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Giovanni Boccaccio Comedia delle ninfe fiorentine IntraText CT - Lettura del testo |
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[XXXII] - Appena mi si lascia credere, o ninfe, che non fosse così onesto il tacere come sia il parlare de' miei parenti, de' quali l'uno non degno di fama e l'altra d'infamia degna, non per lei ma per li suoi, riputerei, se io non ne fossi nata; tali i loro antecessori si conoscono, e essi, ne' vizii cresciuti e male saputisi fare amare, però che l'uno con tagliente unghione ha laniato il misero popolo, l'altro con lusinghevole lingua leccando l'ha munto di sangue. Ma io, non seguente le loro malizie, notissima per quelli, non curo se più mi fo nota: e però, come voi avete fatto, e io farò. In Acaia, bellissima parte di Grecia, surge un monte appiè del quale corre un picciolo fiume, ne' tempi estivi poverissimo d'onde e abondante di quelle negli acquazzosi, sopra il quale agresti satiri furono ne' primi tempi d'abitare costumati con le ninfe quelli luoghi colenti. Tra quelli così rozzi nacquero i primi del padre mio, li quali, sì come lione col suono della chiara cetera le dure pietre mosse a chiudere Tebe, così essi con le propie mani già molte ne costrinsero stare in ordine d'alte mura. E come che la fortuna, ciecamente trattante i beni mondani, indegni gli traesse a molte copie, lasciate le prime arti, le quali, avvegna che più umili, sanza fallo più utili sarebbono loro riuscite, si dierono a seguitare di Mercurio l'astuzie: oh quanto più degni a' ligoni di Saturno! La fama delle loro delizie, così sùbita ancora casura come salio, riempie il mondo; e essi, di plebei mescolati tra' nobili, male conoscenti di sé medesimo per gli accumulati beni entrati nella speranza di Flagrareo e de' seguaci, con tempesto pensiero cercano il cielo; e l'occulta vendetta, con giusta ira già mossa a' falli loro, si cela agli occhi che si debbono in poco tempo chiudere di morte etterna. Deh, perché mi distendo io più a vaticinare i danni miei? Il padre mio è di questi, il quale, passate le poche onde per antico ponte, pervenne a' luoghi abitati dalla mia madre; i parenti della quale, più ricchi che nobili, trovò che intendevano, oltre alla naturale ragione d'Amatuta, a fare partorire i metalli a' metalli medesimi, e tutti d'oro coperti, portavano in vermiglia cintura la inargentata Febea con le sue corna. Non curo questi dello abominevole mestiere di coloro, ma cupido di denari, de' quali quelli abondavano gran quantità, mediante di quelli con giunonica legge la mia madre si giunse e quella seco trasse alle sue case, là dove io, nata di loro, con pietoso studio fui nutricata; e la mia età puerile passò semplice, né mi furono a cura alcuni studii né nota deità nulla. Ma, già multiplicata negli anni e in bellezza, con tutto l'animo desiderava le nozze mie, le quali sperava che gl'iddii avessero promesse a degno giovane, per aspetto e per età simile a me, che era bella; ma il mio pensiero era ad una cosa e i cieli ne dispuosero un'altra; però che a possedere le bellezze da me lungo tempo studiate fu dato un vecchio, avvegna che copioso, onde io mi dolsi; ma non osò passare i denti il mio dolore. Elli da' patrocinanti le quistioni civili sopra minate [aiutato], avente forse veduti più secoli che il rinnovante cervio, dagli anni in poca forma era tirato. E la testa con pochi capelli e bianchi ne dànno certissimo indizio; e le sue guance, per crespezza ruvide, e la fronte rugosa e la barba grossa e prolissa, né più né meno pugnente che le penne d'uno istrice, più certa me ne rendono assai. Egli ha ancora, che più mi