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Giovanni Boccaccio
Comedia delle ninfe fiorentine

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[XLIX]

Fra la fronzuta e nova primavera,

in loco spesso d'erbette e di fiori,

da folti rami chiuso, posto m'era

ad ascoltare i lieti e vaghi amori,

nascosamente, delle ninfe belle,

que' recitanti, e de' loro amadori.

Li quali udendo e rimirando quelle

negli occhi belli e nelle facce chiare,

lucenti più che matutine stelle,

sentendo appresso il lor dolce cantare

in voce tal ch'angelica parea,

più tosto che mondana, ad ascoltare,

sì dolcemente nell'anima mea

Amor si risvegliò, dove dormia,

e dove appena fosse mi credea,

che per quella entro soave il sentia

per ogni parte andar con la biltate,

col ragionare e con la melodia

di quelle donne, che in veritate

io sanza me grand'ora dimorai

in non provata mai felicitate.

Ma poscia ch'io in me quindi tornai

per la novella fiamma che raccese

l'antica, tosto com'io la provai,

subitamente il cor ferito intese

il ben di quelle, sì come provato,

arguendo di lì le sue offese;

e quel ben, che io prima avea gustato

puro, da quinci innanzi con disiri

di nuovo accesi venne mescolato;

e così gioia insieme con martiri

aveva: gioia, quelle rimirando

e ascoltando i lor caldi sospiri;

martiri aveva, troppe disiando

ciò ch'esser non potea, avegna dio

che il bene era più, ben compensando.

Così ne' miei pensieri e nel disio

conoscea que' d'Ameto, il qual si stava

a mirar quelle sì fiso che io

di lui sovente in me stesso dubbiava

non fosse grave a quelle il suo mirare,

e di ciò forte fra me il ripigliava.

E di lui invidioso, palesare,

tal volta fu mi volli; poi mi tenni,

temendo condizion non peggiorare,

e con quel cuor che io pote' sostenni

vederlo a tanta corte presidente

parlar con motti e con riso e con cenni;

ma tutto questo m'usciva di mente

qualor nel viso ne mirava alcuna

o udiva cantar sì dolcemente.

Ma poi che l'aere a divenir bruna

incominciò, e il sole a colcarsi,

e fuor di Gange si mostrò la luna,

e che le ninfe tututte levârsi

dopo l'ultimo canto insieme fatto,

e verso i lor ricetti raviârsi,

io mi levai del luogo ov'era quatto

stato ad udire e a vedere, il giorno,

tanto di ben quanto fu patefatto.

E già veggendo delle stelle adorno

il cielo, in me dell'annottar doglioso,

quindi partimmi sanza far soggiorno.

Ma pensi chi ben vede, se penoso

esser dovei e con amaro core,

quel loco abandonando grazioso.

Quivi biltà, gentilezza e valore,

leggiadri motti, exemplo di virtute,

somma piacevolezza è con amore;

quivi disio movente omo a salute,

quivi tanto di bene e d'allegrezza

quant'om ci pote aver, quivi compiute

le delizie mondane, e lor dolcezza

si vedeva e sentiva; e ov'io vado

malinconia e etterna gramezza.

Lì non si ride mai, se non di rado:

la casa oscura e muta e molto trista

me ritiene e riceve, mal mio grado;

dove la cruda e orribile vista

d'un vecchio freddo, ruvido e avaro

ognora con affanno più m'atrista,

sì che l'aver veduto il giorno caro

e ritornare a così fatto ostello

rivolge ben quel dolce in tristo amaro.

Oh quanto si può dir felice quello

che sé in libertà tutto possiede!

Oh lieto vivere e più ch'altro bello!

Oh quanto Ameto, se questo ben vede,

dêe nella mente sentir di diletto,

s'elli il conosce, sì come om si crede,

veggendo sé tornato, di suggetto,

alto signor di donne tante e tali,

quai questo dì li furon nel cospetto!

Io mi tornai, dolendo de' miei mali,

al luogo usato; e attendendo peggio

per la sua fine, ho già pennute l'ali

al volare alla morte, la qual cheggio

la notte e 'l dì per men doglia sentire,

però che bene altro fin non veggio

esser serbato al mio lungo martire.




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