerti menato o ti ci tenga: tu nol mi potrai mostrare, per ciò ch'egli non è. Vorrai forse dire: "ella, conoscendo ch'io l'amo, dovrebbe amar me; il che non faccendo, m'è di questa noia cagione; e con questo mi ci mena e con questo mi ci tiene». Questa non è ragione ch'abbia alcun valore; forse che non le piaci tu: come vuo' tu che alcuno ami quello che non gli piace? Dunque, se tu ti se' messo ad amare persona a cui tu non piaci, non è, se mal te ne segue, la colpa della persona amata: anzi è tua, che sapesti male eleggere. Tu, dunque, se per non essere amato ti duoli, te ne se' tu stesso cagione: e perché apponi tu ad alcuno quello che tu medesimo t'hai fatto e ti fai? E certo, per lo averti tu stesso offeso, meriteresti tu appo giusto giudice ogni grave penitenzia; ma, per ciò ch'ella non è quella che al tuo conforto bisogna, anzi sarebbe uno aggiugnere di pena sopra pena, non è ora da andar cercando questa giustizia. Ma veggiamo, se tu in te stesso incrudelisci, quel che tu avrai fatto. Ciò che l'uomo fa, o per piacere a sé solo, o per piacere ad altrui, o per piacere a sé e ad altrui il fa, o per lo suo contrario. Ma veggiamo se quello a che la tua cechità ti reca, è tuo piacere o dispiacere. Che egli non sia tuo piacere assai manifestamente appare; per ciò che, se ti piacesse, tu non te ne rammaricheresti, né ne piangeresti come tu fai. Resta a vedere se questo tuo dispiacere è piacere o dispiacere d'altrui; né d'altri è ora da cercare, se non di quella donna per cui tu a ciò ti conduci, la quale senza dubbio o ella t'ama o ella t'ha in odio, o egli non è né l'uno né l'altro. Se ella t'ama, senza niuno dubbio la tua afflizione l'è noiosa e dispiacevole: or non sai tu che, per lo fare noia e dispiacere altrui, non s'acquista né si mantiene amore, anzi odio e nimistà? Non pare che tu abbi tanto caro l'amore di questa donna quanto tu vuogli mostrare, se tu con tanta animosità fai quello che le dispiace e disideri di far peggio. Se ella t'ha in odio, se tu non se' del tutto fuori di te, assai apertamente conoscer dèi niuna cosa poter fare che più le piaccia, che lo 'mpiccarti per la gola il più tosto che tu puoi. E non vedi tu tutto 'l giorno le persone che hanno alcuno in odio, per diradicarlo e per levarlo di terra, mettere le lor cose e la propia vita in avventura, contra le leggi umane e divine adoperando? E, tanta di letizia e di piacer sentono, quanta di tristizia e di miseria sentono in cui hanno in odio. Tu, dunque, piagnendo, attristandoti, rammaricandoti, sommo piacere fai a questa tua nimica. E chi sono quelli, se non i bestiali, che a' loro nimici di piacere si dilettano? Se ella né t'ama né t'ha in odio, né di te poco né molto cura, a che sono utili queste lagrime, questi sospiri, questi dolori così cocenti? Tanto t'è per lei prenderli, quanto se per una delle travi della tua camera li prendessi. Perché dunque t'affliggi? Perché la morte disideri? La quale ella medesima, tua nimica secondo che tu estimi, non cercò di darti? Egli non mostra che tu abbi ancora sentito quanta di dolcezza nella vita sia, quando così leggiermente di tôrti di quella appetisci; né ben considerato quanta più d'amaritudine sia negli etterni guai che in quelli del tuo folle amore. Li quali tanti e tali ti vengono, quanti e quali tu stesso te li procacci: ed ètti possibile, volendo essere uomo, di cacciarli; il che degli etterni non ti avverrebbe. Leva adunque via, anzi discaccia del tutto, questo tuo folle appetito; né volere ad una ora te privare di quello che tu non acquistasti ed etterno supplicio guadagnare, e, a chi mal ti vuole, sommamente piacere; sieti cara la vita e quella, quanto puoi il più, t'ingegna di prolungare. Chi sa se tu ancora, vivendo, potrai veder cosa di costei, di cui tu tanto gravato ti tieni, che sommamente ti farà lieto? Niuno. Ma certissimo può essere a tutti che ogni speranza di vendetta, od altra letizia di cosa che qua rimanga, fugge, nel morire, a ciascuno. Vivi adunque; e come costei, contra te malvagiamente operando, s'ingegna di darti dolente vita e cagione di disiderare la morte, così tu, vivendo, trista la fa' della vita tua».

