[XXXV]
- Molti amori a me per la memoria non debole ferventi si
volgono e ciascuno disidera d'essere il raccontato. Ma poi che chi fossero i
miei parenti v'avrò dichiarato, qual più possente verrà nella lingua, quello,
per servare l'ordine cominciato, vi mosterrò. Già era stato cacciato Saturno da
Giove, quando gli euboici giovani, lasciata Calcidia, con le loro navi presero
Caprea, vicina a' santi oraculi di Minerva; e in quella e molto multiplicati,
tanto che già il picciolo luogo appena li sostenea, quindi di loro gran parte
partitasi, l'isole Pittacuse cercarono; e abitârle. Ma quelle, infino nella
loro venuta picciole a' nuovi popoli, per cresciuta prole l'abandonarono; e
vicini al lago d'Averno, via certissima agli iddii infernali e all'onde del
Mirteo mare, e di Vulturno alla torbida foce, quasi in mezzo, in terra ferma
posarono i passi loro. E salutati i vicini monti, li quali d'alberi copiosi
conobbero, e i piani atti a' lavorii e dimostranti segni di fertilità, quivi
disposero d'abitare, estimando che istrettezza di luogo più non li farebbe per
innanzi mutare, quantunque crescesse la loro progenie; e data forma con ricurvo
aratro alla nuova terra, in due divisa per li due popoli, lì di due isole
arrivati, prima stati uno in Caprea, quella nominarono Cumme.
Ma l'antico figliuolo del troiano Anchise ancora in quella
non avea la vivace Sibilla veduta, né colti ne' fruttiferi colli i santi rami
per offerere a Proserpina, né date le pietose membra di Meseno ad etterno
sepolcro, quando le mura, già in alto levate, e le rocche fortissime, in essa
toccanti il cielo, e i templi grandissimi già la mostravano città nobilissima e
popolata. Alla quale Giunone invidiosa, diede cagione di mancamento a'
multiplicati uomini, e minacciando peggio, non valendo sacrificii né prieghi,
fu cagione miserabile a molti d'abandonare le propie case. Li quali, partendosi
quindi e novella stanzia cercando, dietro alle spalle i non conosciuti ancora
tiepidi e dilettevoli bagni di Baia s'aveano lasciati e le montagne sulfuree; e
già sopra Falerno, coperto di vigne portanti vino ottimissimo, ancora non
forato da Cesare, eran saliti; e il viso tenevano alle fiamme di Veseo, che,
sanza danno, loro porgeva paura. Ma poi che da quelle, mirandosi a' piedi,
levando gli occhi, gli stesero al piano, fermarono il passo; e quello con
estimazione sottilissima riguardando, videro quello con brieve fatica utile a'
loro divisi. Essi primieramente, examinata la condizione del cielo, umile e
accostante alle loro compressioni la trovarono, e il luogo, sollevato con
picciolo colle dal mare, videro fruttifero e abondante di ciascuno bene; e i
marini porti, lieti e graziosi, si mostravano utili, bene che d'acque i luoghi
poveri discernano alquanto; ma fidandosi di dare a ciò riparo, diliberano che
sanza più cercare quivi si fermino i passi loro; e con questo consiglio,
declinando del monte, vicini alle poche onde che tra Falerno e Veseo stanche
mettono in mare, nelli eminenti luoghi fondarono nuove mura. Delle quali ancora
non avevano veduti le fosse i fondi loro, quando Giunone, le sue ire
infignendo, li fece rivocare alle prime case. Alle quali tornare non furono
difficili, però che già per pessimo agurio dubitavano l'opera incominciata
avanzare. Essi, nel primo fondare, di candido marmo una nobile sepoltura della
terra nel ventre trovarono, il titolo della quale, di lettera appena nota, tra
loro leggendolo, trovarono che dicea: Qui Partenopes vergine sicula morta
giace. Onde essi, sterilità e mortalità dubitando, tornarono a' primi luoghi
meno utili che' lasciati, e a' lasciati lasciarono per etterno cognome il nome
di quella che essi aveano trovata. Ricolti dunque la seconda volta ne' luoghi
loro, non guari vi stettero che l'ire lungamente nascose tutte s'apersero,
operante Giunone; né tale miseria si vide in Egina, regnante Eaco, quale quivi
