[XXIII]
Li quali poi che tutti gli ebbi con ritenente memoria
compresi, bassati gli occhi, già più non potendoli rimirare, riguardai i verdi
prati, e in essi, quale Elena sopra il morto Paride fu potuta vedere, m'apparve
Venere. Ella, sedendo sopra le verdi erbette, teneva con la destra mano le
lente redine d'un cavallo lì dimorante, e con la sinistra mano uno scudo e una
lancia. E quasi piangendo, se piangere avessono potuto i divini occhi, pareva;
e uno giovane, tutto di bellissime arme armato, guardava davanti a sé, il quale
a me pareva giacente sanza anima. Io, prima presa non poca d'ammirazione, più
ne presi questo veggendo. Ma, secondo il debito costume poste le ginocchia
sopra la verde erba, con queste voci reverita prima la santa dèa, la domandai:
«O santissima deità, madre de' piacevoli amori, acquistino
le voci della tua serva merito d'essere udite nel tuo cospetto, e a quelle con
la divina bocca, se degna ne sono, rispondi. E se è licito che a' miei orecchi
pervenga, dicendolo tu, non mi si nieghi la cagione del tuo dolore, il quale,
nel viso divino mostrando li suoi vestigi, occupa non poco la sua chiarezza, e
chi costui sia il quale qui morto guardi, come mi pare».
Alle quali parole così con angelica voce rispose:
«Piacevole giovane, costui che tu qui vedi, dalla sua madre
a me nella sua infanzia lasciato, ho io ne' miei exercizii nutricato gran
tempo, infino che a questa età, che nel suo viso coperto di folta barba
discernere puoi, co' miei fomenti l'ho sanza fatica recato; e ne' miei
exercizii li avea armi donate e cavallo, e cintolo di milizia a me graziosa,
come tu vedi. E ora che le sue lunghe fatiche erano a' meriti più vicine,
alcuna deità operante, toltosi a me, il suo spirito vagabundo per l'aire, come
hai veduto, ne va con colei che più m'offende, ond'io quella noia in me ne
sostengo che cape nel divino petto. Ma perciò che, quello che uno iddio
dispone, l'altro nol torna adietro, com'io posso il soffero mal contenta».
Le sante voci, udite da me con animo attento, mi fecero
pietosa, e dissi:
«O santa dèa, dà luogo all'ira e tempera le tue noie, alle
quali tempo non si può tòrre: elle, ora che più aiuto che altro bisogna, non ci
hanno luogo. Io con umana mano, quando ti piaccia, tenterò di fare quello che
le divine costituzioni a sé non permettono, e forse il tuo armigero ti renderò
sano e con intero dovere disposto a' tuoi servigii».
E questo detto, ritenente l'arco e gli strali nell'una delle
mie mani, appressantemi al già freddo corpo, e il battente ancora petto
disarmato, alquanto, com'ella volle, toccai. Elli tremava tutto mostrando
paurosi segnali della vicina morte e con moti disordinati facea muovere
ciascuna vena. Ma poi che io col propio caldo della mia mano il petto
freddissimo tepefeci, manifestamente sentii gli smarriti spiriti ritornare e i
morti risuscitare e il cuore rendere a ciascuna vena il sangue suo. Onde,
vedendo che 'l mio argomento traeva al fine desiderato, dissi:
«Dèa, confòrtati: la smarrita e non perita vita ritorna in
costui, il cui spirito, dove che elli sia, rivocheremo con le nostre forze a'
tuoi servigii».
E perseverando, la tenni tanto che, quello riscaldato, al
palido viso conobbi alcuno colore, ma poco ancora; e i membri cominciarono con
molto debole moto a muoversi, non altrimenti tremanti che le piane acque nella
sommità, mosse da pochi venti. E già la vita lontanata da lui, appena
sostenendosi, si levò a sedere, cotale e ne' modi e nello aspetto quale colui
apparve tra' monti tesalici al non degno figliuol di Pompeo, rivocato per li
versi d'Eritto da' fiumi stigii; e una dolorosa voce mandata fuori, se non che io
il sostenni, saria caduto. Egli, vedendo con gli occhi, stati per lungo spazio
nelle oscurità di Dite nascosi, la pietosa dèa nel suo cospetto, appena lei
sostenne di riguardare; ma vergognoso con atti umillimi, sanza voce, però che
ancora avere non la potea, dell'abandonata milizia cercava perdono. La qual
cosa vedendo la dèa, contenta si dirizzò in piede, e benivola a' suoi falli
promise perdono; il quale, quando poi con più aperta voce il domandò, pietosa
concesse, ammonendolo che più nell'usato fallo non ricadesse, se non per quanto
gli fossero più care le tenebre d'Acheronte che la chiara luce de' regni suoi.