 

Maravigliosa cosa è quella della divina consolazione nelle menti de' mortali: questo pensiero, sì com'io arbitro, dal piissimo Padre de' lumi mandato, quasi dagli occhi della mente ogni oscurità levatami, intanto la vista di quelli aguzzò e rendé chiara che, a me stesso manifestamente scoprendosi il mio errore, non solamente, riguardandolo, me ne vergognai, ma, da compunzione debita mosso, ne lagrimai e me medesimo biasimai forte, e da meno ch'io non arbitrava d'essere mi reputai. Ma, rasciutte dal volto le misere e le pietose lagrime e confortatomi a dovere la solitaria dimoranza lasciare, la quale per certo offende molto ciascuno il quale della mente è men che sano, della mia camera con faccia assai, secondo la malvagia disposizione trapassata, serena uscii. E, cercando, trovai compagnia assai utile alle mie passioni: colla quale ritrovandomi e in dilettevole parte ricoltici, secondo la nostra antica usanza, primieramente cominciammo a ragionare con ordine assai discreto delle volubili operazioni della Fortuna, della sciocchezza di coloro i quali quella con tutto il disiderio abbracciavano, e della pazzia d'essi medesimi, i quali, come in cosa stabile, la loro speranza in essa fermavano. E di quinci alle perpetue cose della natura venimmo e al maraviglioso ordine e laudevole di quelle, tanto meno da tutti con ammirazion riguardate, quanto più tra noi, senza considerarle, le veggiamo usitate. E da queste passammo alle divine, delle quali appena le particelle estreme si possono da' più sublimi ingegni comprendere, tanto d'eccellenzia trapassano gl'intelletti de' mortali. E intorno a così alti e così eccelsi e così nobili ragionamenti il rimanente di quel consumammo; da' quali la sopravegnente notte ci costrinse a rimanerci per quella volta; e, quasi da divino cibo pasciuto, levatomi e ogni mia passata noia avendo cacciata e quasi dimenticata, consolato alla mia usitata camera mi ridussi. E poi che l'usato cibo assai sobriamente ebbi preso, non potendo la dolcezza de' passati ragionamenti dimenticare, grandissima parte di quella notte, non senza incomparabile piacere, tutti meco repetendoli, trapassai; e, dopo lungo andare, vincendo la naturale opportunità il mio piacere, soavemente m'addormentai; e con tanta più forza si mise ne' miei sentimenti il sonno, quanto più gli avea il dolce pensiere trapassato di tempo tolto.

 

Per che essendo io in altissimo sonno legato, non parendo alla mia nimica Fortuna che le bastassero le ingiurie fattemi nel mio vegghiare, ancora dormendo s'ingegnò di noiarmi; e davanti alla virtù fantastica, la quale il sonno non lega, diverse forme paratemi, avvenne che a me subitamente parve intrare in uno dilettevole e bello sentiero, tanto agli occhi miei e a ciascuno altro mio senso piacevole quanto fosse alcun'altra cosa stata davanti da me veduta. Il luogo, dove questo si fosse, non mi parea conoscere; né di conoscerlo mi parea curare, poscia che dilettevole il sentia. È il vero che, quanto più avanti per esso andava, tanto più parea che di piacere mi porgesse; per che da quello si fermò una speranza la quale mi promettea che, se io al fine del sentiero pervenissi, letizia inestimabile e mai simile da me non sentita mi s'apparecchiava. Onde pareva che in me s'accendesse uno disiofervente di pervenire a quello, che non solamente i miei piedi si moveano a correre per pervenirvi, ma mi parea che mi fossero da non usata natura prestate velocissime ali; colle quali mentre a me parea più rattamente volare, mi parve il cammino cambiare qualità; e, dove erbe verdi e vari fiori nell'entrata m'erano paruti vedere, ora tassi, ortiche e triboli e cardi e simili cose mi parea trovare; sanza che, indietro volgendomi, seguir mi vidi a una nebbiafolta e sì oscura quanto niuna se ne vedesse già mai; la quale subitamente intorniatomi, non solamente il mio volare impedìo, ma quasi d'ogni speranza del promesso bene all'entrare del cammino mi fece cadere.