veduta sariesi, da qualunque nemico piagnevole. Onde i mobili popoli, pochi
rimasi, pensano di nuove sedie; né d'altre più sane deliberano che quelle
trovate da' primi sopra le sepulte membra partenopee, danti migliore interpretazione
a' versi scritti nell'antico avello che' primi non fecero, dicendo che quivi
sepulta ogni virginità e ogni mortalità sanza fallo saria con la sicula
vergine, e le terre vivaci e fruttiferi [i] popoli renderebbono, così a' Siculi
avversi nell'armi come alla vergine negli effetti. E come due erano entrati in
Cumme, così quivi due, abandonata l'antica città, se ne vengono; e la parte
maggiore i cominciati fondamenti altra volta rinnova nelle piagge alte e a
quelli aggiugne mura fortissime, le quali infino al mare tirate con forti
ostaculi chiudono la nuova terra, così da loro nominata a differenza
dell'antica abandonata. Gli altri, in numero minori ma non negli effetti, infra
Falerno e essi si puosero nel poco piano, per una gittata di pietra vicini a'
primi posti. Una lingua, uno abito e que' medesimi iddii erano all'uno che
all'altro; solamente gli abituri erano divisi. E in picciolo tempo di teatri,
di templi e d'alti abituri bellissima si poté riguardare; e ciascuno giorno
multiplicando di bene in meglio, poté essere dalle circustanti città menomanti
invidiata; e ne' presenti secoli più bella che mai e di popolo ornatissima
piena si vede e in tanto ampliata che, l'una con l'altra delle antiche terre
congiunta, sono una città divenute, notabile a tutto il mondo.
Mentre che le dette cose così procedono di tempo in tempo a'
popoli fortunati, Enea, lasciati i luoghi natali, cacciato delle Strofade,
fuggito de' liti africani, di Cicilia partito e tornato dalle sedie infernali,
entra nelle foci dello imperiale Tevero co' troiani iddii; e presa l'amicizia
di Evandro d'Arcadia e sacrificata la bianca troia alla crucciata Giunone e
ucciso Turno, con la sua Lavina lieto tiene Laurenza e dà principio alla gente
giulia. De' quali, della vergine sacra e di Marte, Romulo trae invitta origine;
e lieto con rigorosa giustizia e con non pieghevole forza l'antiche case di
Evandro ristora; e di mura co' suoi successori cingono l'arci di Palatino, e
monte Celio e Aventino con gli altri colli già da umile piano erano levati a
soggiogare il mondo. E finita la signoria de' re nella città nomata dal suo
fattore e già lungamente vivuta sotto il libero uficio de' consoli, si poteano
vedere i campidogli non rozzi, con iscaglioni di zolle né di paglia coperti, ma
chiari di candidi marmi e d'oro molto lucenti, e i templi altissimi e mirabili,
pieni di molti iddii, i teatri risonanti e di giovani spessi, né indigenti
delle Sabine, e tutto il cerchio ripieno di popolo, possente e timido a tutto
il mondo; e i mai non usati triunfi in quella già de' popoli orientali e di
que' di Spagna e di qualunque altri si celebravano, e Roma in ogni luogo si
conoscea. E di quinci nelle mani del divino Cesare pervenuta, lieta donna si
vede di tutto il mondo; il quale, asprissimi affanni sopra l'onde d'Ibero,
durante per lo suo imperio, ancora non istata la farsalica pugna, vittorioso di
quelli, seco alle seguenti fatiche uomini antichi di sangue, nobili di costumi,
chiari di fede e di virtù risplendenti, nell'armi feroci e agli affanni
possibili, ne menò; da' quali non abandonato giammai, ad essi per merito dopo
l'acquistate vittorie con la cittadinanza luoghi nobili diede in Roma. Là dove
i loro discendenti per la loro virtù, avanzante sempre chi segue lei, in
processo di tempo ebbono grandissimo stato, e in ricchezze e in oficii
cresciuti e in uomini. Altri questi reputano i Fresapani e alcuni gli estimano
gli Annibali. Ma l'antichità quali d'essi si fossero il ver ne toglie: ma quale
che di queste due fosse l'una, ciascuna e pontefici massimi e cesari ebbe nella
sua casa.
