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Giovanni Boccaccio Comedia delle ninfe fiorentine IntraText CT - Lettura del testo |
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[XXIX] - Sicania, vicina della eolia Lipari, fucina certissima de' Ciclopi, quasi in quelle parti nelle quali i Palisci, nascosi dalla loro madre, i tempi del ventre compierono, tiene i luoghi dove nacque il padre mio. Il quale, stato nella villa sarnina e visitati i templi posti per luoghi de' visitatori d'essa, ne' quali più l'inganni di Mercurio che la sua deità s'adorano, per avventura tornando passò per li piani sottoposti al copioso monte Gargano, consecrato a Cerere, santa dèa; e in quelli vide una giovane i parenti di cui, per quale che si fosse la cagione, nimici di Saturnia divenuti, ascosi nelle caverne nel monte si dimoravano; né quindi, non patteggiati, s'osavano di palesare in aperto cielo. Costei, di vestiri vermigli vestita e pieni di bianchi gigli, piacque agli occhi suoi; né prima delli abondevoli campi si poté trarre che quella, per matrimoniale legge congiuntasi, seco ne menasse in Sicania. Là dove egli tornato con lei, me generò con più altre sorelle, tante che il numero empiemmo delle figliuole di Piero; e di sì notabile e bella forma tutte ci diede al mondo che, mirandoci, quasi non cadde di Latona nell'ira per fallo molto minore che la tebana Niobe con la perduta prole non fece. Ma qui se io il vero parlo, in peccato nol prendano gl'iddii, né voi, a cui come con meco medesima estimo di parlare: io avanzai di bellezza ciascuna delle mie sorelle e, da lui singularmente amata, fui nominata Acrimonia; io non trascorsi la puerile età oziosa, né tutta la diedi solamente alla conocchia: diversi studii m'ebbero, de' quali passai la fatica con frutto. Ma già cresciuta in me con gli anni la discrezione, conobbi il mio nobile padre posto nelle angosce generate per gli iniqui odii della ingrata plebe e, udendo i pericoli già per questi odii divenuti a molti nel tempo passato, di lui cominciai a temere. E acciò che i sopravegnenti casi cessassono sventurati e che egli coraggioso divenisse a' suoi bisogni, Bellona, madre del fortissimo Marte, tentai più volte con umili prieghi in favore dell'amato padre, il quale io amai e amo quanto egli ami me, che so che m'ama molto e ha amato. Questa mi fu tanto benigna e sì exaudevole orecchie porse alle cose pregate, che io tutta mi dispuosi a' suoi servigi e lei onoro e per singulare deità reverisco; a lei porgo i prieghi ne' miei bisogni e come a favorevole ricorro ne' casi opportuni. Ma avendo io già sedici volte vedute le nuove biade e altrettante gustati i dolci mosti, elli per matrimonio mi congiunse con uno giovane sparuto e male conveniente alla mia forma, sicanio sì com'esso, il quale me, di Sicania traendo, divise dalla cara madre e dalle pietose sorelle. E salita sopra le notanti navi e empiute le nostre vele da Euro, cominciammo ad abandonare i liti tireni; e poi che i rapaci cani stimolanti Silla avemmo passati, vedemmo lo etterno tumulo dato da Enea a Palinuro e quindi il promuntorio di Minerva, lasciatoci alla sinistra mano l'isola Caprea, e quindi li fruttiferi colli di Surrento e le rocche di Stabia e la già grande Pompea e Veseo, imitatore de' fuochi d'Enna. E lasciati i piacevoli liti partenopei, discernemmo Pozzuoli e l'antiche Cumme e le tiepide Baie; e quindi, alla destra mano lasciataci la sepultura dell'eolio Meseno e alla sinistra l'isole Pittacuse, vedemmo il furioso Vulturno mescolante le sue acque piene d'arene con le marine, e più avanti gli etterni luoghi dati da Enea agli arsi membri della sua balia. E poi con paura