 

E così quivi immobile e sospeso trovandomi, mi parve per lungo spazio dimorare avanti che io, per attorno guardarmi, potessi conoscere dov'io mi fossi. Ma pure, dopo lungo spazio assottigliatasi la nebbia, come che 'l cielo per la sopravenuta notte oscuro fosse, conobbi me dal mio volato essere stato lasciato in una solitudine diserta, aspra e fiera, piena di salvatiche piante, di pruni e di bronchi, senza sentieri o via alcuna, e intorniata di montagne asprissime e sì alte che colla loro sommità pareva toccassero il cielo. Né per guardare con gli occhi corporali, né per estimazione della mente, in guisa alcuna mi pareva potere comprendereconoscere da qual parte io mi fossi in quella entrato; né ancora, che più mi spaventava, poteva discernere dond'io di quindi potessi uscire e in più dimestichi luoghi tornarmi. E, oltre a questo, mi parea per tutto, dove che io mi volgessi, sentire mugghi, urli e strida di diversi e ferocissimi animali: de' quali la qualità del luogo mi dava assai certa testimonianza che per tutto ne dovesse essere piena. Laonde e dolore e paura parimente mi venner nell'animo. Il dolore agli occhi miei recava continue lacrime, e sospiri e rammarichii alla bocca; la paura m'impediva di prendere partito verso quale di quelle montagne io dovessi prendere il cammino per partirmi di quella valle, ciascuna parte mostrandomi piena di più forti nimici della mia vita: laond'io, arrestato nella guisa che mostrata è, e da ogni consiglio e aiuto abbandonato, quasi niun'altra cosa che la morte o da fame o da crudel bestia aspettando, fra gli aspri sterpi e le rigide piante piangendo mi parea dimorare, niun'altra cosa faccendo che tacitamente o dolermi dell'esservi entrato, sanza prevedere dov'io pervenire mi dovessi, o chiamare il soccorso di Dio. E, mentre che io in cotal guisa e già quasi da ogni speranza abbandonato, tutto delle mie lagrime molle mi stava, ed ecco di verso quella parte dalla quale nella misera valle il sole si levava, venire verso me con lento passo uno uomo senza alcuna compagnia; il quale, per quello ch'io poi più da presso discernessi, era di statura grande e di pelle e di pelo bruno, benché in parte bianco divenuto fosse per gli anni, de' quali sessanta o forse più dimostrava d'avere, asciutto e nerboruto, e di non molto piacevole aspetto; e il suo vestimento era lunghissimo e largo e di colore vermiglio, come che assai più vivo mi paresse, non ostante che tenebroso fosse il luogo dov'io era, che quello che qua tingono i nostri maestri. Il quale, come detto è, con lenti passi appressandomisi, in parte mi porse paura e in parte mi recò speranza. Paura mi porse per ciò ch'io cominciai a temere non quello luogo a lui forse per propia possessione assegnato fosse, e, recandosi ad ingiuria di vedervi alcuno altro, le fiere del luogo, sì come a lui familiari, a vendicar la sua ingiuria sopra me incitasse e a quelle mi facesse dilacerare; speranza d'alcuna salute mi recò in quanto, più faccendosi a me vicino, pieno di mansuetudine mel parea vedere; e più e più riguardandolo, estimando d'altra volta, non quivi ma in altra parte, aver veduto, diceva meco:

 