E oltre a ciò gli comandò, in luogo di ammenda del commesso peccato, che me
sempre come cagione della sua vita seguisse e onorasse con sommo studio, e con
viso pieno di letizia a' miei benefici il raccomandò caramente. E questo detto,
lasciando il luogo dipinto di maravigliosa luce, flagrante di preziosissimi
odori, fendendo l'aere, sùbita ricercò il cielo.
Ma io quivi sola con costui già caldissimo in cotale guisa
rimasa, contenta del dono a me dagli iddii conceduto, lui già liberamente e
sicuro parlante, della sua nazione, del nome e de' suoi avvenimenti il
domandai, acciò che chi mi fosse stato donato mi fosse chiaro. Il quale così
rispose alle mie voci:
«Bellissima giovane, sola della mia vita rimedio e sostegno,
sopra Xanto, bellissimo fiume in Frigia corrente con onde chiarissime, si
veggono ancora le sparte reliquie della terra che per adietro, da Nettuno
construtta al suono della cetera d'Appollo, fu d'altissime mura murata. Della
quale, poi che il greco furore d'ogni cosa arsibile ebbe le sue fiamme
pasciute, e l'alte rocche, con dispendio grandissimo tirate inverso il cielo,
toccarono il piano con le loro sommità, e la rapita, cagione di queste cose,
ricercò le camere male da lei per molti abandonate, uscirono giovani dannati ad
etterno exilio. E vagabundi lasciati i liti africani, e la gran massa premente
la testa del superbo Tifeo e gli abondevoli regni d'Ausonia e le rapaci onde di
Rubicone e del Rodano trapassate, sopra le piacenti di Senna ritennero i passi
loro; e forse con non altro agurio che Cadmo le tebane fortezze fermasse,
fondarono una loro terra per abitazione perpetua e di loro e de' successori.
De' quali essendo già dodici secoli trapassati e del tredecimo delle dieci
parti le nove compiute, come ora del quartodecimo delle cinque le due, poi che
dal cielo nuova progenie nacque intra' mondani, di nobili parenti discese una
vergine la quale essi pietosi ad uno armigero di Marte congiunsono con dolorose
tede in matrimonio, bene sperantisi d'operare. E così in quelli luoghi andanti
le cose, tra bretti monti surgenti quasi in mezzo tra Corito e la terra della
nutrice di Romulo, di Tritolemo, uomo plebeio di nulla fama e di meno censo,
già dato a' servigii di Saturno e di Cerere per bisogno, e d'una rozza ninfa
nacque un giovinetto di cui, sì come di non degno di fama, il nome taccio.
Egli, benché mutasse abito, coperti sotto ingannevole viso li rozzi costumi,
ritenne del padre in ogni cosa materiale e agreste e, non imitante i vestigii
del generante, si dispuose a seguitare con somma sollicitudine Giunone la
quale, a lui favorevole, in quelli luoghi il produsse; e ne' servigii di lei,
abondevolmente trattando i beni di quella, per lungo spazio trasse sua
dimoranza, e agl'incoli parlando sé nobile, a' nobili cotale mestiere, quale il
suo era, essere per consuetudine antica mentiva. Dove dimorante elli, il
dolente gufo donante tristi agurii a' nuovi matrimonii della già detta vergine,
con crudele morte vegnenti le sue significazioni, fu levato di mezzo colui che,
poco più che fosse vivuto, mi saria stato padre; e lei, di senno e d'età
giovinetta, sanza compagno rimasa nel vedovo letto, nelle oscure notti triste
dimoranze traeva piangendo, infino a tanto che agli occhi vaghi di lei
l'aveniticcio giovane di venusta forma, non simile al rustico animo, apparve,
ma non so dove; la quale non altrimenti, vedendolo, sentì di Cupido le fiamme
che facesse Didone, veduto lo strano Enea. E come colei di Sicceo, così questa
del primo marito la memoria in Letè tuffata, cominciò a seguire i nuovi amori,
sperando le perdute letizie rintegrare col nuovo amante; le quali più tosto,
avvegna che poche rimase, con dolorosa morte, per le operazioni di lui, s'apparecchiavano
di terminare. Esso, non meno piacendo ella a lui che egli a lei piacesse,
ardente di più focoso disio, più sollecita di perducere ad effetto l'ultime
fiamme, le quali non si doveano spegnere se coperto inganno non ci avesse le
sue forze operate. La giovane, del suo onore tenera, resiste con più forza a'
suoi voleri, e dubbiosa degli stretti fratelli sta ferma alle battaglie de'
focosi disii; per la qual cosa a ciò perducere non si può ciò che cerca colui.
