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Giovanni Boccaccio
Comedia delle ninfe fiorentine

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  • [XXXVIII]
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[XXXVIII]

- Poche parole narrerieno i nostri amori, ma però che il tempo è molto, il quale ancora ci resta infino alle fresche ore, e io sola ho a parlare, acciò che elli sanza i nostri ragionamenti ozioso non passi, tirando in istesa novella i miei parlari, prima l'origine e' casi della nostra città che i fuochi di Venere in me vi farò manifesti, a quelli poi come si converrà discendendo. I furti commessi d'Europa da Giove erano occulti allora che 'l sollecito Agenore, per la figliuola cercante pietoso e dispietato divenuto ad una ora, la crudele legge impuose al figliuolo Cadmo, il quale, ricevuto il comandamento, ubidiente e sbandito si fece insieme. E mentre che elli pellegrino indarno la perduta sirocchia ricerca, nell'alto animo entrano eccelsi pensieri, cioè di dare a sé e a' compagni sidonii nuove mura. E quinci, avuto il consiglio d'Appollo, seguio la non domata giovenca tra' monti aonii, e dove ella, mugghiando, finio il corso suo, insieme co' figliuoli de' serpentini denti fermò la terra nominata Boezia; la quale, se vergini meno belle avesse produtte, più lunga fortuna s'avria riserbata ch'ella non fece. Questa, già l'ire di Giunone sostenute forse per Danne e per la misera Semelè, stata chiusa da Anfione dopo le miserie d'Atamante, nelle mani pervenne di Laio; e già grandissima e piena di nobile popolo, forte contra ciascuna altra possente, lieta ne' sacrificii di Bacco vivea. Questi, pochi avanti che dal figliuolo ricevesse il mortal colpo, maritò una sua sorella picciola, nominata Ionia, ad Orcamo, nobilissimo uomo ne' regni suoi. La quale, i mezzi termini della vita toccati, alla grave vecchiezza sanza figliuoli declinava correndo, e già vedendosi vicina alla età de' parti contraria, ancora che Tebe in pistolenzioso stato con battaglie continue dimorasse per l'ira de' due fratelli, con lagrime a Bacco porse pietosi prieghi che egli i suoi consumare non lasciasse sanza figliuoli. Il pregato iddio, ancora che fatigato fosse per li prieghi a lui pórti continui per la comune salute della patria, diede orecchi a' prieghi, e a' parenti, che non doveano vedere la nata prole, con segni mostrò le loro orazioni essere udite. Laonde Ionia lieta, col marito nella profonda notte avuti dilettevoli giugnimenti, concepéo i disiati frutti; dopo la qual cosa per l'ampio letto sparse i gravi membri e, gli occhi in tenebre vòlti, con lungo silenzio si dispose a' cheti sonni. Li quali poi che 'l sollicito petto ebbero preso con ciascuna altra parte di lei, agli occhi della vegghiante anima apparvero nuove cose: però che a lei pareva dopo la matura pregnezza, invocata Lucina, quale ad Astiage parve che Mandane una vite, tutta Asia adombrante, partorisse, cotale partorire uno nuvolo di maravigliosa grandezza, le cui estremità l'una era premuta dal cielo e l'altra la terra premeva, e infinito la circunferenzia di quella si stendea; il quale con ammirazione rimirando, le parea che quello due volte da terribili folgori fosse rotto, ma dopo picciolo spazio si rintegrasse; e poi la terza volta, vegnente fiamma più poderosa, quello tutto accendea e, acceso, in vapori lievi risolvea, tutto lasciando il mondo aperto. Questa maraviglia ebbe forza di rompere il sonno, e quella, desta, ebbe di dubitare cagione, e già paurosa s'incominciava a pentere della impetrata grazia. Ma poi che i fati apparecchiati alla generata prole per savio agurio le furono fatti palesi, lieta i tempi del dolente parto cominciò ad aspettare. Ma, avanti che quelli venissero, cadde Orcamo ne' sanguinosi campi da Tideo fedito, onde Ionia più dolente con lugubri vestimenti a quelli più s'affrettava, sperando che del frutto del ventre suo Tebe d'un altro Orcamo rintegrerebbe. Venne il tempo, e Lucina, chiamata a' tristi parti, a colei, che più sollecita a' propii beni che alla salute comune era stata, lieti non li volle concedere, ma, dando libera uscita al creato figliuolo, l'anima tolse alla madre. Laonde Ismene, de' fati conscia del garzone, con sollecita cura il ricevette e lui come figliuolo nutricando nominò Achimenide. Ma poi che le male cominciate battaglie, non valuti di Iocasta i preghieri, ebbero fine per li caduti fratelli da pari fato, e le mura composte da chiaro suono, cadendo miseramente, sotto Teseo videro i fondi loro, Ismene, l'ire prima di Creonte e poi dell'iddii fuggendo, ne' regni di Laerte ne portò Achimenide, il quale, piccioletto, appena ancora sanza latte sapeva vivere; e quivi miseramente, sotto spezie di privata persona, lui recò ad età virile e all'arme del padre il diede tutto.

