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Giovanni Boccaccio Comedia delle ninfe fiorentine IntraText CT - Lettura del testo |
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[VIII] Febo salito già a mezzo il cielo con più dritto occhio ne mira e raccorta l'ombre de' corpi che gli si fan velo; di lui fuggire e l'ombre seguitare fin che da lui men calda ne sia pórta la luce sua, che nell'umido mare ora si pasce, e in terra pigliando il cibo quale a sua deità pare. E ogni fiera ascosa, ruminando quel c'ha pasciuto nel giovane sole, tien le caverne, lui vecchio aspettando. Fra l'erbe si nascondon le viole per lo venuto caldo, e gli altri fiori mostran, bassati, quanto lor ne dole. Nessun pastore è or rimaso fori ne' campi aperti con le sue capelle, ma sotto l'ombre mitigan gli ardori. Taccion le selve e tace ciò che in quelle suol far romore; e ciò che fu palese al basso Febo, or è nascoso in elle. Le reti ora parventi son distese, e gli archi, per lo caldo risoluti, porger non possono or le gravi offese. Né son sì forti aguale i ferri aguti delli volanti stral' fatti ferventi da' caldi raggi allor sopravenuti. E ciascheduna cosa i blandimenti ora dell'ombre cerca; ma tu sola, Lia, trascorri per l'aure cocenti; e, trascorrendo, alli occhi miei s'imbola la vista della tua chiara bellezza, che sol di sé ognor più mi dà gola. Deh, lascia omai delli monti l'altezza, non infestar le selve e te con loro: vieni al riposo della tua lassezza. Discendi a questi campi con quel coro piacevole che, teco in compagnia, suol sempre far grazioso dimoro. Vedi qui l'acque, vedi qui l'ombria e' campi erbosi sanza alcun difetto fuor solamente che tu in essi sia. Adunque vieni; e l'usato diletto prendi come tu suoli, e gli occhi miei lieti rifà col tuo giocondo aspetto. Perdona a' tuoi affanni, a' qua' vorrei più tosto esser compagno che salire a far maggiore il numero de' dèi. Perdona all'arco e a' can, che seguire più non ti possono, e omai discendi a questi prati, o caro mio disire. Qui dilettevoli ore a trar contendi, e 'l dilicato corpo, all'ombre grate lieta posando, sopra l'erbe stendi. Qui, come suol', cantando, altre fiate, ne vieni omai: perché dimori tanto di render te all'ombre disiate? Le tue bellezze, degne d'ogni canto, non possono esser tocche col mio metro non degno a ciò; ma pur dirònne alquanto. Tu se' lucente e chiara più che 'l vetro, e assa' dolce più ch'uva matura nel cor ti sento, ov'io sempre t'impetro; e sì come la palma inver l'altura si stende, così tu, vie più vezzosa che 'l giovinetto agnel nella pastura; e se' più cara assai e graziosa che le fredde acque a' corpi faticati o che le fiamme a' freddi o ch'altra cosa; e' tuo' cape' più volte ho simigliati di Cerere alle paglie secche e bionde, dintorno crespi, al tuo capo legati; e le tue parti ciascuna risponde sì bene al tutto, e 'l tutto alle tue parti, se non m'inganna quel che si nasconde, che per sommo disio sempre ammirarti di grazia chiederei al sommo Giove di star, sol ch'io non credessi noiarti. Dunque, se quella dea ti guida e move, di cui tu già cantasti, vieni omai: non è quest'ora a te essere altrove. Fa salve le bellezze che tu hai, che dal calor diurno offese sono ogni ora più che tu più isterai. Vienne: io serbo a te giocondo dono, ché io ho colti fiori in abondanza, agli occhi bei, d'odor soave e buono. E, sì come suole esser mia usanza, le ciriege ti serbo; e già per poco non si riscaldan per la tua stanza. Con queste bianche e rosse come foco ti serbo gelse, mandorle e susine, fravole e bozzacchioni in questo loco, belle peruzze e fichi sanza fine, e di tortole ho preso una nidata, le più belle del mondo, piccoline, con le qua' tu potrai longa fiata prender sollazzo; e ho due leprettini, pur testé tolti alla madre piagata dall'arco mio; e son sì monnosini che meritâr perdon, veggendoli io. E ho con lor tre cerbi piccolini che, nelle reti entrati, con disio per te li presi; e ho molte altre cose, le qua' ti serbo, donna del cor mio, pur che tu scenda tosto alle pietose ombre, lasciando le selve, alle quali non ti falla il tornar, quando noiose non fien le fiamme a seguir gli animali.
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