Di questi, dopo le pistolenzie de' Vandali, uno di loro,
lasciata Roma, di Iovenale l'oppido antico si sottomise, e quello
signoreggiando, a sé e a' suoi discendenti, che a me furono primi, diede
cognome. De' quali alcuni, e tra quelli il padre mio, vennero alla città
predetta e quivi tennero e tengono il più alto luogo appresso al solio di colui
che oggi in quella regge incoronato; il quale, di doni di Pallade copioso,
cupido di ricchezze e avaro di quelle, meritevolmente Mida, da Mida, si può
nominare. Egli e' suoi predecessori, venuti della togata Gallia, molto onorando
costoro, una nobile giovane venuta di quelle parti, per bellezza da lodare
molto, ma più per costumi, per isposa congiunse al padre mio. La quale, dèa
credo di cento fiumi, due dubbii padri mi diede nel nascimento, de' quali l'uno
più gentile e l'altro più onesto sanza dubbio conosco. Ma acciò che colpevole
non sia riputata la madre mia, né di rotta fede dannata, m'è caro di palesare i
furti sforzati, ancora occulti.
Il sole avea tolti alle notti gli spazii lunghi e, terzo
fratello, godeva con quelli d'Elena, privando di luce le stelle loro, più
accese di quella che mai, quando il predetto Mida, di poco tempo davanti stato
coronato de' regni, a celebrare si dispose una gran festa, alla quale i sommati
del regno suo, d'ogni parte chiamati, vi vennero. Quivi le driade e le
silvestre ninfe e le naiade di qualunque paese sopposto al re novello vi
furono; ma tra l'altre bellissime, ornate di pietre e di molto oro, le partenopensi
v'apparvono, intra le quali non men bella di tutte fu la mia madre. Le poste
mense, nulla altro espettanti, si riempierono d'uomini e di donne; e ciascuna
tenne secondo il suo grado lo scanno. Gli argentei vasi dierono le copiose
vivande, e il lavorato oro i graziosi vini concesse agli assetati; e le reali
sale d'ogni parte di nobili giovani serventi alle mense presti si videro piene;
e i molti e varii suoni fecero la rilucente aula fremire ispesse volte; e già
niun'altra cosa che festa vi si vedea, quando il sommo prencipe, ornato di
vestimenti reali, da' suoi più nobili accompagnato, acciò che più lieti facesse
i conviti, visitò con aspetto piacevole i convitati. Ma mentre che egli con
occhio vago ora questa donna e ora quell'altra riguarda, alla vista gli corse
il viso della mia madre, il quale in sé di bellezza oltre a tutti gli altri
commenda; e tacito pensa sé ancora dovere più felice usare le colei bellezze,
se fortuna nemica non gli si oppone.
Le liete feste durano il debito tempo; il quale finito,
ciascuno le sue case ricerca. Ma tra poche a questo usate sempre, la madre mia
spesso ricerca la reale corte, nella quale il marito avea non picciolo luogo.
Il nuovo re per le non dimenticate bellezze s'infiamma più sovente vedendole, e
sollecita di dare effetto al suo pensiero. Ma la fortuna, acconciatrice de'
piaceri de' possenti, più di lui fatica in queste cose e porge cagione alla
donna per la quale conviene ch'ella porga prieghi al re disiderante
d'exaudirli; porgonsi e, uditi, è loro effetto promesso. Al quale dare
ingannevoli ingegni usati, mentre la donna cerca la grazia addomandata, cade
ne' tesi lacciuoli e, invita, diventa del re. I cui desiderii compiuti, col
dimandato si parte e sentendo la cosa occulta, si tace il ricevuto oltraggio.
Certo, se io non ne fossi dovuta nascere, io direi ch'ella avesse peccato, di
Lucrezia non seguitando l'exemplo. Ma, onde che il violato ventre, o da questo
inganno o dal propio marito quello medesimo giorno, seme prendesse, io fui nel
debito tempo frutto della matura pregnezza.
