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VII
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VII
Deh, lasciamo stare quello che tu, per tuo studio, hai di grazia da Dio acquistato, e vegnamo a quello solo che dalla natura t'è stato conceduto; e, questo veduto, se così se' sdegnoso come ti mostri nell'altre cose, non d'essere stato schernito, o forse rifiutato, tu ti piagnerai e lamentera'ti, ma d'averti, a modo ch'uno nibbio, lasciato adescare e pigliare alle busecchie. Hatti la natura tanta di grazia fatta che tu se' uomo, dove colei è femina, per cui sì miseramente piangevi: e quanto l'uomo più degna cosa e più nobile sia che la femina in parte davanti l'hanno le nostre parole dimostrato. Appresso, s'ella è di persona grande e bene ne' suoi membri proporzionata e nel viso forse, a tuo parere, bella, e tu non se' piccolo e per tutto se' così ben composto come sia ella, né difettuoso ti veggio in parte alcuna, né ha il tuo viso tra gli uomini men di bellezza che abbia il suo tra le femine, con tutto ch'ella studi il suo con mille lavature e con altrettanti unguenti, dove tu il tuo o rade volte o non mai pur con l'acqua chiara te 'l lavi; anzi ti dirò più: ch'egli e molto più bello, quantunque tu poco te ne curi; e fai bene, per ciò che tale sollecitudine sommamente agli uomini si disdice. Una grazia le ha fatta per insino a qui la sua natura più che a te: che, se non m'inganna il mio iudicio, quantunque tu abbi la barba molto fiorita e, di nere, candide sieno divenute le tempie tue, è ella pur nel mondo stata molti più anni che tu non se', quantunque forse non l'abbia così bene adoperati. Per che, ragguagliando la prima cosa, nella quale tu se' meglio di lei, con questa ultima, nella quale pare che ella sia meglio di te, essendo quella di mezzo del pari, dico che così tosto dovrebbe ella essersi fatta incontro a te ad amarti come tu ti facesti incontro a lei. S'ella nol fece, vuo' tu perciò per la sua sconvenevolezza consumarti? Ella, a buona ragione, ha più da rammaricarsi che non hai tu: per ciò che della sua sconvenevolezza ella perde, dove tu ne guadagni, se ben porrai mente, ogni cosa.
Ma tu rificchi pur gli occhi della mente ad una cosa, nella qual ti pare avere molto disavvantaggio da lei, e di che io niuna menzione feci, quando l'altre andai ragguagliando, e avvisi che quella sia la cagione per la quale tu schifato sii: cioè che a te pare che ella gentildonna sia, dove a te non pare essere così; il che presupponendo che così fosse, non perciò saresti lasciato, se guardi a chi è il «secondo Ansalone», che è cotanto nella sua grazia, e se a tutto pieno degli altri guardando verrai. Ma in ciò mi pare che tu erri, e gravemente; primieramente in ciò: che tu, lasciando il vero, seguiti l'opinione del popolazzo il quale sempre più alle cose apparenti che alla verità di quelle dirizza gli occhi. Ma non sai tu qual sia la vera gentilezza e quale la falsa? Non sai tu che cosa sia quella che faccia l'uomo gentile e qual sia quella che gentile esser non lascia? Certo sì ch'io so che tu 'l sai; né niuno è sì giovinetto nelle filosofiche scuole che non sappia noi da un medesimo padre e da una madre tutti avere i corpi, e l'anime tutte iguali e da uno medesimo creatore; né niuna cosa fe' l'uno gentile e l'altro villano, se non che, avendo ciascuno parimente il libero arbitrio a quello operare che più gli piacesse, colui che le virtù seguitò fu detto gentile, e gli altri in contrario, seguendo i vizi, furono non gentili reputati; dunque da virtù venne prima gentilezza nel mondo. Vieni ora tu tra' suoi moderni e ancora tra' suoi passati cercando, e vederai quante di quelle cose, e in quanti