spiace, gli occhi più rossi che bianchi, nascosi sotto grottose ciglia, folte di lunghi peli; e continuo son lagrimosi. Le labbra sue sono come quelle dell'orecchiuto asino pendule e sanza alcuno colore, palide, danti luogo alla vista de' male composti e logori e gialli, anzi più tosto rugginosi, e fracidi denti, de' quali il numero in molte parti si vede scemo; e il sottile collo né osso né vena nasconde, anzi, tremante spesso con tutto il capo, muove le vizze parti. E così le braccia deboli e il secco petto e le callose mani e il già vòto corpo, con quanto poi séguita, alle parti predette rispondono con proporzione più dannabile. E nel suo andare continuamente curvo, la terra rimira, la quale credo contempli lui tosto dovere ricevere: e ora l'avesse ella già ricevuto, però che sua ragione gli ha di molti anni levata. A costui mi concessero i fati, il quale lieto mi raccolse nelle sue case; dove io ancora dimorante alcuna volta con lui, nella tacita notte, delle quali mai niuna con esso, quanto che Febo si lontani alla terra, vi sento corta, istanti nel morbido letto, me raccoglie nelle sue braccia e di non piacevole peso prieme il candido collo. E poi che egli ha molte volte con la fetida bocca non baciata ma scombavata la mia, con le tremanti mani tasta i vaghi pomi, e quindi le muove a ciascuna parte del mio male arrivato corpo, e con mormorii ne' miei orecchi sonevoli male, mi porge lusinghe, e freddissimo si crede me di sé accendere con cotali atti: là dove io più tosto di lui accendo l'animo che 'l misero corpo. O ninfe, abbiate ora compassione alle mie noie! Poi che egli ha gran parte della notte tirata con queste ciance, gli orti di Venere invano si fatica di cultivare; e cercante con vecchio bomere fendere la terra di quelli disiderante i graziosi semi, lavora indarno: però che quello, dalla antichità roso, come la lenta salice la sua aguta parte volgendo in cerchio, nel sodo maggese il debito uficio recusa d'adoperare. Onde elli, vinto, alquanto si posa, e quindi alla seconda fatica e alla terza appresso e poi a molte invano risurge con l'animo; e con diversi atti s'ingegna di recare ad effetto ciò che per lui non è possibile di compiersi; e per questo modo la notte tutta di spiacevoli ruzzamenti e di sconvenevoli atti, sanza sonno, accidiosa mi fa trapassare. Egli, col capo vòto d'umidità, contento di poco sonno, con nuovi ragionamenti, sanza dormire, invita mi tiene. Egli mi racconta i tempi della sua giovanezza e come egli a molte femine solo saria bastato, o dice li suoi amori e le cose fatte per quelli; e tale volta mette mano alle storie de' celestiali iddii e danna con vituperevole riprensione i furti loro e di qualunque altro passante i termini della santa legge; e se per questo trapassamento mai n'avenne alcuno male, egli il racconta. E poi con più intero parlare, quando io credo ch'egli voglia dormire, ricomincia e dice: «O giovane donna, tra l'altre molto felice, quanto ti furono graziosi gl'iddii che più tosto a me che a uno più giovane ti concessono! A me non madre soprastante a' tuoi piaceri, tu sola se' della mia casa e di me donna, di me non puoi dubitare che amore d'altra donna mi ti tolga; da me i vestiri e tutte quelle cose che a grado ti sono, a te sono concedute. Tu se' sola bene e riposo di me; niuna volta m'è graziosa la vita, se non mentre tu nelle mie braccia dimori e la tua bocca s'accosta alla mia. Se tu fossi pervenuta alle mani d'uno più giovane, poche di queste cose ti sarieno concedute; i giovani hanno gli animi divisi in mille amori; quella che è meno amata da loro è colei di cui essi hanno maggiore copia. Elli lasciano la maggiore parte delle notti le