E essendo io ancora piccioletta e di questo del tutto
ignorante, la madre mia, disposta a mutare mondo, come ella fece, aggiugnendo
che sempre, come stato era occulto, così il tenessi, me 'l fe' palese, sì come
a voi come con meco medesima l'ho ragionando mostrato. E a ciò, sì come ella mi
disse, nulla altra cosa la mosse se non perché io con fidanza maggiore i reali
doni, come di padre dubbio, usassi per lo tempo a venire. Adunque, come
manifesto v'è, di padre incerto figliuola, due ne tenni per padri; ma già il
putativo e forse vero, disposto a seguire la mia madre, a vestali vergini, a
lui di sangue congiunte, mi lasciò piccioletta, acciò che quelle, di costumi e
d'arte inviolata servandomi, ornassero la mia giovanezza. E certo il pietoso pensiero
ebbe effetto; e tanto con benivolo animo i loro sacrificii imitai che nulla
cosa mancava a me di quelle se non il vestimento ad essere una di loro. Ma,
posto che io non l'avessi, non fu verso di me di Vesta la benivolenzia minore;
e ella di ciò segnale manifesto mi diede una volta. Il vergine sole era già
coperto dall'onde di Speria e il vegghiante gallo avea le prime ore cantate e
ogni stella pareva nel cielo, quando io giovinetta, non vinta dal sonno, per
picciola finestrella mirava quelle, e in me medesima pensando il moto, la
bellezza e l'etternità, le lodava molto, quando Vesta in pietoso abito, dalle
sue vergini intorniata, benigna m'aparve; e me stupefatta prese con queste
parole:
«Cara giovane, che mirano gli occhi tuoi?»
Appena in me venne la voce a sodisfarla, ma pur gliel dissi;
ma ella, più a me allora accostatasi, che reverente stava dinanzi a' piè di
lei, disse:
«Io sono quella dèa, i fuochi della quale tu con le vergini
mie con animo puro solleciti. E acciò che io non possa ingrata da te essere
chiamata, ti giuro per gli stigii fiumi che, se bene quelli in vita serverai,
quella corona, la quale fu d'Adriana e che tu puoi nel sereno cielo vedere
ornata d'otto stelle, ti farò dare a Giove».
E col santo dito fattalami conoscere, volendo io promettere
di servarli e ringraziarla della promessa, si tolse agli occhi miei. Onde io,
lieta di tale accidente rimasa, disposi etternalmente vivere ne' santi templi.
Ma di ciò fu l'avenimento contrario, perché bene il mio viso non rispondeva al
pensiero, e la mia bellezza fu cagione di rompere le mie proposizioni; la
quale, da uno de' più nobili giovani della terra là dov'io nacqui veduta,
piacque agli occhi suoi. Questi, di forma grazioso e de' beni giunonichi
copioso e chiaro di sangue, prima tentò i miei matrimonii. Li quali da me
negatili, non si stette, ma a colui che forse sua figliuola mi reputava, mi
dimandò; e fu udita la sua domanda, per la qual cosa di colui i piaceri fuggire
non potei. E certo io me ne sarei vie più sforzata che io non feci, se a me non
fosse stato mostrato di potere a una ora e i matrimonii seguire e i santi
fuochi cultivare della dèa. Fui adunque, e sono, di quello che con
sollicitudine mi cercò; e quella corona sperando ancora, lieta visito i templi
vestali e lei come deità singulare onoro.
Ma come Venere mi prendesse vi farò noto. Essendo io, come
io v'ho detto, del pronto giovane, e sua stata più anni, avvenne che per caso
opportuno li convenne a Capova, per adietro l'una delle tre migliori terre del
mondo, andare. Onde io nella mia camera sola le paurose notti traeva nel freddo
letto; nel quale, temperante Appollo i veleni freddi di Scorpione, sicura e
sola una notte dormiva, e certo le imagini dello ingannevole sonno mi
mostravano quello che sanza niuno inganno era vero. Però che a me pareva essere
di colui nelle braccia di cui io era; ma già a quelli effetti venendo che più e
ne' sonni e nelle vigilie sogliono essere cari, non sostenne il sonno quelle
letizie, anzi a una ora mi fuggio, e del petto e delle braccia mi tolse colui
che mi tenea; e già desta, ricordandomi che sola essere dovea, nelle braccia mi
vidi d'uno giovane. La voce era già venuta nella lingua per chiamare i servi e
per dolersi degli scoperti inganni; e io presta voleva saltare del ricco letto.