«Questi per avventura, sì come uomo uso in questa contrada, mi mostrerrà dove sia di questo luogo l'uscita; e ancora, se in lui fia spirito di pietà alcuno, infino a quello benignamente mi menerà». E, mentre che io in così fatto pensiere dimorava, esso, senza ancora dire alcuna cosa, tanto mi s'era avvicinato che io, ottimamente la sua effige raccolta, chi egli fosse e dove veduto l'avessi mi ricordai; né d'altro colla mia memoria disputava che del suo nome, imaginando che se io per quello, misericordia e aiuto chiedendogli, il nominassi, quasi una più stretta familiarità per quello dimostrando, con maggiore e più pronta affezione a' miei bisogni il dovessi muovere. Ma, mentre che io quello che cercando andava ritrovar non poteva, esso, me con voce assai soave per lo mio propio nome chiamandomi, disse: – Qual malvagia fortuna, qual malvagio destino t'ha nel presente diserto condotto? Dove è il tuo avvedimento fuggito, dove la tua discrezione? Se tu hai sentimento quanto solevi, non discerni tu che questo è luogo di corporal morte e di perdimento d'anima, che è molto peggio? Come ci se' tu venuto, qual tracutanza t'ha qui guidato? –

 

Io, costui udendo, e parendomi nel suo sembiante di me pietoso, prima ch'io potessi alla risposta avere la voce, dirottamente, di me stesso increscendomi, a piagnere cominciai. Ma, poi che alquanto sfogata fu la nuova compassione per le lagrime, raccolte alquanto le forze dell'animo in uno, con rotta voce e non senza vergogna, rispuosi:

 

– Sì come io estimo, il falso piacere delle caduche cose, il quale più savio ch'io non sono già trasviò molte volte e forse a non minor pericolo condusse, qui, prima che io m'accorgessi dov'io m'andassi, m'ebbe menato: dove in amaritudine incomportabile e senza speranza alcuna, da poi che io mi ci vidi, che è sempre stato di notte, dimorato sono. Ma, poi che la divina grazia, sì come io credo, e non per mio merito, mi t'ha innanzi parato, io ti priego, se colui se' il quale molte volte già in altra parte veder mi parve, che tu, per quello amore che alla comune patria dèi e appresso per quello d'Iddio per lo quale ogni cosa si dee, e se in te è alcuna umanità, che di me t'incresca; e, se sai, m'insegni com'io di luogo di tanta paura pieno partir mi possa: dalla quale già sì vinto mi sento che appena conosco s'io o vivo o morto mi sono. – Parvemi allora, nel viso guardandolo, che egli alquanto delle mie parole ridesse con seco stesso; e poi dicesse: – Veramente mi fa il qui vederti e le tue parole assai manifesto, se altrimenti nol conoscessi, te del vero sentimento essere uscito e non conoscere se vivo ti sii o morto; il quale se da te non avessi cacciato, ricordandoti quali occhi fossero quelli e di cui, la cui luce, secondo il vostro parlare, t'aperse il cammino che qui t'ha condotto, e fecetelo parere così bello, e conoscendo quanto già fossero a me, tu non avresti avuto ardire di pregarmi per la tua salute; ma, veggendomi, ti saresti ingegnato di fuggire per tema di non perderne alquanta che ancora t'è rimasa. E, se io fossi colui che io già fui, per certo non aiuto ti presterei ma confusione e danno, sì come a colui che ottimamente l'hai meritato. Ma, per ciò che io, poi che dalla vostra mortale vita sbandito fui, ho la mia ira in carità trasmutata, non sarà alla tua domanda negato il mio aiuto. –

 

Alle cui parole stando io attento quanto io poteva, come io udi': «poi che dalla vostra mortale vita fui sbandito», e di sùbito riconoscendo non costui essere colui il quale io estimava, ma la sua ombra, così uno repente freddo mi corse per l'ossa e tutti i peli mi si cominciarono ad arricciare; e, perduta la voce, mi parve, se io potuto avessi, volere lui fuggire. Ma, sì come sovente avviene a chi sogna, che gli pare ne' maggiori bisogni per niuna condizione del mondo potersi muovere, così a me sognante parve che avvenisse; e parvemi che le gambe mi fossero del tutto tolte e divenire immobile. E di tanto potere fu questa nuova paura ch'io non so pensare qual cosa fosse quella che sì forte facesse il mio sonno ch'egli allora non si rompesse; e per questa tema, senza alcuna cosa rispondere o dire, stare mi parve. La qual cosa veggendo lo spirito, e sorridendo, mi disse:

 

– Non dubitare: parla sicuramente meco e della mia compagnia prendi fidanza; ché per certo io non sono venuto per nuocerti, ma per trarti di questo luogo, se fede intera presterai alle mie parole. –

 


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