Ma le varie sollecitudini e continue tirano a compimento uno
de' pensati modi dal giovane. Il quale in parte segreta trovatosi con lei,
l'uno e l'altro tementi con voce sommessa a' loro congiugnimenti invocarono
Giunone; e a lei chiamata porsero prieghi che con le sue indissolubili leggi
fermasse gli occulti fatti, e i patti, da non rompersi mai, servasse nella sua
mente, infino che licito tempo con degna solennità concedesse che que'
s'aprissono, ultimamente giurando per la sua deità l'uno all'altro che allora,
fuori che per sopravegnente morte, l'uno sarebbe d'altrui che dell'altro, o
l'altro d'altrui che dell'uno, che Senna, in su rivolgendo le sue onde,
fuggisse dal mare. Giuno fu presente e diede segni d'avere intese le loro
preghiere e, dimorando quivi, diede effetto agli amorosi congiugnimenti, de'
quali io, a miglior padre serbato se 'l troppo affrettato colpo d'Antropos non
fosse, nacqui; e da loro Ibrida fui nomato e così ancora mi chiamo.
Ma il mio padre, sì come indegno di tale sposa, traendolo i
fati, s'ingegnò d'annullare i fatti saramenti e le 'mpromesse convenzioni alla
mia madre. Ma l'iddii, non curantisi di perdere la fede di sì vile uomo, con
abandonate redine, riserbando le loro vendette a giusto tempo, il lasciarono
fare; e quello che la mia madre gli era si fece falsamente d'un'altra nelle sue
parti. La qual cosa non prima sentì la sventurata giovane, dal primo per
isciagurata morte e dal secondo per falsissima vita abandonata, che, i
lungamente nascosi fuochi fatti palesi co' ricevuti inganni, chiuse gli occhi e
del mondo a lei mal fortunoso si rendé agl'iddii. Ma Giunone né Imeneo non
porsero alcuno consentimento a' secondi fatti, bene che chiamati vi fossero;
anzi, execrando l'adultera giovane con lo 'ngannevole uomo, e verso loro con
giuste ire accendendosi, prima privatolo di gran parte de' doni ricevuti da lei
e dispostolo a maggior ruina, a morte la datrice, la data e la ricevuta
progenie dannarono con infallibile sentenzia, visitando con nuovi danni chi a
tali effetti porse alcuna cagione. Ma io, venuto ne' discreti anni, questa dèa
alla quale piccioletto rimasi, e a cui molto di me è caluto, seguendo nelle
palestre palladie, come a lei è piaciuto, con diversi ingegni ho le mie forze
operate; e sì m'è stata benivola la fortuna che in quelle da molti sono stato e
sono reputato agrissimo pugnatore.
Questa cosa, avendo partorito graziosissimo fiore, riuscì
pessimo frutto e non pensato, però che, per questi effetti forse non meno
d'Ercule reputandomi degno, oltre al piacere dell'iddii con la mente levato in alto
cercava i cieli, come voi vedeste, ne' focosi carri tirati da' fieri draghi. Ma
in quelli niuna entrata ne fu largita, e già prontissima ruina, mancante a'
tiranti la forza, ci s'apparecchiava, la quale forse sanza inrevocabile morte
non saria stata. Fui adunque e sono in vita per voi rivocato, come vedete, e
perciò sì come a vostro e sempre a' vostri piaceri disposto imponete regola
qual vi pare, sicura che quella, con passo continovo, che voi direte, seguirò
studioso».
Poi che elli ebbe così detto, rimirandomi fiso, si tacque.
Ma io niun'altra legge imposi alla rivocata anima se non che, seguendo l'usate
palestre, facesse di fare frutto quale il già bello e aperto fiore mostrava
dovere producere, e che dopo la dèa io sola nel mondo fossi donna della sua
mente, quelli doni promettendoli in merito che può donare la mia dèa. -
E poi che così ebbe detto infino a qui, la bella donna,
seguendo l'ordine incominciato dall'altre, con voce piena di melodia così
cominciò a cantare:
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