Ma il non pauroso giovane, e di me più possente, ad un'ora mi tenne e con la
sua voce, da' miei orecchi sùbito conosciuta, ritenne la mia. Niuno spirito mi
rimase sicuro, anzi così tremava come le pieghevoli canne mosse da ogni vento;
e con quelle voci che io potei, più volte il pregai che si partisse e i casti
letti non tentasse di violare. Ma poi che a sé prima la morte offerse che la
partita, ingegnandosi con dolci parole da me cacciare la paura, io, levate le
cortine, gli accesi lumi nella nostra camera presi per testimonii della sua
sembianza; e accertatami che la voce udita non m'avea ingannata, così gli
dissi:
«O giovane più ardito che savio, non si distendano più le
tue mani nella mia persona che io voglia, se la vita t'è cara: gli amori di
qualunque persona sono con piacevolezza da impetrare, e non per forza. E il
luogo ove noi siamo toglie via quello che si suole dire le donne disiderano:
che contro a loro in ciò che più vogliono s'usi forza; e il tempo ancora,
quando io volessi, ci è favorevole. Adunque a quello di che io ti domanderò, mi
rispondi; e se te di me sentirò degno, niuna forza ci fia bisogno, né priego; e
così, se in contrario, indarno la lingua o le braccia faticheresti».
A queste voci elli dopo un caldo sospiro lasciò me e
indietro si trasse; e così, me l'uno canto del letto e esso l'altro tenendo,
disse:
«Io non venni qui, o giovane, come rubatore della castità
del tuo letto, ma come focoso amadore, ad alcuno rifrigerio donare a' miei
ardori; alli quali se tu nol dài, niuna altra cosa fia, se non un dirmi che io
m'uccida. E certo io uscirò di qui o contento o morto, non che io con forza
cerchi i miei piaceri o aspetti che alcuno le sue mani contra di me
incrudelisca; ma se tu dura sarai a' miei disii, io col mio ferro, usando
crudele uficio, mi passerò il petto. Ma di ciò che tu vuogli io ti risponderò».
Me non spaventarono le crudeli parole, ma, nel primo
proposito ferma, il domandai come elli arditissimo quivi era venuto; a cui elli
disse:
«Ecaten, vinta dalle mie parole e da varii sughi d'erbe e
virtuosi, a questo luogo venire mi diede apertissima via e sicura; la quale
similmente m'avrebbe nel tuo petto data, se io i tuoi amori volessi sforzati».
Maraviglia'mi, udendo questo; ma nulla altra via
conoscendovi, gliel credetti. E la seconda volta domandandolo, cercai come,
quando, dove e perché io gli fossi piaciuta; alla quale domanda egli umile e
con voce quieta, dopo molti sospiri, così mi rispose:
«Bella donna, unico fuoco della mia mente, io, nato non
molto lontano a' luoghi onde trasse origine la tua madre, fanciullo cercai i
regni etrurii, e di quelli, in più ferma età venuto, qui venni. Ma, essendo io
già alla città presente vicino, i cieli, le future cose sententi, parte delle
fiamme che si doveano acquistare nel luogo mai non veduto mi vollono aprire; e,
quale che si fosse sùbito la cagione, me, tutto in me raccolto, trasse a' dolci
pensieri, nel mezzo de' quali la vostra città mi si fe' palese; e le mai non
vedute rughe con diletto tenevano l'anima mia. Per la quale così andando, agli
occhi della mente si parò innanzi una giovane bellissima, in aspetto graziosa e
leggiadra e di verdi vestimenti vestita, ornata secondo che la sua età e
l'antico costume della città richiedéno; e con liete accoglienze, me prima per
la mano preso, mi baciò, e io lei; dopo questo aggiugnendo con voce piacevole:
"Vieni dove la cagione de' tuoi beni vedrai". A me pareva essere
disposto a seguirla, quando contrario accidente e sùbito mi percosse, e me, di
me fuori errante, in me rivocò con dolore; e già vicino al cadere mi vidi del
non retto cavallo, me verso quella portante dov'io stava. Ma questo non operò
che di quella la imagine si partisse da me, che, risentito, co' ridenti
compagni mi vidi alla entrata de' luoghi cercati, ove io entrai, e l'età
pubescente di nuovo, sanza reducere la veduta donna ne' miei pensieri, vi
trassi; e come gli altri giovani le chiare bellezze delle donne di questa terra
andavano riguardando, e io. Tra le quali una giovane ninfa chiamata Pampinea,
fattomi del suo amore degno, in quello mi tenne non poco tempo. Ma a questa la
vista d'un'altra, chiamata Abrotonia, mi tolse e femmi suo. Ella certo avanzava
di bellezze Pampinea e di nobiltà, e con atti piacevoli mi dava d'amarla
cagione; ma poi, fattomi de' suoi abbracciamenti contento, quelli mi concesse
non lunga stagione, però che, io non so da che spirito mossa, verso di me
turbata, del tutto a me negandosi, m'era materia di pessima vita. Io ricercai
molte volte la grazia perduta, né quella mai potei riavere; per la qual cosa un
dì, da grieve doglia sospinto, ardito divenni oltre il dovere; e in parte ove
lei sola trovai così le dissi:
"Nobile giovane, s'elli è possibile che mai il tuo
amore mi si renda, ora, i molti prieghi ragunati in uno, il dimando".
