Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Giovanni Boccaccio
Comedia delle ninfe fiorentine

IntraText CT - Lettura del testo

  • [XVIII]
Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

[XVIII]

- Ameto, non come la più savia ma come la più antica, acciò che le più giovani lascino ogni vergogna, prima darò per lo tuo effetto forma nel ragionare al grazioso coro, al quale te abbiamo eletto antiste; e tu, acciò che ben conoschi come la tua Lia, molto da te amata, è più da dovere essere, sappi per exemplo de' nostri amori sollicito ubidire, notate le nostre cose. -

E quinci, dirizzato il chiaro viso inverso l'altre, le quali in atto tutte si mostravano attente, disse:

- Nel rilevato piano dall'onde egee, nel quale siede la terra bellissima del cui nome fu tanta lite intra gli iddii, tolse Marte con pattovita legge la sua virginità ad una piacevole ninfa, quelli luoghi abitante; la quale, poi che sé corrotta dal potente iddio conobbe, sanza commiato abandonò di Diana il grazioso coro, forse di Calisto cacciata la vergogna temendo. Ma per lo tolto fiore in guiderdone la riempié lo dio di grazioso frutto; il quale poi che fu maturo, nelle sue case a sé simile partorì una vergine; e quella, con istudio solenne nutrita, perdusse ad età atta a' matrimonii chiara di felice bellezza; ma quale cagione a ciò la movesse, o che sanza crini nascesse o che quelli per sopravenuta infermità perdesse, m'è occulto: ma so che da lei fu nominata Cotrulla. E essendo carissima dalla madre servata al debito tempo, fu sposata ad uno giovane di nobilissimi parenti disceso nel detto luogo, nel quale o egli o' predecessori suoi, forse quivi del divino uccello in vece, il dominio servarono e da quello trassero il loro cognome ancora durante; a cui tanto piacque la giovane che, i suoi e il suo primo cognome lasciando, a sé e a' discendenti di lui, de' quali copiosamente gli concesse Lucina, il propio nome impuose della sua donna, non perituro in loro giammai. Di costui discendendo, nel solennissimo luogo già detto nacque il padre mio, e quivi, d'armata milizia onorato, visse eccellentissimo ne' beni publici tra' reggenti, e, de' beni degli iddii copioso, me, a lui donata da loro, nominò Mopsa. E vedentemi nella giovinetta età mostrante già bella forma, a' servigi dispose di Pallade; la quale me benivola ricevente nelle sante grotte del cavallo gorgoneo, tra le sapientissime Muse commise, dove io gustai l'acque castalie, e l'altezza di Cirra tentante le stelle cercai con ferma mano; e i palidi visi, quelli luoghi colenti, sempre con riverenza seguii; e molte volte, sonando Appollo la cetera sua, lui nel mezzo delle nove Muse ascoltai. Ma, già pervenuta all'età debita a' matrimonii, il mio padre, forse da Giunone infestato, estimò la mia forma degna d'abracciamenti; e come pio padre, - benché in ciò non seguisse pietoso l'effetto come l'avviso, in quanto la ricevente parte, ma non colei ch'era data, ne fu contenta, - egli ad uno, seguente Vertunno con sommo studio, mi congiunse con santa legge a procrearli nipoti, me a ciò allegante per naturale debito a lui obligata. E quelli che a me, a' mandati paterni ubidiente, non renitente fu dato, ricordandolo, mi mette paura, pensando che elli di colui tenga il nome che da Gaio Julio quinto ritenne il monarcale uficio sublime, e che il mondo già fe', ma più la propia madre, di sé con maraviglia dolere, vendicando le colpe a sua utilità contra Claudio e Britanio miseramente commesse.