loro spose sole e paurose nel freddo letto e vanno cercando follemente le altrui; ma io mai da te non mi diparto. E perché me ne sarebbe alcuna più cara di te? Cessino l'iddii che io mai per alcuna altra ti cambi». Ma io, dopo molto ascoltare, quasi dal pessimo fiato della sua bocca condotta ad estremo supplicio, gl'impongo silenzio e dico che dorma; ma poco mi vale. E s'io in altra parte mi voglio voltare, egli, sforzantesi e con le deboli braccia strignentemi, o mi ritiene o, lieve di carne, si volge con meco dovunque io mi volgo. E appena già al giorno vicini posso fare che da me diviso si dorma alquanto: la qual cosa s'avviene pur ch'e' faccia, ronfando forte il mio sonno impedisce; onde io, quasi disperata, agl'iddii cerco il giorno acciò che, da lato a lui levandomi, altrove mi possa posare. Questi atti, avvegna che ancora il mio vecchio li servi, essendo io sanza alcuna consolazione, quasi a disperazione m'aveano recata. Ma per utile consiglio a me dato proposi di servire Venere, e alla sua deità più che altra pietosa pensai dolermi de' miei affanni e di cercare ad essa alcuno rimedio per lo quale con meno fatica li sostenessi; e come fu l'avviso, così seguitai con l'effetto. Io venni dalle mie parti a questi templi vicini, e in quelli, divota secondo il bisogno, dinanzi a' santi altari così cominciai a pregare: «O pietosa Venere, o santa dèa, i cui altari io volenterosa visito, presta le misericordiose orecchi a' prieghi miei. Io, giovane come tu vedi, formosa e di vecchio marito male consolata, dubito che i miei anni oziosi non passino sanza conforto alla fredda vecchiezza. E però, se la mia bellezza merita che io mi dica de' tuoi subietti, entra nel petto mio, ché ti desidero; e i tuoi ardori, li quali molte volte ho sanza fine uditi lodare, mi fa sentire per giovane tale che non sia indegno alla mia bellezza e per cui le male avute notti con diletto si possano ristorare». Io era in questa orazione ancora; ma io non so se io m'adormentai e dormendo vidi le cose che io dirò, o se pure con tutto il corpo fui quindi levata ad andarle a vedere: se non che subitamente io mi vidi in uno lucente carro, tirato da bianche colombe, portare per lo cielo; e chinati gli occhi alle cose basse, mi si scoperse il picciolo spazio della gimbosa terra e l'acque a lei ravolte in forma di chelidro. Ma poi che io ebbi lasciatimi dietro i piacevoli regni italici e l'alte montagne d'Epiro, mi si scoperse l'abominevole Emazia co' suoi monti; della quale vidi, dall'una delle parti, l'onde d'Ismenos e la fontana di Dirce e i monti Ogigii e l'antiche mura, composte dal suono della cetera d'Anfione; sopra le quali mi si fece palese il piacevole monte citereo, e sopra quello i santi carri, tirati da bianchi uccelli, si riposarono. Certo io non so s'egli ardeva, ma gli occhi in ciò confessavano quello che il sentimento negava; per che, quasi dubitosa, discesi sopra la santa terra, e andante verso la sommità, vidi quello così, fra le fiamme agli occhi manifeste, di mortine pieno, come Ossa o Pindaro o qualunque altro è pieno di querce. Tra le quali mentre io vagabunda m'andava, e della via incerta e della fortuna futura, come ne' liti africani ad Enea, cotale, infra le mortine, mi si mostrò la chiamata dèa; e subitamente ripresa la vera forma, m'empié di tale maraviglia quale simile mai da me non era stata sentita. Ella era nuda, bene che picciola parte del corpo fosse di sottilissimo velo purpureo coperta, con nuovi ravolgimenti sopra il sinistro omero ricadenti con doppia piega. E il viso suo lucea come qualunque sole e la sua testa era ornata di capelli d'oro, a lei ricadenti lunghissimi sopra le candide