A cui ella rispose:
"Giovane, la tua bellezza di quello ti fece degno, ma
la tua iniquità di quello t'ha indegno renduto. E però sanza speranza di
riaverlo giammai vivi omai come ti piace".
E questo detto, come se di me dubitasse, si partì
frettolosa. Certo io estimo che 'l dolore della impaziente Didone fosse minore
che 'l mio, quand'ella vide Enea dipartirsi, ma tacerollo, però che invano
gitterei le parole, pensando che la menoma parte appena se ne potrebbe per me
esplicare; ma così dolente la mia camera ricercai, nella quale solo più volte
l'angosce mie come Ifi o Blibide miseramente pensai di finire. Ma già, fuggita
ogni luce, la notte occupava le terre, quando a me, in questi pensieri
involuto, non sanza molta fatica il sonno, imitante la morte, entrò nel mio
misero petto. Nel quale qual si fosse lo dio verso me o pietoso o crudele che
movesse Morfeo a varie cose mostrarmi, m'è occulto; ma cose terribili vidi in
quello. Intorno alla fine del quale, come io avviso, mi pareva in doloroso atto
sedere in una parte della camera mia e in quella vedermi davanti Pampinea e la
turbata Abrotonia; e amendune, mirandomi fiso con atto lascivo e con parole
abominevoli dannando i miei dolori, mi schernivano. Alle quali a me pareva con
prieghi dire che esse, quindi partendosi, me lasciassero a' miei dolori solo,
poi che di quelli erano state movente cagione. Ma le mie parole non aveano
luogo; esse, ognora crescenti ne' miei obbrobrii, con più turpi parlari non mi
si levavano dinanzi, onde non poco cresceva la doglia mia. E per questo, a loro
la seconda volta rivolto, diceva:
"O giovani, schernitrici de' danni dati e di chi con
sommo studio per adietro v'ha onorate, levatevi di qui: questa noia non si
conviene a me per premio de' cantati versi in vostra laude e delle avute
fatiche".
A queste parole Abrotonia più focosa rispose:
"Brieve ti fia la nostra noia, e tosto ti fia palese
per cui più altamente canterai che per noi, che qui venute semo a pórti
silenzio, se più ne volessi cantare".
A cui mi parea rispondere:
"Cessino gl'iddii che questo sia, che io mai più, se
della signoria esco di voi, come io disio, diventi d'alcuna, o che più per me
Caliopè dêa forma a nuovi versi!"
A cui queste sùbite seguitaro:
"Niente t'abbiamo tenuto noi sì come donna, ancora la
tua età non tegnente, fierissima a rispetto di noi, signoreggerà la tua mente;
la quale se di vederla t'agrada, aspettaci qui: noi la ti mosterremo".
Ebbero detto; e a un'ora esse e 'l sonno si dipartirono.