Intanto la fortuna, permutatrice de' beni mondani, tra' Frigi e gli Argivi per la rapita Elena accese odii mortali e mosse inimichevoli armi. Nelle quali igualmente ogni gran greco concorse col suo sforzo; e tra gli altri principale fu lo eloquentissimo Ulisse, il quale Achimenide, già robusto e potente nell'armi, fidandosi nella virtù della sua giovanezza, seco il trasse alle troiane battaglie. Le quali poi che con fuoco e con sangue ingannevolmente dopo più soli furono finite, e il pietoso Enea sbandito cominciò per lo mare a vagare, Ulisse co' suoi, risaliti sopra i suoi legni e venuti dopo molte tempeste nel mare Tireno, in Trinacria, forse da necessità sospinti, presono terra. Dove a Polifemo cacciato l'occhio, frettolosi il mare ricercarono e dimentichi il misero Achimenide tra le furie del Ciclopo in forse della sua vita sanza arme lasciarono. Il quale poi dalle navi nemiche quindi dopo molte paure fu da Enea levato e ne' salutevoli porti del Tevero ad usare l'armi con lui ne fu recato; dove egli, non ignorante del ricevuto beneficio, mirabilmente operò nelle colui vittorie. Le quali poi ch'ebbero fine, e quelli lieto e solo possedeva Lavina, fermate in Laurenzia le sedie sue, Achimenide, tratto da' fati, al figliuolo d'Anchise cercò commiato; e co' suoi avoli participando nella grandezza dello animo, le 'mpromesse fatte a lui ne' tempi della miseria, tratti tra le cieche minacce di Polifemo, cerca di porre ad effetto, e la caduta Tebe rifare sotto migliore cielo. Elli ebbe la dimandata licenzia, e oltre a ciò armi, cavalli, tesori e molti compagni gli concesse il vittorioso prencipe; da cui partito, verso questi luoghi il menò la disposizione delli iddii; e venne in questi campi da pochissime case occupati. Anzi dovete sapere che, essendo Corito bellissimo monte, il quale qui a noi di sopra vedete, di poco tempo appresso lo 'nganno d'Europa abitato da Atalante figliuolo di Giapeto, bene che alcuni dicano da Corito, d'Elettra marito, vi nacquero tre giovani, Italo, Dardano e Siculo, ciascuno di quello cercante il dominio dopo la morte del padre loro. Ma per divino responso il luogo con tutte queste appartenenze ad Italo fu conceduto e agli altri due imposto di cercare nuove sedie; le quali loro apparecchiate da' fati, in altre regioni perverrieno a grandissime cose. Li due fratelli, a ciò disposti, con gran parte de' popoli loro vennero in questo luogo, il quale non tempio, non casaalbero il difendeva dal cielo, fuori solamente una altissima quercia, quivi, come si crede, piantata anzi che Giove allagasse il mondo, con distesi rami, piena di frondi e di ghiande, non lunge di qui trecento passi, inverso il mezzo giorno andando, ci si vedea. Sotto la quale questi si raccolsero co' loro compagni e, accesi pietosi fuochi e uccise cento pecore e altrettanti vitelli, le loro intestine poste sopra i fatti altari, con divota voce così cominciarono a dire:

«O fortissimo prencipe, o duca delle battaglie, o reverendo Marte, li cui focosi raggi i nostri antichi menarono a questi luoghi, exaudevole prendi i nostri prieghi, e i liberi sacrificii, avvegna che rozzi, come lietamente son fatti, così da noi li ricevi; e per la potenzia de' tuoi regni e per le tue eccellenti vittorie, le quali ancora le sparte membra de' Giganti testimoniano in Flegra, e per li santi amori da te alla madre di Cupido portati, prospera i passi nostri e ne' tuoi servigi gli avanza; e questo luogo, il quale quasi nelle estremità del nostro sito natale a' tuoi sacrificii primi abbiamo eletto, sempre potente serva a' tuoi servigi, e questa albore, sotto le cui ombre divoti porgiamo i prieghi con agurio di maggiore tempio, accresci con migliori rami; dintorno alla quale, quanto il nostro arco per ogni parte si può una gittata distendere, come propria nostra ereditaria ragione ti doniamo, il rimanente libera lasciando al reggente fratello. Questa sempre sia inculta da' successori a' tuoi servigi servata; qui giuochi perpetui in onore della tua deità in simile giorno ogn'anno si celebrino ad etterna memoria della nostra partenza».