tu ne troverai, che facciano gli uomini gentili. L'avere avuto forze che loro vennono da principio da fecunda prole, che è naturale dono e non virtù, e con quelle avere rubato, usurpato e occupato quello de' loro vicini meno possenti, che è vizio spiacevole a Dio e al mondo, li fece già ricchi; e, dalle ricchezze insuperbiti, ardirono di fare quello che già soleano i nobili fare: cioè di prendere cavalleria; nel quale atto ad un'ora se medesimi e' vai e gli altri militari ornamenti vituperarono. Qual gloriosa cosa, qual degna di fama, quale autorevole udistù mai dire, che per la re publica, oppure per la privata, alcuno di loro adoperasse già mai? Certo non niuna; fu adunque il principio della gentilezza di costoro forza e rapina e superbia, assai buone radici di così laudevole pianta. Di quegli che ora vivono è la vita tale che l'esser morto è molto meglio. Ma pure, se stato ve ne fosse alcuno valoroso, che fa quello a costei? Così bene te ne puoi gloriar tu, come ella e qualunque altro si fosse. La gentilezza non si può lasciare in eredità, se non come la virtù, le scienze, la santità e così fatte cose: ciascun conviene che la si procacci e acquistila, chi avere la vuole.
Ma, che che stato si sia negli altri, dirizza un poco gli occhi in colei di cui parliamo, che così gentil cosa ti pare; e chi ella sia al presente o nel preteritò stata sia riguarda. S'io non errai, vivendo seco, e se bene quello che di lei poco innanzi ragionai raccogliesti, ella ha tanto di vizio in sé che ella ne brutterebbe la corona imperiale. Che gentilezza dunque da lei ti può essere gittata al volto, o rimproverata non gentilezza? In verità, se non che parrebbe che io lusingare ti volessi, assai leggiermente e con ragioni vere ti mosterrei te molto essere più gentile che ella non è, quantunque degli scudi de' tuoi passati non si veggano per le chiese appiccati. Ma così ti vo' dire: se punto di gentilezza nello animo hai, o quella avessi che già ebbe il legnaggio del re Bando di Benvicche, tutta l'avresti bruttata e guasta, costei amando. Ora io potrei, oltre a quello che è detto, ad assai più cose procedere; e con più lungo sermone e con parole più aspre contro alla ignominia della malvagia femina che ti prese e contro alla tua follia e alla colpa da te commessa; ma, volendo che quelle che dette sono bastino, quelle che tu vuogli dire aspetterò. –
Io aveva colla fronte bassa, sì come coloro che il loro fallo riconoscono, ascoltato il lungo e vero parlare dello spirito; e sentendo lui a quello avere fatto fine e tacere, lagrimando alquanto, il viso alzai; e dissi:
– Ottimamente, benedetto spirito, dimostrato m'hai quello che alla mia età e a' miei studi si convenia; e in spezialità la viltà di costei la quale il mio falso giudicio per donna della mia mente, nobilissima cosa estimandola, eletta avea; e i suoi costumi e i suoi diletti e le maravigliose sue virtù, con molte altre più cose; e con parlare ancora assai più dolce che 'l mio peccato non meritava me riprendendo, m'hai dimostrato quanto gli uomini naturalmente di nobiltà le femine eccedano, e chi io in particulare sia. Le quali cose ciascuna per sé e tutte insieme hanno sì in tutto rivolta la mia sentenzia e il mio animo permutato che, senza niuno dubbio, di ciò che mi pareva davanti, ora mi pare il contrario; intanto che, quantunque piissima sia Colei, li cui prieghi la tua venuta a me impetrarono, appena che io possa sperar già mai perdono o salute, quantunque tu la mi prometta, sì mi par grave e spiacevole il mio peccato. E perciò temo che, dove per mia utilità venisti, quella in grandissimo danno non si converta, in quanto prima noiosa m'era la stanza e gravi le catene che mi teneano, ma pure, non conoscendo il pericolo nel quale io era, né ancora la mia viltà, quelle con meno affanno portava che omai non potrò portare. Le mie lagrime multiplicheranno ognuna in mille, e la paura diverrà intanto maggiore che mi ucciderà; sì che, se male mi parea davanti stare, ora mi pare stare pessimamente. –