Onde io, maravigliatomi, prima lento i riposati membri levai del tristo letto,
e con sollecita mano esplorando l'oziose tenebre i luoghi del fuoco cercai. Del
quale esservene non prima conobbi che quello, alquanto fumante, nascoso sotto
la cenere, mi cosse la mano palpante; ma, tirata indietro quella, l'altra, con
più prestezza pórta all'accese brace, di quelle misi nella secca stoppa; e con
aure lievi e continue il fuoco languente recai in chiara luce, cacciando le
tenebre della notte, nelle quali forse più attamente mi sarei doluto che al
lume. E questo fatto, io ritornai agli usati pensieri, e in quelli malinconico
lunga fiata vegghiai. Né aveva ancora i suoi dispendii tratti la notte con
seco, quando nuovamente, da' pensieri vinto, soave sonno mi ripigliò. Né prima
nel profondo di quello fui tuffato che le già dette di me schernitrici mi
furono davanti, ma con vista gabbevole meno; e in mezzo di loro aveano menata
una giovane di sì grazioso aspetto quanto mai nessuna n'apparisse agli occhi
miei; e era di verde vestita. Né cosa alcuna mi dissono, se non solamente:
"Ecco colei cui già ti dicemmo che sola fia donna della
tua mente e per la quale le tue virtù in esperienzia le loro forze
porranno".
A questo niuna cosa fu a quelle per me risposto; ma, quasi
de' preteriti danni dimentico, intendeva con sommo diletto a mirare quella, fra
me dicendo: "Veramente ogni altra bellezza vince questa che costei tiene;
e niuna fatica per lei avuta sarebbe indegna a chi per quella di tale meritasse
la grazia". E lungamente miratola, fra me contendeva se altra volta veduta
l'avessi o no, né alla memoria tornava che mai per me fosse stata veduta. Ma la
reminiscenza più ricordevole nella smarrita memoria tornò costei, da me vista
un'altra fiata; e che questa era colei che, nella mia puerizia vegnendo a
questi luoghi, apparitami e baciatomi, lieta m'avea la venuta proferta. E
ancora che Febo avesse tutti e dodici i segnali mostrati del cielo sei volte
poi che quello era stato, pure riformò la non falsa fantasia nella offuscata
memoria la veduta effigie, e una con quella essere la conobbe. E per questo
lieto, di pensiero in pensiero in ammirazione multiplicando, in tanta crebbi
che 'l sonno, non potendola sostenere, fuggendo, cacciò quelle con quella che
più m'agradiva di riguardare. E già l'uccello escubitore col suo canto avea
dati segnali del venuto giorno, per che io, sanza più al sonno tornare,
pregando gl'iddii che vere le vedute cose facessero, mi levai, e con ferma
speranza, più volte cercando in ogni luogo ove belle donne si ragunassero, per
vedere questa andai; e minori fatiche delli perduti amori sosteneva per questa.
Ma sedici volte tonda e altrettante bicorne ci si mostrò Febea avanti che la
servata imagine in me avesse a cui somigliarsi tra molte in quel mezzo da me
vedute. Ma la superna provedenzia disponente con etterna ragione le cose a'
debiti fini, tenente Titan di Gradivo la prima casa un grado oltre al mezzo o
poco più, un giorno nella cui aurora avea signoreggiato lo dio appo li Lazii
già per adietro stato per paura del figlio, e di quello già Febo salito alla
terza parte, io entrai in un tempio da colui detto che per salire alle case
delli iddii immortali tale di sé tutto sostenne quale Muzio, di Porsenna in
presenzia, della propia mano. Nel quale, ascoltando io le laude in tale dì a
Giove per la spogliata Dite rendute (cantandole flammini laudanti le poche
sustanzie di Codro e per dovere obligati a soli i bisogni della natura,
rifiutando ogni più), voi singulare bellezza dell'universo, di bruna veste
coperta, appariste agli occhi miei e il cuore, già delle dette cose dimentico
né tremebundo per altra, moveste a tremare. Ma io, non conoscendo perché,
alquanto mirandovi, d'avervi veduta altrove in me tentava di ricordarmi; ma il
mutato vestire il come e 'l quando mi toglieva del tutto. Ma pure la graziosa
vista, lungo tempo stata già donna della mia mente, m'accese per modo ch'ancora