Aveano detto, quando il cielo, di maggiore luce risplendente e con disusata chiarezza il luogo illuminando, diede segni che quelli prieghi avesse in sé ricevuti, e le passe frondi per lo soperchio sole levarono i loro caccumi. La qual cosa manifestata a tutti i circunstanti, lieti sopra il verde strame con ottima speranza de' tempi futuri si diedono a mangiare; e presi i cibi, i due fratelli co' loro compagni, abbracciando quelli che rimanieno e teneramente dicendo addio, dirizzarono i passi loro a quelle parti le quali ancora etterna memoria tengono de' fatti loro. Il luogo rimase reverendo a' Coritani, e secondo la promessa de' due fratelli li dierono termini, e sacrificii e giuochi ordinarono al potente iddio, e il luogo da' ricurvi aratri e da qualunque morso con sollecitudine inleso servarono; né violenta mano in quello sanza agra punizione s'adoperava già mai. Quivi i Coritani e i circunstanti popoli, se alcuno ce ne aveva, delle bisognevoli cose alla rozza vita trattavano, quivi le solennità de' loro matrimonii celebravano, quivi, i solenni festeggiando, dimoravano le vergini e i loro amanti sotto le grate ombre dell'albero, nel quale la santa deità di Marte estimavano inchiusa, prendendo sopra la verde erba diversi diletti. Ma già ne' secoli delle vittorie d'Enea pervenuti, avvenne per avventura che, il giorno a' solenni sacrificii dovuto essendo presente, i circunstanti e multiplicati popoli con voci sonore apparecchiavano e a' sacrificii e a' giuochi le debite cose, con pompa maravigliosa e intenta a' santi onori dello iddio, quando Achimenide co' suoi compagni pervennero al luogo. E lieti per la trovata festa, già per più interamente vederla, co' loro cavalli si voleano accostare alla santa quercia; ma dell'ordine de' sacerdoti a' sacrificii disposti di quello iddio partendosene, uno venne incontro ad Achimenide con queste parole: «O chi che voi vi siate, o giovani, fermate i passi vostri, né i santi termini co' vostri cavalli violate de' campi di Marte, se la sua ira e quella de' presenti popoli recusate». E loro il solco mostrato, da quello innanzi co' cavalli vietò l'andata. Tirarono a queste voci gli armigeri le lente redini i passi fermando, il loro iddio dubitando d'offendere; e intenti rimiravano le solenni cose e con vago occhio le ninfe quivi venute miravano. Ma mentre che essi intenti a queste cose rimirano, Achimenide, stante sopra uno alto cavallo e di pelo soro, fortissimo, ornato di bellissima arme e lucente di molto oro, forse de' doni da Enea ricevuti coperto, da quello, non giovanti le redine né la forza del soprastante, per mezzo l'adunato popolo e festante, e de' parati flammini sanza offesa d'alcuno trapassati i dati termini, fu trasportato davanti a' santi altari; e quivi con la testa levata, con fremire altissimo fermato, quale Pegaseo fece negli alti monti, cotale in terra dando del destro piede e la terra cavando, che mai violazione alcuna più non avea ricevuta, prima i circustanti turbò con paura e appresso li stupefece con maraviglia. Li quali non dopo molto, veggendo li sacrificii impediti e il santo luogo offeso dalle dure pedate dell'aspro cavallo, comincianti tumultuoso romore, tutti sopra Achimenide si rivolsero; e se quivi pietre o armi fossero state, l'ultimo suo giorno era venuto. Ma elli, rivolto a quello romore, con l'autorità che il suo viso testimoniava, con la mano levata, e a' compagni venuti alla sua salute e a' circustanti popoli impuose silenzio, i quali, ammoniti da' flammini, avvegna che ardenti ne' colui mali, tacendo ad ascoltare si dispuosero lui dicente così:

«O santissimi popoli, vacanti a' sacrificii a me più cari, sanza ragione ma non sanza cagione inver' di me adirati, non sia nell'animo vostro credibile me voluntario qui venuto ad impedirvi, ma invito, tirato dal mio cavallo, come poteste vedere; il quale, forse degli iddii ministro, alle necessarie e promesse cose ignorante m'ha arrecato. Sia adunque la deità reverita da voi testimonia alle mie parole, la quale io strano invoco ne' miei aiuti, e dêa al vero effetto, e con miracolo punisca i falsi detti. Sì come a voi non dêe essere occulto, diverse sono le disposizioni degli iddii e sempre nuove cose apparecchiano al mondo; delle quali se voi, com'io credo, avete alcuna volta sentite, con minore maraviglia i miei fati ascolterete, e quello che al vostro e mio iddio è piacere benivoli adempierete. Io, nato di tebano padre e per madre delli sventurati prencipi della città medesima, picciolissimo nelle ultime tribulazioni della mia terra trasportato nelle terre del narizio duca, vi fui cresciuto; e da lui, il quale io seguitai a vendicare l'onte de' Greci, dopo le frigie fiamme lasciato nell'isola del foco, quivi nutricato da erbe, temente le cieche mani del furioso Ciclopo, vidi più soli in molta miseria. Nella quale mentre io già con barba prolissa e con ravolti capelli, da' logori vestimenti lasciato ignudo, miseramente vivea, già più bestia parendo che uomo, più volte udii gli amori di quello portati a Galatea in rozza canzone; e dopo quelli, della privata luce dolendosi, più s'accendeva nell'ire. Onde io, più volte stato presso alle sordide mani tentanti ogni cespuglio, spesse fiate m'imaginai co' miei membri compiere la sua rabbiosa fame; e timido, non sappiendo che farmi, in ultima disperazione, posto con le ginocchia curvate sopra la salvatica terra, levato il viso al cielo, cotali voci porsi al nostro iddio:

"O Marte, ne' cui servigii dinanzi a' monti Ogigii cadde il padre mio, e il quale io ho sempre seguito nelle fiere battaglie, e seguirei se luogo mi fosse dato, volgiti pietoso a' danni miei. E se nella tua deità vive quella virtù che già più volte, da Agamennone cantata, pervenne ne' miei orecchi, questa vita ferina non dêe essere mia né disarmato debbo per sepultura avere le crudeli interiora del Ciclopo. Alla quale se tu non sovvieni, già disperato e più non possente a sostenere le presenti tristizie, alle lungamente fuggite mani per ultimo fine de' danni miei moribundo mi porgerò di presente".

Io avea di poco queste parole finite; e quasi come se nell'aure perdute l'avessi, la morte, alla quale sanza indugio mi disponea, pietoso di me medesimo lagrimava, quando tra li rotti monti e i fracassati alberi orribile voce, forse come a Cadmo venne rimirante il serpente, mi percosse gli orecchi con queste parole:

"O figliuolo di Ionia, serva la vita tua utile ad alti fati. Tu, tolto di qui dal figliuolo della nostra Venere, ora cercante i regni italici, con lui ne' campi latini acquisterai nelle mie armi mirabile gloria. Dopo la quale, in Etruria, tra popoli a me molto grati, edificherai mura e templi alla deità nostra dove il tuo cavallo, con forte unghione fermato, caverà la terra dinanzi a' miei altari sotto fruttifero albero, construtti per adietro da Dardano; e quivi rinoverai la caduta Tebe ne' miei servigi".

La dolorosa mente temperò le lagrime, e con migliore speranza tanto rimirai l'onde che i promessi legni venuti mi tolsero da' salvatichi luoghi e trasportarono a' detti campi, ne' quali, favente Marte, ciò che promise ottenne il troiano duca, e io. Da cui io, seguendo le cose promesse, mi partii con molti doni; né animoso d'offendere venni qui, sì come il divino uccello ne' raggi d'Appollo, sotto la cui protezione mi vedete, vi può palesare, ma per trovare con pace l'annunziate cose dalla santa bocca, le quali ancora in niuno luogo trovai se non qui. Se questa è Etruria, se qui gli altari sacrati dal pietoso Dardano sono, voi il sapete; e se sono essi, il mio cammino è finito per li veduti segni del mio cavallo: qui le non pensate sedie da voi sì furono largite da Marte, le quali io, sanza ingiuria d'alcuno, domando che mi siano date; e tu, o santissimo iddio e aiutevole ne' bisogni, sii presente e favoreggia i doni promessi al tuo suggetto».