passammo i liti male conosciuti da' compagni d'Ulisse, e i porti d'Alfea e le mura dette che da Giano fossero edificate, e quelle che furono negate al divino Cesare, allora che elli con volo sùbito se n'andò ad Ilerda. E dopo molto essere nell'onde vagati, nelle sacratissime rocche di Palatino, sopra l'onde del piacevole Tevero, fermammo il lungo errare; là dove io con le latine ninfe in compagnia ricevuta fui, ma non sanza molta invidia, però che tra tutte, a giudicio di qualunque ne riguardava, di somma bellezza il colmo della disiderata gloria meritai. E già tutta Lazia mi chiamava per eccellenzia la formosa ligura; e di tale fama tutta l'occidentale plaga sonava. Quivi tenente il sacerdote massimo degl'iddii nostri l'altezza della sua sedia, d'ogni parte del mondo per diverse cagioni vi correano i nobili; né era alcuno clima che quivi i suoi maggiori non mandasse; a' quali io era sempre seconda sollecitudine, e ad alcuni divenni prima. E ciascuno, veduto il viso mio, d'ammirazione pieno, del mio cospetto invito si partiva, e gli amorosi dardi, da me allora non conosciuti, sentendo nel battente petto sanza pro, lodava le mie bellezze; ma io non altrimenti che una imagine marmorea mi movea agli occhi de' riguardanti; e quasi sicura stante, tanto di ciascuno mi curava quanto solesse fare Anaxarete, ancora non pietra, del pregante Ifi, anzi più tosto in me medesima li scherniva. E più volte dalle care compagne con cotali parole stimolata fui: «O Acrimonia, più dura che alcuno scoglio e meno pieghevole che le querce d'Ida, quale rigidezza ritiene il tuo ferrigno animo a non piegarsi ad alcuni amori? Credi tu, perché tu avanzi di bellezza tutte le ninfe abitanti le rive del corrente Tevero, essere però scusata da questi fuochi? Nol credere. La tua forma più che alcuna altra cerca quello che tu fuggi; il quale più tosto le turpissime femine debbono andare fuggendo, però ch'e' si disdice loro. E a te niuna altra cosa manca che questa sola, la quale noi ti consigliamo che graziosa ti disponghi a' beni mancanti alla tua bellezza innanzi che tu dêi materia di turbamento alla divina Venere, la quale tanto suole più focosa entrare ne' petti quanto più a lei con resistenza s'oppongono. Credi tu avanzare in forze l'iddii? Or non sentì Giove queste fiamme più volte? E il luminoso Apollo, conoscente tutte le cose, non poté con le sue erbe cacciare i vegnenti ardori. E la dèa medesima di questi amori donatrice alcuna volta infiammò sé medesima, e brievemente tutto il cielo ha sentito questi caldi da' quali i terreni non sono stati esenti. Ercule, domatore delle umane fatiche, fu innamorato, e Medea, figliuola del Sole, non se ne poté con le sue potenti voci difendere, né alcun'altra. E tu sola vuoli tenere nuova maniera tra tante possenti di bellezza e di deità: tu non se' Pallade, né Diana, le quali due sole, a fine non convenevole a te, l'hanno fuggito. Adunque ama, o Acrimonia, quando tu puoi: tu bella, tu giovane e nobile hai ora il tempo dicevole a questi amori. Ricordati che, come i fiumi le trascorrenti acque ne portano al mare con continuo corso, né mai in su alle fonti le tornano, così l'ore i giorni e i giorni gli anni e gli anni la giovane età, la quale da due termini miserabili è chiusa, o da morte o da debile vecchiezza: a qualunque tu perverrai, ti sarà per ragione miscaro il non avere amato. Ma pognamo che tu divenghi vecchia: che diverrai? Pensi tu che le guance ora distese, divenute allora rugose e palide, dove ora di bellissimo colore sono lucenti, e gli aurei capelli, tornati in bianchi, truovino chi a queste cose l'inviti? Certo no; e se forse esse inviteranno altrui, fieno