mi cuoce, e farà sempre. E tutto quel giorno di riconoscervi col pensiero
indarno faticai la memoria, atto a più lunga fatica, se il dì seguente,
solenne, non me ne avesse tratto, nel quale al già detto tempio tornai; dove io
voi, come ricordare vi dovete, di molto oro lucente e ornata di gemme, di
finissimo verde vestita, bella per arte e per natura vi vidi. Né prima il verde
vestire corse agli occhi miei che lo industrioso intelletto riconobbe il vostro
viso; e con affermazione dissi: "Questa donna è colei che nella mia
puerizia, e' non ha gran tempo ancora, m'aparve ne' sonni miei, questa è quella
che, con lieto aspetto, graziosa mi promise l'entrata di questa città, questa è
quella che dêe signoreggiare la mia mente e che per donna mi fu promessa ne'
sonni". E da quella ora innanzi, sì come ricordare vi dovete, sempre come
singulare donna della mia mente vi riguardai, e alle vostre bellezze il cuore,
il quale avea proposto di sempre tenere serrato, apersi; e quelle in esso
ricevetti e tengo e terrò sempre, e per quelle voi, di lui singulare donna,
onorerò, amerò e avrò sempre cara più ch'altra. Adunque, se bene le vedute cose
da me e udite da voi e i passati sguardi considererete, voi a me promessa
vederete dal cielo e per sollecito amore dovuta, s'io non m'inganno. Per che io
caramente vi priego che così mia divegnate come io sono vostro, acciò che ad
un'ora non perisca la mia vita e la vostra fama».
E qui, quasi lagrimando, si tacque. Io aveva udite le molte
parole e già per segnali aveva i suoi amori conosciuti. Ma mentre io, vedente
nella sua destra mano il coltello apparecchiato a perdonare e a offendere, come
io concedessi, examinava quello che io dovessi fare, da una parte dalla pietà degli
umili prieghi e della presta morte tirata, e dall'altra dalla debita fede in
ambiguità caduta, Venere, favoreggiante a' suoi suggetti, stette presente e di
maggiore luce accese le nostre camere, e con mormorio titubante ne porgeva
minacce. E già me veggendo dubbiosa in troppa lunga dimora tirare il tempo, con
ispaventevole voce disse: «Viva il nostro suggetto, o giovane, te operante, se
l'ira degli iddii non t'è cara». E con focoso raggio percossami, me tutta
accese del piacere di costui e dipartissi. Ma io, ancora dubbiosa di mostrare
ciò che dentro nuovamente sentiva, lui nudo, bellissimo, quanto il lume
passante le cortine sottili mi concedeva, il vedea, e fra me spesso diceva: «Di
che ti tieni? Va e con le desiderose braccia strigni i vaghi colli». Egli avea
di me lungamente la risposta aspettata, quando elli, me non rispondente
vedendo, disse:
«Che farò, o donna? Passerà il freddo ferro il sollecito
petto o lieto sarà dal tuo riscaldato?»
Questa voce mi porse paura; e ogni tepidezza lasciata, al
luogo là dov'elli era sùbito mi gittai. E tratto della presta mano l'aguto
ferro, lui abbracciai e dopo molti baci li dissi:
«Giovane, gl'iddii, l'ardire e la bellezza di te hanno
l'animo mio piegato. E così come ne' sonni ti fu già detto, sarò sempre tua;
che tu sia mio, il pregarti non credo bisogni, ma, s'e' bisogna, ora per tutte
le volte ne sii pregato».
Egli, lietissimo, con qualunque saramento porge più fede,
promise quello che io cercava. Così adunque divenni sua e de' cercati doni il
feci contento, e lui ancora tengo per mio e terrò sempre; elli me e' miei
ammaestramenti séguita paziente. Adunque, come avete udito, così di Venere
diventai, la quale veggendo io sollecita ad aiutare i suoi, grandissima cagione
fu a me di seguire la sua deità; la quale tanto più séguito effettuosa, quanto
più a sommetterlemi fui innanzi dubbiosa. E perciò che tante volte dal mio
Caleone, da cui sempre fui chiamata Fiammetta, avanti l'acceso amore verde fui
conosciuta, di vestirmi di verde poi sempre mi sono dilettata; e a memoria
etterna de' nostri amori e perpetuo onore della nostra dèa, lieta visito questi
templi. -
Non si aspettava più di costei se non i versi; i quali ella
cantando così cominciò:
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