Lo spirito allora, tutto pieno di compassione, nello aspetto riguardandomi, disse:
– Non dubitare: sta' sicuramente, e nel buono volere, nel quale al presente se', persevera. La divina bontà è sì fatta e tanta che ogni gravissimo peccato, quantunque da perfida iniquità di cuore proceda, solo che buona e vera contrizione abbia il peccatore, tutto il toglie via e lava della mente del commettitore e perdona liberamente. Tu hai naturalmente peccato, e per ignoranza: che nel divino aspetto ha molto meno d'offesa che chi maliziosamente pecca; e ricordar ti dèi quanti e quali e come enormi mali, per malizia operati, egli abbia con l'onde del fonte della sua vera pietà lavati; e, oltre a ciò, beatificati coloro che già come nimici e rubelli del suo imperio peccarono, per ciò che buona contrizione e ottima satisfazione fu in loro. E io, se non m'inganno, anzi se le tue lagrime non m'ingannano, te sì compunto veggio che già perdono della offesa hai meritato; e certissimo sono che disideroso se' di satisfare, in quello che per te si potrà, della offesa commessa; alla qual cosa io ti conforto quanto più posso, acciò che in quel baratro non cadessi donde niuno può poi rilevarsi. –
Al quale io allora dissi:
– Iddio, che solo i cuori degli uomini vede e conosce, sa se io dolente sono e pentuto del male commesso e se io così col cuore piango come per gli occhi; ma, perché per contrizione e per satisfazione tu in speranza di salute mi metti, avendo io già l'una, carissimo mi sarebbe d'essere da te ammaestrato di ciò che a me s'appartenesse per fornire l'altra. –
Al quale esso rispuose:
– A volere de' falli commessi satisfare interamente, si conviene, a quello che fatto hai, operare il contrario; ma questo si vuole intendere sanamente. Ciò che tu hai amato, ti conviene avere in odio; e ciò che tu per lo altrui amore acquistare t'eri a dovere fare disposto, a fare il contrario, sì che tu odio acquisti, disporre e far ti conviene; e odi come, acciò che tu stesso, male intendendo le parole da me ben dette, non t'ingannassi. Tu hai amata costei, perché bella ti pareva, perché dilettevole nelle cose libidinose la speravi. Voglio che tu abbi in odio la sua bellezza, in quanto di peccare ti fu cagione, o essere ti potesse nel futuro; voglio che tu abbi in odio ogni cosa che in le' in così fatto atto dilettevole stimassi; la salute dell'anima sua voglio che tu ami e disideri; e, dove per piacere agli occhi tuoi andavi disiderosamente dove vedere la credevi, che tu similemente questo abbi in odio e fùgghitene; voglio che della offesa fattati da lei tu prenda vendetta, la quale ad una ora sarà a te e a lei salutifera. Se io ho il vero già molte volte inteso, ciascuno che in quello s'è dilettato di studiare o si diletta che tu fai, ottimamente, eziandio mentendo sa cui gli piace tanto famoso e sì glorioso rendere negli orecchi degli uomini che, chiunque di quel cotale niuna cosa ascolta, lui e per virtù e per meriti sopra i cieli estima tenere le piante de' piedi; e così in contrario, quantunque virtuoso, quantunque valoroso, quantunque da bene stato sia uno che nella vostra ira caggia, con parole, che degne paiono di fede, nel profondo di ninferno il tuffate e nascondete. E perciò questa ingannatrice, come a glorificarla eri disposto, così ad avvilirla e a parvificarla ti disponi; il che