rinunziate, e giustamente. Niuna età futura è migliore che la presente; le cose vanno sempre di male in peggio: l'aurea età di Saturno non tornò mai, e quella di Giove, d'ariento, fu migliore che quella di rame seguente poi; la quale, tenuta allora pessima, non fu rea come quella che usiamo, pervenuti dal ferro alla terra cotta. Adunque il non tornante tempo adoperalo acciò che poi non ti penti d'averlo lasciato andare ozioso; e la tua giovanezza, la quale ancora molte volte piagnerai sentendola partita, disponi a' cercati amori. E non ti indugiare agli anni di ciò non degni, ne' quali forse vorrai dare riparo a quelle cose che non sosterranno di riceverlo. Egli ci è stato manifesto te essere stata riguardata e invitata a' graziosi fuochi dal figliuolo di Giove, ora reggente le terre boemie, abondevoli di metalli, con coronata fronte, il quale saria degno amante a qualunque dèa. Ma se forse la già lunga età il fa men caro, colui che i togati Gallici regge lodò la tua forma, vedendoti, sopra tutte l'altre; e se forse te non cruda avesse sentita, con piacevole viso t'avrebbe profferti i suoi desii, né per alcuna cosa era da dovere essere da te rifiutato, se non per una: ch'egli era troppo nobile. E quelli ancora che i ricchi popoli di Minerva, abitanti in Cimbria, signoreggia, con ampissimo favellare t'empié di somma laude; e non una volta, ma molte con gli occhi suoi tentò i tuoi, più salvatichi ch'alcuna fiera: costui saria stato convenevole amante a te, se tu avessi voluto. Ma perché ci fatichiamo noi di volerliti ad uno ad uno narrare, quanti e quali sieno quelli che te abbiano tentata a questi effetti e che sarieno stati degni de' tuoi amori, con ciò sia cosa che tu meglio di noi li sappi? E oltre a ciò a narrarliti non ci basterebbe un sole. Ma acciò che brievemente li comprendiamo, quanti il mondo ne manda qui, a tanti se' piaciuta e tanti con diversi atti si sono ingegnati di riscaldarti, e tutti alle loro case hanno potuto portare della tua bellezza e della tua rigidezza equale novella. E ancora più, che i pileati sacerdoti guardanti i sacri altari del sommo Giove ottimo di Campidoglio, non avendo i loro casti occhi potuti difendere dalla tua biltate, dopo le laudi si sono ingegnati di piacere a te come tu piaci loro. Lascia adunque l'usata durezza; e di tanti quanti te, chi per Marte e chi per Pallade e chi per Giunone e chi per l'antica Cibelen, ti priegano, n'eleggi alcuno, acciò che Cupido con giusta ira non apra l'arco suo, come fe' contro a Febo le sue forze sdegnante, per uomo che degno non sia della tua bellezza». Io ascoltava con intente orecchie le vere parole, le quali così s'appiccavano alla mia mente come le secche fave a' duri marmi; anzi, lasciandole all'aure, me ne facea beffe, e in me della mia durezza mi gloriava oltre modo e il freddo petto teneva ne' modi usati. Ma la santa Venere, occulta agli occhi miei, era presente a queste parole e, conoscendo sé da me schernita, apparecchiò vendette alla conceputa ira, non sostenendo più innanzi gran tempo che io, sanza i suoi ardori, schernissi la deità non nota di lei nel petto mio; e ne' suoi fuochi m'accese come udirete. Il mio marito e io avavamo lasciati i tiberini liti e per la detta via eravamo tornati in Sicania, dove essendo solenni giorni presenti, a' templi della santa dèa di cui parliamo e da me prima non conosciuta, ne' quali mirabile festa faceasi, ornatissima andai e tra le ninfe sicanie sedenti in esso raccolta fui; dove sedendo in picciolo spazio, con infignevole occhio raccolsi in quello nulla bellezza alla mia simigliante vedersi; e di ciò quello che avvenne, come io dirò, mi fece più certa. Io non