Questi, a me per penitenzia etterna donato, non per marito, con la turpissima sembianza di lui non poté fare che sì i casti suoi abbracciamenti mi fossero cari, che Pallade, da me prima seguita, fosse per quelli obliata, ma più che mai mi diedi a' suoi servigi. I quali con intenta cura seguendo, avvenne un giorno, nel tempo nel quale Febo, la caniculare stella lasciata, con luce più temperata i raggi suoi moderava sotto le piante del Leone nemeo, che io, lasciate le sollecitudini, acciò che con più aperto seno prendessi i freschi venti, sopra li marini liti presi sollazzevole via. E, ogni paura da me cacciata, soletta, con imaginevole cura ne' passati studii la memoria non pronta affannava; sopra li quali così andante, a sé mi trasse più nuovo pensiero, però che, ver l'acque mirando, in picciola barca fluttuante vidi di bella forma uno giovane, il nome del quale, sì come poi apparai da' suoi, era chiamato Affron. Egli, sì come io con vista infallibile presi, vago de' diletti dell'acque e pauroso di quelle, né gli alti mari pigliava né in terra del picciolo legno discendere volea, ma, a quella vicino, mareggiando con mal dotta mano semplicetto s'andava. E poi che io con più intento riguardo l'ebbi mirato, piacque agli occhi miei la sua bellezza e, sospinta dalla santa dèa di cui qui, come posto avemo, ora ragioniamo, con voce assai soave il cominciai a rivocare in ferma terra. Ma egli, o per salvatichezza o per disdegno che se 'l facesse, non che egli consentisse a me chiamante, ma appena mi pur rispuose; e su per li vicini liti con maggior forza mosse la inferma barca. Io seguiva lui non scostantesi guari da' marini liti e con focoso disio mirava la rozza forma e sollecita temea i suoi pericoli manifesti agli occhi miei; e, con tutto che oltre al dovere verso di me il vedessi salvatico, pure, da amore vinta, gli predicava i danni suoi, confortandolo a fuggir quelli. Ma le mie voci operavan niente e tanto più cresceva il mio disio, onde più volte in mare mi volli gittare per prendere lui; ma temente degli iddii dell'acque, ricordantemi di ciò che già fatto aveano alla misera Silla e alla fuggente Aretusa e a molte altre, con paura temperai le mie voglie e ritorna'mi pure al rimedio delle mie boci, pensando con quelle, più che con la corporale forza, giovare a' miei disii; e così dissi:

«O giovane, cui fuggi tu? Se tu fuggi me, niuna cosa ti dovrà far sicuro: io non sono fiera pistilenziosa cercante di lacerare i membri tuoi, come i cani d'Atteone miseramente cercarono il lor signore, né baccata ti seguo con quel furore che la misera Agave con le sue sorelle seguitaro e giunsono Penteo. Io sono di questi luoghi nobilissima ninfa, te sopra tutte le cose del mondo amante; dunque non me, ma più tosto, a me venendo, fuggi i tempestosi mari, a te e a qualunque altro in quelli mareggiante sotto falsa bonaccia continuo serbanti ascosa fortuna. Chi dubita che Danne vorrebbe avere più tosto Febo aspettato, poi che con riposato animo conobbe la sua deità, che avere sì subitamente lo inrevocabile aiuto degl'iddii ricevuto, per lo quale ancora si mostra verde? Nullo che con diritta mente penserà a' dilettevoli congiugnimenti avuti poi da lui con Climenes. Adunque e tu similmente la durezza, apparecchiante nocimento se tu non vieni, fuggila: tu sarai da me ricevuto non con altro abbracciamento che il faticato e molle Leandro fosse dalla sua Ero; del quale abbracciamento mai simile non sentisti. Dunque che fai? Quale simplicità, quale temenza ti tiene? Quale Eumenide dèa ti spaventa? Hai tu forse paura di me, non forse così di me ti seguisca, temendo quale ad Ermofrodito di Salmace adivenne? Fugghino gl'iddii che tali effetti a sì fatti casi ne perducessero: altri desiderii sono i miei e altri quelli di quella; i quali poi che tu avrai conosciuti, maladicerai con dovuta ragione la tua durezza. O puote la forma mia essere di paura cagione a niuna persona? Io, sì come la più bella di monte Parnaso, sono più volte da molti dèi stata cercata e molti me hanno seguita; e Apollo ad una ora luminante il cielo e la terra, acciò ch'egli fosse della mia grazia degno, mi fece tutte le sue virtù note, né alcuna sua arte, non tanto fosse segreta, mi tenne occulta e diedemi l'essere creduta in ciò ch'io dicessi: quello che a Cassandra, ingannato da lei, tolse; e oltre a ciò mi concesse essere etterna. E tu, forse non sappiendo chi io mi sono, mi fuggi; e però odilo. Io sono di nobili parenti discesa, servitrice di Pallade, a tutto il mondo reverenda dèa, e per li meriti di quella sono ninfa nel monte Parnaso; e ne' miei teneri anni a' petti della Muse, in quello abitanti, bevvi il dolce latte; e quindi pervenni all'età ferma come tu mi vedi. E tanto nel cospetto della mia dèa sono graziosa che, operante ella, i segreti oraculi di Cirra mi sono manifesti, e con etterna memoria l'antiche cose veggio continuo; e similmente le future, come se davanti mi fossero, mi sono manifeste. Tu solamente, a me presente, se' a conoscere per subitezza difficile e me di me medesima fai dubitare. Ma, come che la difficoltà si profondi, pur te degno per la tua forma della mia bellezza cognosco, la quale ancora lieto possederai, se non m'inganna quello ch'i' ho più volte già veduto. Ma il disio mi strigne a raccorciare il termine il quale la tua durezza distende oltre dovere. Vieni adunque, o giovane: io ti farò di più graziosa arte maestro che il navicare. Io ho a mia posta lo scudo della mia dèa, coperto del cuoio della nutrice di Giove, e l'asta di Minerva e i suoi vestiri; e serbo i suoi uccelli alli tuoi giuochi; e quella spada con la quale Perseo la misera testa tagliò di Medusa, sì sarà tua. E così armato di tutte queste cose, quando ti piacerà le più alte regioni vedere, ti mosterrò come a' piedi ti deggi porre le sue ali con arte più somma che quella di Dedalo temente i caldi cieli e l'umide onde. Io ti farò conoscere, dimorando tu meco, la qualità delle case degli iddii, delle quali niuna parte mi se n'occulta. E a te le ragioni moventi quelle farò palesi; e onde i soffianti euri e i tumultuosi mutamenti dell'acque; e la cagione della rivestita terra da Ariete e poi spogliata da Libra ti mosterrò. Dunque ché dubiti di venire a colei che più ti puote ancora donare che ella non ti promette? E alle mie ultime parole, o giovane, apri gli orecchi e sappi che se a me, bella, potente e larga delli miei doni, non vieni, le mie orazioni con giusta ira toccheranno gl'iddii ne' tuoi pericoli; e te, come Anfiorao, nel cospetto de' Tebani lasciando la terra, per la fessura di quella sùbito co' suoi carri visitò Dite, farò dallo aperto mare con la tua nave inghiottire».