agevolmente ti verrà fatto, per ciò che dirai il vero. E, in quanto puoi, fa' che a le' nel tuo parlare lei medesima mostri e similemente la mostri ad altrui; per ciò che, dove l'averla glorificata tu aresti mentito per la gola e fatto contro a quello che si dee e tesi lacciuoli alle menti di molti che, come tu fosti, sono creduli, e lei aresti in tanta superbia levata che le piante dei piedi non le si sarebbono potute toccare, così, questo faccendo, dirai il vero e sgannerai altrui, e lei raumilierai: che forse ancora di salute le potrebbe essere cagione. Fa' dunque, incomincia come più tosto puoi e fa' sì che si paia; e questa satisfazione, quanto a questo peccato, tanto ti sia assai. –
Al quale io allora rispuosi:
– Per certo che, se tanto mi vorrà di bene Iddio che io mai mi vegga di questo laberinto fuori, secondo che mi ragioni, di satisfare m'ingegnerò; e niuno conforto più, niun sospignimento mi bisognerà a far chiaro l'animo mio di tanta offesa. E, mentre nelle parole artificialmente dette sarà alcuna forza o virtù, a niuno mio successore lascerò a fare delle ingiurie ricevute da me vendetta, solo che tanto tempo mi sia prestato ch'io possa o concordare le rime o distendere le prose. La vendetta daddovero, la quale i più degli uomini giudicherebbon che fosse da far con ferri, questa lascerò io al mio signore Dio il quale mai niuna mal fatta cosa lasciò impunita. E nel vero, se tempo da troppo affrettata morte non m'è tolto, io la farò, con tanto cruccio di lei e con tanto vituperio della sua viltà, ricredente della sua bestialità, mostrandole che tutti gli uomini non sono da dovere essere scherniti ad uno modo, che ella vorrebbe così bene essere digiuna d'avermi mai veduto, come io abbia disiderato o disideri d'essere digiuno d'avere veduta lei. Ora io non so: se animo non si muta, la nostra città avrà un buon tempo poco che cantare altro che delle sue miserie o cattività; senza che io m'ingegnerò con più perpetuo verso testimonianza delle sue malvage e disoneste opere lasciare a' futuri. –
E, questo detto, mi tacqui; ed esso altresì si taceva; per che io ricominciai:
– Mentre quello a venire pena che tu aspetti, ti priego a un mio disiderio sodisfacci. Io non mi ricordo che mai, mentre nel mortale mondo dimorasti, teco né parentado né dimestichezza né amistà alcuna io avessi già mai; e parmi essere certo che, nella regione nella quale dimori, molti sieno, che amici e parenti e miei dimestichi furono, mentre vissero: per che, se di quindi alla mia salute alcuno dovea venire, perché più tosto a te che ad alcuno altro di quelli fu questa fatica imposta ?—
Alla qual domanda lo spirito rispuose:
– Nel mondo là dov'io sono né amistà né parentado né dimestichezza vi si guarda in alcuno: ciascheduno, purché per lui alcuno bene operar si possa, è prontissimo a farlo, e senza niuno dubbio. È il vero che a questo servigio e ad ogni altro molti, anzi tutti quanti di là ne sono, sarebbono stati più di me sufficienti; e sì parimente tutti di carità ardiamo che ciascuno a ciò sarebbe stato prontissimo e volonteroso; ma pertanto a me toccò la volta, perché la cosa, di che io ti dovea venire per la tua salute a riprendere, in parte a me apparteneva, come di cosa stata mia; e assai manifestamente appariva che di quella tu ti dovevi più di me vergognare che di alcun altro, sì come di colui al qual pareva che nelle sue cose alcuna ingiuria avessi fatta, meno che onestamente disiderandole. Appresso a questo ciascun altro si sarebbe più vergognato di me di dirti quello delle mie cose, che era da dirne, che non sono io; né era da tanta fede prestargli intorno a ciò quanta a me; senza che alcuno non arebbe sì pienamente saputane ogni cosa raccontare sì come io, quantunque io n'abbia lasciate molte; e questa credo che fosse la cagione che me innanzi ad ogni altro eleggere facesse a dovere venire a medicarti di quel male al quale radissime medicine trovare si sogliono. –
