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Giovanni Boccaccio
Comedia delle ninfe fiorentine

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La saetta, dal mio arco mossa, tocca li segni cercati con volante foga; e le bianche colombe, pasciute negli ampi campi, gratulanti ricercan le torri; e gli stanchi cavalli, compiuto il corso, domandan riposo; e così l'opera mia, guidata per gli umili piani, temente d'Icaro li miseri casi, alla sua fine presente. Riceva adunque la santa dèa, me a queste cose aiutante, i suoi incensi; e le meritate ghirlande coronino la bella donna, della faticata penna movente cagione. E tu, o solo amico, e di vera amistà veracissimo exemplo, o Niccolò di Bartolo del Buono di Firenze, alle virtù del quale non basterieno i miei versi, e però tacciole, avegna che sì per sé medesime lucono che di mia fatica non hanno bisogno, prendi questa rosa, tra le spine della mia avversità nata, la quale a forza fuori de' rigidi pruni tirò la fiorentina bellezza, me nell'infimo stante delle tristizie, dando sé a me con corto diletto a disegnarsi. E questa non altrimenti ricevi che da Virgilio il buono Augusto o Erennio da Cicerone, o come da Orazio il suo Mecena, prendevano i cari versi, nella memoria riducendoti l'autorità di Catone dicente: - Quando il povero amico un picciolo dono ti presenta, piacevolmente il ricevi -. Certo io a te valoroso cotale la mando, sentendo nullo altro a me essere Cesare, Erennio o Mecena se non Niccolò. Nella quale se forse in fronda o altra parte si contenesse alcun difetto, non malizia, ma ignoranza n'ha colpa. E però liberamente l'examinazione e la correzione d'essa commetto nella madre di tutti e maestra, Sacratissima Chiesa di Roma, e de' più savi e di te. La quale poscia ti priego conservi, sì come tua, nel santo seno, nel quale il fattore d'essa hai con amore indissolubile sempre tenuto; e vedova e lontana alla sua donna, lieta non altrimenti che io, consola con la soavità della voce tua infino a tanto che, con quella giungendosi, intera senta la sua letizia.

 

Compie la Comedia delle ninfe fiorentine.




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