Queste parole dette da Achimenide, l'antica quercia si mosse tutta e l'accese lampane diedono maggiori lumi e i sagrati campi mandarono fuori infiniti fiori e i cavalli, stati chetissimi infino allora, diedero fortissimo fremito e i cuori di tutti gli ascoltanti si riscossono. Per le quali cose, maravigliose e vere reputarono le parole del parlante Achimenide, e dopo picciolo spazio sanza altra deliberazione reverenti cercarono la sua pace, la quale avuta, con multiplicata festa con lui e co' suoi compagni i sacrificii e' giuochi rincominciarono. La fine de' quali venuta, tutti profertisi a lui, ricercarono le loro case. Ma a questi luoghi vicina, sopra l'onde del piacevole Sarno, una ninfa discesa di Corito, nobile di sangue e di costumi, Sarnia chiamata, in ispaziose case con non gran popolo abitava; e il suo nome avea imposto a' luoghi, e villa sarnina la chiamavano tutti. La quale, l'avento sentito del nobile uomo, con altre accompagnata, il visitò alle feste e lui co' suoi compagni lieta ricevette nelle sue case. Nelle quali Achimenide con agurio di dimoranza etterna ne' presi luoghi lei ancora vergine con matrimoniale legge si giunse, contenta di tale marito. E dopo i riposati affanni con diliberato consiglio diede ordine alla nuova Tebe e sotto antiveduta costellazione, Marte dimorante nelle sue forze, a riverenza di lui fondò le mura di questa, contenta di piccolo cerchio ne' suoi principii, né in alcuna parte i termini dati dalli primi sacrificanti né 'l luogo passò. E poi che elli ebbe alle porti e alle torri ordinati i luoghi loro, tolta via l'antica quercia, colà dove dimorava, a Marte compuose in forma ritonda uno onorevole tempio, il quale ancora in piè dimorante, ornato di marmi varii, la sua grandezza ne mostra. E quindi alle rughe e all'alte rocche e alle case popolesche die' forma, raccogliendo in essa gli abitanti di villa sarnina e qualunque altro, sopra essi tenendo piacevole dominio e grato a' sottoposti. Elli, già d'anni abondevole e tutto bianco per la sopravenuta vecchiezza, vedendo la posta terra d'abitanti ripiena e a' cari compagni spose e ciascuno di figliuoli abondante, sì come egli medesino abondava, contento l'anima rendé all'iddii. Al quale succedette Iolao, suo maggiore figliuolo, nella signoria; e questi, similmente in anni e in fortuna multiplicato, vecchio morendo, a' successori lasciò il dominio. A' quali non fu come a' primi benivola la fortuna. La quale, dante ne' principii i beni con mano troppo larga, a quelli di Corito li rendé invidiosi; e tra loro de' termini della iurisdizione della loro città nata mortale quistione, nuove battaglie cominciarono tra' popoli; e costei, ritratta la mano, sovente in danno de' cittadini nuovi le rivolgeva. Laonde mesti e non usati a' danni, mal pazienti le sostenieno; e più volte l'ire piansono degli iddii, i quali né prieghisacrificii pareva che mitigare li potesse, né offese commesse si conosceano per le quali adirati giustamente essere dovessero contra la nuova terra. Onde, dopo lungo pensare, solamente restò loro nell'animo che lo sfortunato nome della città i miseri fati avesse, seco dicendo:

«Ancora durano gli odii degli iddii in questo nome, e i dolorosi casi venuti sopra la generazione cadmea ancora sopra noi caderanno, e nelle dolorose ruine de' figliuoli del solvitore de' problemati di Spingòs disaveduti incapperemo, se lungamente dura questo nome a' nostri luoghi».