palesai prima il viso mio, che le caterve de' vaghi giovani, a me voltate, tutte cominciarono a riguardarmi. Oh quante ve n'ebbe che maladissero la mia venuta, faccendomi ne' loro animi ingiustamente usurpatrice de' loro amanti! Di questi molti che me riguardavano, udiva io d'alcuni i ragionamenti e d'altri per atti e per presunzioni li conoscea; e di tutti sentia che, una medesima cosa parlando, nelle mie lode con maraviglia multiplicavano. Onde io in me lieta non poco divenni e con atti pieni di gravità aggiugneva vaghezza alla mia forma, la quale, da sé bella, con l'arte aiutata quanto poteasi aveva più forza. E gli occhi tenendo bassi, quante volte gli alzava, tante gli aspetti di tutti vedea mutare; e brievemente gli altari erano meno visitati da' vegnenti nel tempio, che la mia faccia igualmente mirata da' giovani e dalle donne per lunghi ispazii infinite fiate. Tra' quali molti, un giovane di grazioso aspetto, benché agreste e satiro di povero cuore e Apaten nominato (domandandone, il conosce' di consanguinità strettissimo alla bella donna che prima parlò e con cui io venni qui), vidi tra tutti con più fervente vista mirarmi. E in questo quello giorno perseverò; e qualunque altro qui o in altra parte m'avesse veduta, questi continuo seguiva i passi miei. Costui, non temente le notturne tenebre, con varii suoni e laudevoli voci cantanti piacevoli versi le mie case visitava; e più volte i già presi sonni mi fece lasciare; né alcuno altro modo lasciava nel quale mi potesse mostrare quanto io gli piacea o arrecarmi a tale che egli piacesse a me. Ma la sua fatica si perdeva co' venti: io teneva l'usato modo e sola seguiva la mia Bellona, e Venere non sapea, né più mi movea a' suoi affanni che facciano le petrose sommità de' monti d'Emazia a' lievi venti mossi da Eolo; anzi più tosto lui pusillanimo e cupido biasimava, e in me più volte lui più degno a cultivare i campi che a mirare gli occhi miei il riputai. Egli, sì come io seppi poi, mai tali fiamme non avea sentite, e sì nelle nuove era acceso che lui, mal sofferente, oltre modo stimolavano; ma vedendo la mia durezza, pietoso di sé medesimo, essendo elli e io ne' detti templi, sì come io vidi, umile dinanzi a' santi altari, a Venere porse cotali parole: «O santissima dèa, madre delli ardenti amori, per la quale quanto di bene si possa operare conoscono le menti nostre, se io, giovane rozzo e nuovo a' tuoi servigii, merito di servirti, presta pietosa gli orecchi a' preghi miei e per quelli, se giusti sono, per me adopera le tue forze; e se io non merito quello ch'io cerco, gittami da' tuoi altari sanza indugio. Acrimonia, bellissima ninfa in tutta Sicania, m'ha col piacere degli occhi suoi acceso ne' tuoi santi fuochi; e conoscente me ardere per lei, non solamente le mie angosce, ma la tua forza superbiente schernisce. Onde io, ad una ora pietoso de' danni miei e sollecito a' tuoi onori, ti priego che, se quella potenzia vive ne' dardi tuoi la quale fu già dagl'iddii come da me sentita, che tu l'accenda; e così come io, che più che alcuno altro amo, ardendo nelle tue fiamme per lei, così ella per me ardente divenga; e così vendicherai con uno medesimo colpo la tua ingiuria e la mia: e' si conviene che il novero de' tuoi sudditi s'empia di così bella cosa. O somma dèa, io ti priego per me più tosto che per altrui, se essere puote, il quale se forse indegno sono, accendila pure per cui ti piace, sì che le mie schernite fiamme da lei, con vicendevole schernimento siano da me vendicate». Queste orazioni toccarono il cielo; e ch'elle fossero udite, i commossi altari ne diedono segno, e i risonanti templi; e io, che con beffe l'ascoltava, il