spalle; gli occhi suoi sintillavano di luce non veduta già mai. Perché mi sforzerò io di dirvi le bellezze della bocca e della candida gola e del marmoreo petto e di tutta lei, con ciò sia cosa che io non potrei, e s'io potessi o sapessi, appena si crederrieno? E come che gli antichi ne dicano lei da Prassiteno vera scolpita nel marmo, non è da credere quella, ancora che bellissima sia, simile a questa ch'io vidi. Ma solo quello che ora di lei dirò basti a laude della sua bellezza tra noi: che qualunque è qui più bella di tutte, posta a lato ad essa, a rispetto di quella, turpissima saria giudicata. Certo, rimirandola, io non mi maravigliai del preso Marte e biasimai il folle ardire del figliuolo di Cinara, avuto contra i vietati animali, e cognobbi la concupiscenza degli iddii quando la vidono legata dagli ingegni di Vulcano; e con queste mi corsero mille altre cose sùbito per lo capo. Ma poi che già vicina mi si facea, alla sua deità sopra li verdi cespiti m'inginocchiai e con quella voce che io potei, reiterai la mia orazione nel suo cospetto. Ella l'ascoltò e fattasi a me più presso, che io mi levassi mi comandò; e seguì: «Vieni; i tuoi desii, uditi, avranno effetto»; e in luogo alquanto più alto mi tirò seco. Quivi, tra folte frondi nascoso, l'unico suo figliuolo mi fe' palese; il quale riguardando io, d'ammirazione piena per la bellezza di quello, niente ad essa il vidi dissimile, se non in tanto che egli era iddio e ella dèa. Oh quante volte ricordandomi di Psice, la reputai felice e infelice; felice di tale marito e infelice d'averlo perduto, felicissima poi d'averlo riavuto da Giove. Questi, avendo racconciato il forte arco, da lato a lui con la faretra giacca; e elli, accesi fuochi più caldi che' nostri, con ingegni qua giù appena saputi, fabricava saette d'oro purissimo; e quelle temperate in chiara fonte e fatte più forti, n'empieva la vòta faretra. Gli occhi miei non si potevano saziare di mirar lui, del quale niuna parte mi si celava, se non quanto coprivano le care piume. Oh quante volte, ricordandomi del turpissimo vecchio a me marito, se di costui gli abbracciamenti sentissi, felice mi riputai! Ma come piacque alla dèa, io mi rivolsi a mirare la fontana fortificatrice di quelle saette; la quale, mentre io riguardava, bellissima e chiara con onde inargentate la vidi; e per sé medesima surgente, non era bevuta dal sole; e il suo fondo, il quale apertissimo dimostrava, non teneva alcuno limo. Quella non pecora, non uccello né altro animale aveva mai violata col gusto: le sue estremità di verdi mortine e di sanguigne erano coperte e, secondo che io pensava, quella che tolse Narcisso non era sì bella. Ella faceva me riguardante, non assetata, avere sete e vaga di tentare col caldo corpo le sue fresche onde. Ma mentre che io sopra quella così sospesa dimoro e in essa rimiro la mia figura, il giovane figliuolo della dèa, ventilando le sante penne lucenti d'oro chiarissimo, con le fatte saette si partì di que' luoghi; e in meno ora che il grado del cielo, tocco dal nostro orizonte, non lascia l'uno emisperio all'altro passando, fu sopra le nostre case volato. Ma l'occhio, non potendolo seguire nei suoi effetti, si rivolse alla dèa: essa per l'ora già calda s'avea levato da dosso il sottile velo, e entrata nel chiaro fonte, tutta infino alla gola si mise nelle belle acque e a me comandò che spogliata v'entrassi con lei. Fecilo; e ricevuta in quella, così in essa trasparevano i nostri corpi, come in vetro traspare il festuco. Le sante braccia di Citerea m'avvinsero più volte il candido collo; e i suoi baci, non simili a' mondani, non una volta sola, ma molte gustai, e già incominciai