Per la qual cosa di piana concordia a dare a questa altro nome dispostisi, per quello speravano più benigna fortuna. Ma essi, di popoli varii ragunati, diversi disiderii ebber tra loro. Altri voleano che quella si chiamasse Mavorzia dal principale iddio reverito da loro, alcuni, estimando questo battaglievole nome e più atto ad accendere danni che a spegnere, più utile Sarnia estimavano, questa dal nome della prima donna volendo nomare, e tali erano che Achimenida la voleano chiamare, e i più antichi Dardania; e così discordanti, né sorte né altro li poteva accordare, onde per diliberazione comune nell'albitrio delli iddii rimisono il nominarla. E però che in quella non solamente ad uno porgevano incensi, ma già ripiena di meccanici varii, a diversi sacrificii donavano e a tutti aveano templo ordinato, ciascuno, accesi fuochi al suo, con pietosi prieghi porse il suo disio. I nebulosi fummi si risolveron nell'aere, e i riscaldati altari e i dati sacrificii co' pórti prieghi toccarono gli iddii, li quali, come pregati, intenti a' disiderii de' preganti discesero in questo luogo ove noi stiamo. E se alcuno cittadino fu di questo avvisato, egli poté vedere qui Marte focoso di molti raggi armato tutto e al sinistro suo omero uno scudo vermiglio grandissimo; e con lui la saturnia Giunone per autorità e per abito reverenda; e apresso a loro la discreta Minerva ornata delle sue armi, e il sagace Mercurio con la sua verga e col cappello e con le volanti ali; dopo li quali la bellissima Venere con le sue bellezze aperte, insieme con Vertunno, il quale le varie forme avea lasciate e tenea la propia. Questi sei solamente ne dice la reverenda antichità che furono chiamati al detto uficio, li quali ancora che pieni fossero di ragione, niuna concordia dello imposituro nome fra loro avere si potea. Per la qual cosa giudice nella loro quistione elessero Giove, davanti al quale ciascuno per sé pórte efficaci ragioni, titubante il giudicio nella mente del giudicante, a quelle niuna cosa disse. Ma pensata nuova maniera a decisione della presente quistione, così parlò:

«Chi saria giusto giudice a dimostrare quali parole delli iddii abbiano più forze, con ciò sia cosa che tutti e lingua pari e iscienza tegnate? I vostri effetti mostrino chi più possiede della tencionata quistione, de' quali qual più sarà eccellente, a colui il mutare nome a Tebe che si convenga giudicheremo. E nel mostrare quelli da voi si terrà cotale ordine: noi daremo a ciascuno in mano un picciolo bastone, col quale ciascuno di voi una volta sola batterà il fiorito prato ove noi dimoriamo; e a cui davanti più laudevole cosa surgerà di quello colpo, da tutti voi ad un'ora donato, colui giudicheremo che dêa l'etterno nome».

E detto questo, levatosi da sedere, con le mani sante divelse un giovane cornio solo crescente in dritta verga, e quello in sei diviso, a ciascuno diede la parte sua, e comandò che ferissero; li quali tutti ad una ora ferirono. E subitamente si vide dinanzi a Marte, aperta la terra, infra le belle erbette e' fiori, con mormorio non intendevole soffiando, uscire una chiara fiamma, quale forse già da' nostri antichi prima fu, in fummi ravolta, veduta uscir di Veseo; e stante ferma, non ricevea impedimento dal sole. E alla sacra Giunone, che con lieve colpo avea il prato percosso, quale ad Orione sopra le piane acque apparve il ricurvo dalfino, cotale, in alto levata la terra, un picciolo monte si vide davanti, del quale cadute le verdi foglie, quello essere lucentissimo oro lasciarono vedere. Ma alla savia Minerva, sedente alla sinistra di lei, nella presenzia si vide l'erbe prendere sùbita forma di vestimenti cari per maestero e per bellezza, non altrimenti cambiandosi che le tele delle figliuole del re Mineo in tralci con pampini per lo peccato commesso del dispregiato Bacco. Ma a Mercurio, che con ammirazione il luogo ferito da lui riguardava, così come ne' colchidi campi arati dal tesalico giovane sùbito di serpentini denti si videro surgere armigeri, si poté riguardare, prima col capo irsuto, poi con aguti omeri e quindi tutto l'altro busto d'uno ruvido satiro uscire della terra e, sanza dire nulla, salvatico nel suo cospetto porsi a sedere. Appresso si vide davanti alla pietosa Venere diritti gambi, di frondi verdissime pieni, cotali della terra usciti quale la turea verga fu della sepultura di Leucotoen produtta da Febo, e quelli di bianchissimi gigli carichi nelle sommità loro. E ultimamente, come la terra dal tridente di Nettunno percossa partorì un cavallo, così davanti a Vertunno uno orecchiuto asino, il quale ragghiando fece tutto questo piano risonare, si vide uscito. Di questo risono tutti gl'iddii; ma, le risa rimase, ciascuno attento il viso rimirando di Giove, attendevano la sentenzia. Ma egli, questi effetti veduti, con alto pensiero li rivolge nel santo petto, e con estimazione da non opporvi, in sé di quelli giudica in questo modo. Egli prima l'asino vile e inerte, più di romore pieno che d'effetto, indegno di queste cose il condanna, e i gigli, avvegna che belli, caduci e poco duranti conosce; il satiro, reo e malvagio e con agreste aspetto disposto a male operare, agurio di futuro infortunio il reputa; le veste, avvegna che utili, fragili le conosce, e la massa dell'oro pigra e di briga cagione e d'affanni, né per sé medesima nobile, come pare agli stolti, discerne; e solo nella sua mente il fuoco utile a ogni cosa, etterno e a sua deità simile più ch'altro estimò dopo lungo pensiero. Per che così con voce aperta proferse agli aspettanti dèi:

«O meco tegnenti le case superne, con voce inrevocabile per sentenzia doniamo l'onore del nominare la presente città al belligero Marte, producitore in questi luoghi di più mirabili effetti che alcuno di voi».

