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Giovanni Boccaccio
Comedia delle ninfe fiorentine

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  • [XLIV]
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[XLIV]

Le divine parole appena aveano fine che le ninfe, in piè dirizzate, corsero verso Ameto; il quale sì stupefatto stava a rimirare Venere che preso dalla sua Lia non si sentì, infino a tanto che, di dosso gittatili i panni selvaggi, nella chiara fonte il tuffò, nella quale tutto si sentì lavare. E essa, da lui cacciata ciascuna ordura, puro il rendé a Fiammetta, la quale nel luogo il ripose donde era stato levato, davanti la dèa; là dove Mopsa con veste in piega raccolta, gli occhi asciugandoli, da quelli levò l'oscura caligine che Venere gli toglieva. Ma Emilia, lieta e con mano pietosa, sollecita, a quella parte dove la santa dèa teneva la vista sua, il suo sguardo dirizzò di presente; e Acrimonia agli occhi, già chiari, la vista fece potente a tali effetti; ma poi che Adiona l'ebbe di drappi carissimi ricoperto, Agapes, in bocca spirandoli, di fuoco mal da lui simile non sentito l'accese. Di che, egli vedendosi ornato, bello, con luce chiara ardente, lieto al santo viso distese le vaghe luci, né altrimenti, quella ineffabile bellezza mirando, ebbe ammirazione che gli achivi compagni veduto bifolco divenuto Giansone. Elli, lungamente guardandola, in sé diceva:

- O diva pegasea, o alte Muse, reggete la debole mente a tanta cosa, e li 'ngegni rendete sottili a contemplarla, acciò che, se possibile è che umana lingua narri le divine bellezze, la mia le possa ancora ridire, avvegna che indarno a cotal fine la vista, da non risparmiare a questo punto, credo ch'io ci consumo. -

Egli l'avvisò molto, ma più avanti che la nostra effigie, tale qual nulla mai se ne vide sì bella, ne poté prendere, ora in diverse e ora in una forma; e ignorante del tempo conceduto a lui a cotale grazia, quanto dovesse durare, avvegna che infinito il disiasse, si dispose a porgere prieghi in questo modo:

- O deità sacra, parimenti de' cieli e della terra unica luce, se tu ad alcuno priego ti pieghi, in me riguarda e, per lo tuo santo e ineffabile nome triforme, per conseguente il valido aiuto concedi; e le pregate cose confermi l'etterna mano. Ecco che l'anima, dalla tua liberalità dalle superne sedie mandata in questi membri e a te con focoso disio appetente di ritornare, stata infino a questo dì, del quale mai da me non si partirà la memoria, accesa d'uno fuoco a lei sopra ogni altra cosa grazioso e piacevole, novellamente non sanza agurio d'ottimo avvenimento munta da sette fiamme, così quella lambenti dintorno come olmo avvinghiato da ellera. Le quali, bene che il sangue non sughino né la virtù scemino di quella (anzi, considerando quali d'esse sieno le moventi cagioni, né mi dolgono né esse cerco con acqua nimica d'offendere), ma con disio ferventissimo a dissolvermi e essere con teco mi spronano. E perciò, che passibile la facci a sostenere, vuol per le mie parole; e oltre a ciò che i presi amori inseparabili facci e longevi, sanza offesa di fortuna o di cieli, tale sempre in me la lor sembianza mostrando quale oggi lieta a pigliarmi l'hanno tenuta, acciò che io, bene i loro piaceri operando, possa con bianca pietra segnare i pochi giorni; e quivi quando per legge comune il colpo la dividerà d'Antropos, sanza impedimento la salita le mostri a' luoghi onde già venne, sì che per le sostenute fatiche frutto prenda, quale ha sperato, ne' regni tuoi. -

Queste parole erano finite, quando gli fu risposto con parlamenti minori in questo modo:

- Spera in noi e fa bene; e i tuoi disii saranno vicini. - E quinci sùbita sparve, nel cielo tornando con la sua luce. E Ameto, così adorno d'ogni parte, preso delle vedute bellezze, di quelle libero conoscimento a sé sentendo, lieto in mezzo di tutte si vede sedere; e, con servigii mirabili da quelle onorato, si gloriava. Ma esse, partita la dèa, liete dintorno a lui così insieme con angelica voce incominciarono a cantare:




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