a lodarmi del preso consiglio e a sentire de' passati rincrescimenti del noioso marito alcuna ricreazione; e già rinfrescate nell'acque, le dissi: «O santa dèa, se non è ingiusto, scuopramisi dove il caro figliuolo di voi sì sùbito sia volato con le fabricate saette». A cui ella con divina voce rispuose: «Noi, udite le voci tue, e a compassione mossa de' tuoi affanni, intenta alle tue petizioni, per lo giovane abbiamo mandato, i cui amori userai per contentamento dell'animo tuo mentre vivi; tu il vedrai sanza niuno indugio venuto e presto a' tuoi piaceri». Queste parole mi piacquero, e come io seppi, di tanta sollecitudine ringraziai la dèa. Noi eravamo ancora nella bella fonte, quando sentii i santi martelli un'altra volta percuotersi agli amorosi uficii; e per quello conobbi Amore essere tornato e presunsi colui essere venuto che dovea piacere agli occhi miei. Onde io, desiderosa di vedere qual fosse, alzata alquanto la testa e i vaghi occhi in giro vòlti, vidi infra le frondi un giovanetto palido e timido nello aspetto, il quale con lento passo s'appressava alle sante acque. Egli, veduto, piacque agli occhi miei e figurato rimase nella mia mente; ma pure d'essere ignuda veduta da lui mi porse vergogna e di nuova rossezza dipinta tornai. E egli similmente, come mi vide, mutato il colore e stupefatto, fermato il passo, più non venne oltre; onde, come alla dèa piacque, riprendemmo i vestimenti. E uscite dell'acque e di mortine coronate, in uno grazioso seno, che 'l monte di sé faceva quivi vicino, di bellissima erba pieno e dipinto di molti fiori, ce ne andammo; e sopra quella, freschissima, i corpi distesi, ci posavamo, quando la dèa, chiamato il giovane, e egli già quivi venuto, così cominciò a parlare: «Agapes carissima a me, questo giovane, Apiros chiamato, il quale timido così tra le nostre erbe discerni, sarà a te quello che tu hai domandato; e però con sollicitudine i fuochi nostri che di qui porterai, fa che inviolati servi». Io le voleva rispondere, ma il tenero petto subitamente da vegnente saetta mi fu percosso, mandata dalla potente mano del figliuolo della dèa, la quale avea aggiunto alle prime parole: «Noi te 'l diamo per unico servidore e nuovo; egli non sente altro difetto che de' nostri fuochi, li quali, nuovamente per te in lui accesi, fa che sì nutrichi che, la freddezza, che ad Agliauro il tiene simigliante, del cuore a lui cacciata, simile il rendi al nostro Giove». Aveva detto; e io, ancora tremante di paura, non prima la bocca apersi consentendo a' detti suoi che io, nel tempio orante, dinanzi mi vidi a' suoi altari, dove io già dissi; per che, non poco maravigliandomi e gli occhi volgendo intorno per rivedere Apiros, a me conobbi l'aurea saetta nel petto. E in parte vicina vidi il palido giovane me con tutto lo 'ntendimento mirante fiso, e ferito così com'io; e vedendolo non d'altro fuoco acceso che io, risi e contenta con occhio vago gli diedi segno di buona speranza. E lui, per lunga fiamma fatto caldissimo, insieme a' servigi della dèa e a' miei, di virtù intero il ritenni; e i freddi abbracciamenti del vecchio marito, quanto potei, con ragione rifiutai, usando quelli di colui cui io già più che grana avea fatto tornare colorito. Dunque di questa dèa son tutta: costei adoro, costei reverisco e costei séguito; e sua voglio essere, né altra deità m'è nota; e per costei ancora i regni superni userò dèa, sì che, se sollicita sempre visito li suoi templi, niuna se ne dêe maravigliare, ciò sappiendo che io v'ho detto. - La donna, finite le graziose parole, con lieto canto appresso mise in nota i seguenti versi: |
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