Niuno mormorio degli ascoltanti seguì queste parole, ma taciti aspettarono quale nome a quella si donasse da Marte. Il quale, acceso di rossa luce, i visi degli iddii rimirando, alquanto quello della sua amica conobbe turbato, però che focosa, tacendolo, avea desiderato cotale onore. E se egli i detti di Giove avesse potuti passare, liberamente a lei avria conceduto il suo disio; ma, non potendo, in cotal modo pensossi di contentarla. E levato il capo, con alta voce mosse queste parole:

«Ecco che a me è dato di potere, come mi pare, imporre il nome tra tanta gente di questa città vacillato. Il quale io da me o da' miei effetti volentieri donerei; ma però che orribili sono e di battaglie dimostratori, più piacevole ho di donarlo estimato».

E Venere rimirata nel viso e poi con mano presi i fiori di quella, seguì:

«La stagione e questi, ad essa non disiguali, da questi mi tirano a nominarla; per che io per etterno nome le dono Florenzia. Questo le sia immutabile e perpetuo infino negli ultimi secoli. E perciò che essi sono alle mie battaglie disposti e sanza segno contra i nimici s'afrontano, per vittorioso segnale il mio scudo voglio a quella lasciare; e acciò che quello col nome sia uniforme, uno di questi gigli bianchissimi voglio aggiugnere a quel vermiglio».