A cui io allora dissi:
– Qual che la cagione si fosse, quel ne credo che a te piace ch'io ne creda; e per questo sempre mi ti conosco e conoscerò obligato; per che io ti priego per quella pace, che per te ardendo s'aspetta, che con ciò sia cosa ch'io sia volonteroso di mostrarmi di tanto e tale beneficio verso te grato, che, se per me operare alcuna cosa si puote, che giovamento e alleviamento debba essere della pena la qual tu sostieni, che tu, avanti che io da te mi parta, la mi 'mponga, sicuro che, quanto il mio potere si stenderà, sarà senza fallo fornita. –
A cui allora lo spirito disse:
– La malvagia femina, che mia moglie fu, è tutta ad altre sollecitudini data, come puoi avere udito, che a ricordarsi di me; e a' miei figliuoli ancora nol concede l'età, ché piccioletti sono; parente altro non ho, che di me metta cura (non mettessono essi più in occupare quello de' pupilli da me lasciati!), e perciò alla tua liberal profferta imporrò che ti piaccia, quando di questo viluppo sarai dislacciato, che con l'aiuto di Dio sarà tosto, che tu, a consolazione di me e ad alleggiamento della mia pena, alcuna elimosina facci, e facci dire alcuna messa nella quale per me si prieghi; e questo mi basterà. Ma, s'io non erro, l'ora della tua diliberazione s'avvicina; e perciò dirizza gli occhi verso oriente e riguarda alla nuova luce che pare levarsi; la quale se ciò fosse che io avviso, qui non arebbono più luogo parole, anzi sarebbe da dipartirsi. –
Mentre lo spirito queste ultime parole dicea, a me, che ottimamente il suo disiderio ricolto avea, parve levare la testa verso levante e parvemi vedere surgere a poco a poco di sopra alle montagne uno lume, non altrimenti che, avanti la venuta del sole, si lieva nello oriente l'aurora. Il quale, poi che in grandissima quantità il cielo ebbe imbiancato, subitamente divenne grandissimo; e, senza più verso noi farsi che solamente coi raggi suoi, in quella guisa che noi talvolta veggiamo, tra due oscuri nuvoli trapassando, il sole in terra fare una lunga riga di luce, così, verso noi disceso, fece una via luminosa e chiara, non trapassante il luogo dove noi stavamo; la qual non prima sopra me venne che io, con molta maggiore amaritudine della mia coscienzia che prima non avea fatto, il mio errore riconobbi. E, poi che alquanto gustata l'ebbi, mi parve che non so che cosa grave e ponderosa molto da dosso mi si levasse; e me, al quale prima immobile e impedito essere parea, senza sapere di che, fé incontanente parere leggierissimo e spedito e avere licenzia di potere andare. Per la qual cosa dire mi parve allo spirito:
– Se tempo ti paresse d'andare, io te ne priego che di quinci ci dipartiamo, per ciò che a me sono tornate le perdute forze e il buono volere; e parmi vedere la via espedita. –
A cui tutto lieto rispuose lo spirito:
– Ciò mi piace: muovi e andianne tosto; ma guarda del sentiero luminoso, che davanti ti vedi e per lo quale io anderò, tu non uscissi punto, per ciò che, se i bronchi de' quali tu vedi il luogo pieno, ti pigliassero, nuova fatica bisognerebbe a trartene, oltre a questa alla quale io venni; e sallo Iddio se l'aiuto, che avuto hai al presente, impetreresti o no. –
Al quale mi parea tutto lieto rispondere:
– Andianne pur tosto, per Dio, e questa cautela sicuramente al mio avvedimento commetti, ché per certo, se cento milia prieghi mi si facessono incontro in luogo delle beffe già ricevute, non mi potrebbono più nelle catene rimettere, delle quali la misericordia di Colei, alla qual sempre mi conobbi obligato (e ora più che mai), e la tua buona dottrina e liberalità appresso, mi traggono. –
Mossesi adunque lo spirito; e, per lo luminoso sentiero andando, verso le montagne altissime dirizzò i passi suoi. Su per una delle quali, che il cielo parea che toccasse, messosi, me non senza grandissima fatica, sempre cose piacevoli ragionando, si trasse dietro; sopra la sommità della quale poi pervenuti fummo, quivi il cielo aperto e luminoso per tutto vedere mi parve, e sentire l'aere dolce e soave e lieto, e vedere le piante verdi e' fiori per le campagne; le quali cose tutto il petto delle passate noie afflitto riconfortarono e ritornarono nella prima allegrezza. Laonde, sì come allo spirito piacque, io mi rivolsi indietro a riguardare il luogo del quale tratto mi avea; e parvemi non valle, ma una cosa profonda infino in inferno, oscura e piena di noie e di dolorosi rammarichii. E, avendomi detto me essere libero e potere di me fare a mio senno, tanta fu la letizia, ch'io senti', che, vogliendolimi a' piedi gittare e grazie rendergli di tanto e tale beneficio, esso e 'l mio sonno ad una ora si dipartiro. Risvegliato adunque e tutto di sudore bagnato trovandomi, non altramenti che sieno gli uomini faticati, o che se col vero corpo la montagna salita avessi che nel sogno mi parve salire, maravigliatomi forte, sopra le vedute cose cominciai a pensare; e, mentre meco ad una ad una ripetendo l'andava ed esaminando se possibile fosse così essere il vero come mi pareva avere udito, assai ne concedetti verissime; come che poi quelle, che per me allora conoscere non potea, da altrui poi informatomene, essere non meno vere che l'altre trovassi. Per la qual cosa, non altramenti che spirato da Dio, a dovere con effetto della misera valle uscire mi dispuosi. E, veggendo già il sole essere alto sopra la terra, levatomi, agli amici, co' quali nelle mie afflizioni consolare mi solea, andatomene, ogni cosa veduta e udita per ordine raccontai; li quali ottimamente esponendomi ogni particella del sogno, nella mia esposizione medesima tutti concorrere li trovai; per che sì per li loro conforti e sì per lo conoscimento, che in parte m'era tornato migliore, al tutto a dipartirmi dal nefario amore della scellerata femina mi dispuosi. Alla quale disposizione fu la divina grazia sì favorevole che infra pochi dì la perduta libertà racquistai; e, come io mi soleva, così sono mio: grazie e lode n'abbia colui che fatto l'ha. E sanza fallo, se tempo mi fia conceduto, io spero sì con parole gastigar colei che, vilissima cosa essendo, altrui schernire co' suoi amanti presume, che mai lettera non mosterrà, che mandata le sia, che della mia e del mio nome con dolore e con vergogna non si ricordi. E voi vi rimanete con Dio. Picciola mia operetta, venuto è il tuo fine e da dare è omai riposo alla mano; e perciò ingegnera'ti d'essere utile a coloro, e massimamente a' giovani, li quali con gli occhi chiusi, per li non sicuri luoghi, troppo di sé fidandosi, senza guida si mettono; e del beneficio, da me ricevuto dalla genitrice della salute nostra, sarai testimonia. Ma, sopra ogni cosa, ti guarda di non venire alle mani delle malvage femine; e massimamente di colei che ogni demonio di malvagità trapassa e che della presente tua fatica è stata cagione: per ciò che tu saresti là mal ricevuta; ed ella è da pugnere con più acuto stimolo che tu non porti con teco. Il quale, concedendolo Colui che d'ogni grazia è donatore, tosto a pugnerla, non temendo, le si farà incontro.
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