vidi. Elli non avea appena finita la sua orazione, che la santa dèa, tocca da' prieghi suoi, diede opera alle parole; e con luce mai da me simile non veduta scese sopra i suoi altari, e di quindi là, dove io tra molte altre sedeva, ne venne e me sùbita tutta coperse per modo che né veduta era da altrui, né io vedeva alcuna altra cosa che questa, bene che io uno incognito mormorio minacciante danni dintorno mi sentiva continuo. Io stetti in quella alquanto non altrimenti che la timida pecora dintorno a' chiusi ovili sentente i frementi lupi, o come la paurosa lepre nelle vepri nascosa, ascoltante intorno a quelle le voci delli abbaianti cani, sanza avere ardire di dare alcuno movimento al preso corpo. Ma poi che per alcuno spazio m'ebbe tenuta e me già fatta calda co' raggi suoi, i mormorii in voce espedita risolvéo in queste parole: «O giovane lungamente fuggita a' nostri dardi e indegna delle grazie nostre, la tua bellezza vince le mie ire e merita della operata superbia grazioso perdono; e però dimenticando quella alla quale non altra vendetta si converrebbe che sostenesse la misera Anaxarete, vogliamo che tu apra il petto tuo alle nostre forze, e il pregante giovane, atto a lasciare ogni rusticità, con amore indissolubile servi ne' tuoi servigi». Queste parole udite mi furono cagione di sicurtà alla prima paura, tanta più ne misono nel petto mio; e l'anima, forte tremante, cotale divenne quale si vide il misero Feton allora che con l'aperte braccia gli apparve innanzi il pauroso animale dalla terra mandato a combattere con Orione, ond'elli i mal pigliati freni abandonò a' vaganti cavalli. Ma poi che a quella, come io estimava, non seguì così tosto l'effetto, un poco ripreso ardire, con la voce che mi fu data dissi: «O dèa, cessa le tue ire e me salva rendi a' miei parenti, ché, io ti giuro, per la lungamente reverita Bellona, niuna resistenza farò mai a' tuoi voleri». Io ebbi detto, né prima le parole finii, che io, né più né meno che la misera Driope si sentì da sottile corteccia coprire, mi sentii da' piedi infino alla sommità del capo accendere in ogni parte di leccanti fiamme; e dubitai non tornare subitamente in cenere, come fe' la tebana Semelè, quando divinamente cognobbe Giove; ma queste, tutte nell'animo raccoltesi e lasciate l'estremità, con la confortante dèa mi renderono sicura. E partita la luce, me tra l'altre giovani innamorata trovai novellamente, e agli occhi già disiderosi di riguardare mi vidi davanti il giovane per li cui prieghi venuti erano i nuovi caldi. Egli m'incominciò a piacere; e già m'erano cari i passi suoi, seguenti le mie pedate, e l'usata salvatichezza abandonò il petto e gli occhi miei, disposti ad amare più che ad altro. E non dopo lungo tempo Apaten, da me dispregiato in prima, avrebbe potuto dispregiar me, s'e' gli fosse piaciuto. Niuna altra cosa piaceva agli occhi miei se non Apaten, a' cui beni io mi disposi tutta; e la biasimata rusticità co' mie' ammaestramenti cercai d'annullare; e così feci. Io il rendei, di rozzo satiro, dotto giovane, e di pusillanimo magnanimo il feci e nelle imprese lunganimo, e di cupido liberale e piacevole ad ogni gente, tale che di nobile in brieve si poté nobilissimo reputare. E così non sanza fatica il feci degno delle mie bellezze, il quale sempre più caro che altra cosa guardo nella mia mente. Adunque per questo modo in me lungamente stata fredda, operò ad instanzia d'Apaten la santa dèa, la quale tanto all'animo m'agradò e agrada, che sempre come Bellona e con iguali incensi la reverii e onorerò sempre. - E quinci cantando processe a questi versi: |
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