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Giovanni Boccaccio Comedia delle ninfe fiorentine IntraText CT - Lettura del testo |
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[XLII] Rassicurossi allora Ameto e secondo lo stato parlare estimò colei veramente essere non quella Venere che gli stolti alle loro disordinate concupiscenzie chiamano dèa, ma quella dalla quale i veri e giusti e santi amori discendono intra' mortali. E rimirati delle donne gli aspetti, più belli li vide che mai e più sicuri, e tutte con occhio passibile rimirare attente in quella luce, dalla quale sì li parevano accese ch'elli alcuna volta pauroso pensò ch'elle ardessero, e massimamente Agapes e la sua Lia. Ma fuggitali per lo lieto viso di quelle cotal paura, aguzzando gli occhi, con quelli s'ingegnava di penetrare il chiaro lume. E come che molto gli fosse difficile di trarre di quello alcuna cosa, pure, quale in lucida fiamma si discerne l'acceso carbone, cotale in quella un luminoso corpo, vincente ogn'altra chiarezza, conobbe. E quello, né più né meno che il bogliente ferro tratto dell'ardente fucina, vide d'infinite faville sfavillante, e di quelle ogni parte a sé dintorno fra la circustante luce ripieno. Ma del divino viso l'effigie e de' belli occhi co' suoi non poté prendere; e mentre che elli così rimirava, la santa dèa udio così parlante: |
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