Io il chiamai più volte e reiterai le promesse e le minacce, ma co' venti se n'andavano le mie parole. E se non fosse che l'apparate cose non ingannevoli mi davano del futuro non falsa speranza, così di lui disperata me ne sarei gita come la misera Biblis per lo non pieghevole Cauno se n'andò all'ombre di Stigia. Ma perché di lui mi distenderò io multiplicando in parole? Quanto più verso me la sua acerbità indurava, tanto più la santa dèa Venere, di sopra intenta alle mie battaglie, di lui m'accendea con le sue fiamme. Per ch'io a nuovi argomenti lo 'ngegno prestai; e ancora che forse paia atto di dissoluta ciò che io feci, però che tutte di ciò che io ardo vi sento accese, cacciata la vergogna da me, la quale con focosa rossezza già mi sento nel viso venire, ve 'l pur dirò. Io dico che i lunghi drappi, toccanti terra come ora fanno, essendomi io cinta sopra l'anche, quasi paurosa dell'onde mostrandomi, in alto molto più che il dovere li tirai; per che agli occhi suoi le candide gambe si fecero conte, le quali, sì com'io m'avidi, con occhio avido riguardò; ma pure fermo nella ostinazione contraria a' miei voleri si rimase. Onde io, disposta a vincere lui, levato a me di sopra agli omeri miei il non pesante mantello, come vinta dal caldo, aperto il vago seno, le bellezze di quello, alquanto bassandomi, gli feci, sanza parlare, scoperte; le quali elli non prima vide che, rotta ogni durezza, volse la prora a noi con queste parole:

«Giovane donna, attendi: io sono vinto dalle tue bellezze; ecco ch'io vegno presto a' tuoi piaceri».

Le quali voci, come a' miei orecchi pervennero, non altrimenti mi fecero lieta che fosse il narizio duca già ne' porti della figliuola del Sole, di Cileno conosciuto l'avvento a sua salute. Egli, disceso in terra e fatto de' miei abbracciamenti degno, dopo la grave rozzezza disposta, si rendé solennissimo: né più sommo di lui nelle nostre arti né di maggiore fama alcuno oggi risuona ne' nostri regni. La qual cosa, considerata l'avuta fatica, l'ardente fiamma e il ben seguito fine, d'ornarmi, di cantare e di far festa mi sono sovente cagione. E però che favorevole fu Venere a' miei amori, con incensi solenni e continui nelle sue feste visito i suoi altari e spero visitare sempre col mio Affron. -

E queste voci finite, con piacevole nota e soave cantando, cominciò questi versi:

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2008. Content in this page is licensed under a Creative Commons License