E così fece. Queste voci e più gli effetti renderono al viso di Venere la letizia. E il prato si riprese le cose produtte e il cielo ricevette gli iddii; solo Marte agli aspettanti apparve nel tempio suo, e a quelli, il nome manifestato e 'l segnale, lasciando lo scudo suo, come gli altri aveano fatto se ne salì a' suoi regni contento. I cittadini lieti, per doppia cagione exultanti, renderono debite lode di tanto dono e aggiunsero sacrificii al loro iddio e crebbero il numero de' suo' sacerdoti e quello giorno costituirono solenne per sempre mai; e preso il nome e lo scudo per bonissimo agurio, mirabile frutto con intera speranza nel futuro attendeano del fiore. E in brieve tempo, dopo il mutato nome, più che mai si sentirono la fortuna benigna; per la qual cosa gli animi egregi disposero ad alte cose; e ampliato il loro senato e il numero de' padri cresciuto e tutti armigeri divenuti, levatosi l'aspro giogo de' Coritani, già soprastanti per le indebilite virtù, si rintuzzarono le loro forze che appena il monte erano osanti discendere; né alcun altro vicino con loro sanza danno imprendeva la battaglia. E sì loro era graziosa stata Lucina che in brieve, riempiute l'antiche mura, gli strinse ad ampliarsi, e più si fecero al fiume vicini, e ogni di bene in meglio avanzando, Roma e la gran Capova eccettuate, già tra l'altre città italice la migliore si potea raccontare. Ma però che la non durante fortuna, quanto più le cose mondane alla sommità della sua rota fa presso, tanto più le fa vicine al cadere, non volendo questa estorre da quella legge, chiusa la larga mano allora che meglio si pensava di stare, le sue mutazioni le fece conoscere. E caduta nell'ira di Lucio Silla, disperso il suo pieno popolo in molte parti, lei sotto l'asta vendéo, anzi, come alcuni dicono, le fece con amaro colpo sentire la sua prima ruina; e da alcuno iddio non atata, consumata da molto fuoco, appena fra la cenere riservò i suoi vestigii con l'antico tempio. Ma Sarno lei vedendo ne' danni estremi venuta e non potente resistere alle sue onde, però che chiamato non fu alla sua nominazione con gli altri iddii verso quella crucciato, vedendo il tempo atto alle sue vendette, l'ire lungamente tenute nascose, uscendo de' termini suoi, fece palesi; e gonfiato e d'acque abondevole allagò questo piano, e le lievi ceneri cadute delle triste reliquie con torbida fronte ne portò in Occeano, poi lieto tornando ne' suoi confini. E così con trista sembianza infino a' tempi di Catellina si stette, gl'inganni del quale, da Cicerone scoperti, gli furono cagione di lasciare Roma e di fuggire in Fiesole, allora fortissima, come ancora si vede, nella quale gran parte riparavano de' suoi seguaci. I quali poi che con lui miseramente nel campo Epiceno furono deleti, a porre freno a' rigogli di quella, per li romani padri si diliberò di restaurare le cadute mura di questa di cui parliamo. E qui, forse a rintegrare i beni dubbii della romana republica, venuti i romani prencipi Gneo Pompeo e Gaio Cesare e altri, in picciolo cerchio con edificii mirabili simile a Roma rilevarono Florenzia, e insieme di romani nobili e di potentissimi fiesolani lo sparto popolo renderono alle mura. Rifatte le quali, con nome dubbio e non meno nel romano senato litigato che prima, stette bene per uno secolo, da diversi diversamente chiamata. Ma ultimamente, riassunto il vero nome che ancora tiene, felice sanza ampliarsi infino a' tempi del crudele vandalo, d'Italia guastatore e ferocissimo nemico dello imperio romano, si stette, già fedele divenuta a colui che fece tutte le cose. Ma i frodolenti avvisi dello iniquo tiranno con più spargimento di sangue che prima diedono via alle seconde fiamme; e così, con poche rocche e col ritondo tempio in piè rimase, per più secoli stette distrutta; e di vepri riempiuta e di pruni, di sé appena porgea altro indizio che ora faccia Troia ne' luoghi suoi. Ma poi che per lo gallico prencipe magno furono con Desiderio re le longobarde rabbie atutate, con più prosperevole agurio da' padri, che altra volta l'aveano rifatta, fu riedificata la terza fiata; e da quelli insieme con li costretti Fiesolani fu abitata e chiamata il propio nome infine a questi giorni. E avegna che Vulcano con ispaventevoli fiamme e Tetide con onde multiplicate e il non reverito Marte con furibunde armi e Tesifone con seminate zizzanie e Giuno con turbamenti contrarii più volte si sieno gravemente opposti alla sua salute, e crolli da temere molti l'abbiano donati, sempre è in istato multiplicata maggiore e delle passioni sostenute riuscita più bella; e con maggiore giro presa la terra, piena di popolo, in mezzo s'ha messe l'onde nimiche delle sue mura. E oggi più potente che mai, in grandissimi spazii si veggono ampliati i suoi confini; e sotto legge plebea correggendo la mobile pompa de' grandi e le vicine città, gloriosa si vive, presta a maggiori cose se l'ardente invidia e la rapace avarizia con la intollerabile superbia, che in lei regnano, non la 'mpediscono, come si teme. In questa, nella parte posta di dall'onde, gli avoli miei e il mio padre nacquero e io, e da diminutivo di regali fummo cognominati. Il quale mio padre, da' celestiali nunzii prima che Cefiso nominato, portante le sue ali vermiglie nell'oro, sopra queste onde prese la madre mia, e me, di grazia piena, ingenerò sopra quelle. E negli anni debiti mi donò ad isposo, i giorni del quale tosto venuti meno mi furono cagione di congiugnermi ad altro per simile legge; col quale come io vivo contenta qui non è ora da raccontare. Ma essendo io dalla mia puerizia a Cibele divotissima stata e avendo sotto la sua dottrina visitati i monti e gli archi usati e le saette, tutta di Venere, non so come, nelle fiamme m'accesi. E avegna che quelle molto celi la mia sembianza, le mie voci non le poterono nascondere, anzi vaga cantando sovente sopra la prossima riva, presi Ameto del mio piacere e fui presa del suo, come potete vedere. Elli, rozzissimo, e nato di parente plebeio vicino al luogo dov'io nacqui e [i predecessori suoi], forse per loro virtù tegnenti cognome d'ottimo, fu di nobile ninfa figliuolo. Della quale i parenti, così gentili come antichi, sopra l'onde sarnine abitan quasi nella infima estremità della parte opposta a questi luoghi; e se più un gambo la prima lettera avesse del loro cognome, così sarebbono chiamati come le particelle eminenti delle mura della città nostra. Costui, seguitandomi, ho io tratto della mentale cechità con la mia luce a conoscere le care cose, e volenteroso l'ho fatto a seguire quelle; e già non crudoruvido sembra, se bene si mira, ma abile, mansueto e disposto ad alte cose si può vedere. Per la qual cosa non meno a Venere tenuta di voi, come voi fate, così con sacrificii l'onoro, e farò sempre. -

E quinci, acciò che l'ordine servasse dell'altre, cantando cominciò questi versi:




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