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Giovanni Boccaccio
Comedia delle ninfe fiorentine

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  • [XIV]
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[XIV]

[Alcesto]

Come Titan del sen dell'Aurora

esce, così con le mie pecorelle

i monti cerco sanza far dimora;

e poi ch'i'ho lassù condotte quelle,

le nuove erbette della pietra uscite

per caro cibo porgo innanzi ad elle.

Pasconsi quivi timidette e mite,

e servan lor grassezza con tal forma

che non curan di lupo le ferite.

 

[Acaten]

Io servo nelle mie tutta altra norma,

sì come i pastor siculi, da' quali

exemplo prende ogni ben retta torma.

Io non fatico loro a' disiguali

poggi salir, ma ne' pian copiosi,

d'erbe infinite do lor tante e tali

che gli uveri di quelle fan sugosi

di tanto latte ch'io non posso avere

vaso sì grande in cui tutto si posi.

Né i loro agne' ne posson tanto bere

ch'ancor più non avanzi; e honne tante

ch'io non ne posso il numero sapere.

Né, perché il lupo se ne porti alquante

io non me 'n curo; tale è la pastura

che tosto più ne rende o altrettante.

Io do loro ombre di bella verdura,

né con vincastro quelle vo battendo:

come le piace ognuna ha di sé cura,

vicine a molti rivi, che correndo

dintorno vanno a loro, ove la sete

ispenta, poi la vanno raccendendo.

Ma voi, Arcadi, sì poche n'avete

che 'l numero v'è chiaro; e tanto affanno

donate lor che tutte le perdete.

E, non che pascer, ma elle non hanno

ne' monti ber che basti; e pur pensate

di più saper di noi con vostro danno.

 

[Alcesto]

Le nostre in fonti chiare, derivate

di viva pietra, beon con sapore

tal che le serva in lieta sanitate:

ma le tue molte tirano il liquore

mescolato con limo e, tabefatte,

corrompon l'altre e muoion con dolore.

E le tue, furibonde, rozze e matte,

diversi cibi avendo a rugumare,

debili e per ebbrezza liquefatte

si rendon, né non posson perdurare

in vita guari; e il lor latte è rio,

né può vitali agne' mai nutricare.

Ma il cibo buon, che il pecuglio mio

dalla pietra divelto pasce e gusta,

lor poche serva buone; e ciò che io

ne mungo è saporoso; e quella angusta

fatica del salir le fa vogliose

e veder chiar dall'erba la locusta.

L'aria del monte le fa copiose

di prole tal che 'n ben ogni altr'avanza;

poi l'empie d'anni e falle prosperose.

E è sì lor, per continua usanza,

il sol leggier che ciascuna più lieta

è sotto lui che 'n altra dimoranza,

avvegna che, quand'e' già caldo vieta

il cibo più, col mio suon le contento,

cui ciascheduna ascolta mansueta.

Io guardo lor sollicito dal vento

e nella notte vegghio sopra loro,

alla salute di ciascuna intento.

 

[Acaten]

A me non cal, vegghiando, far dimoro

né sampogna sonar, ché per sé sola

diletto prende ognuna in suo lavoro;

né non mi curo s'alla mia parola

non ubidiscon sùbito niente,

sol ch'io me n'empia la borsa e la gola.

Com'io le guardi, a chi ben le pon mente,

le tue veggendo, e 'l numero ne prende,

all'avanzar mi fa più sofficiente;

in che la cura nostra più s'accende

che ad aver poca greggia e vivace

donde non tràssi quanto l'uom vi spende.

Che dirai qui? Or non parla, ma tace

Alcesto al mio cantar, però che vero

conosce quello e già per vinto giace.

 

[Alcesto]

Il tuo parlare e' falso e non sincero,

per ch'io non taccio né credo esser vinto,

ma vincitor di qui partirmi spero.

Tu hai il nostro canto in ciò sospinto:

chi è più ricco e più di mandra tira;

dove di miglior guardia fu distinto

che cantassimo qui; la qual chi mira

con occhio alluminato di ragione

vedrà chi meglio intorno a ciò si gira.

 

[Acaten]

Dunque a ciò non chiude la quistione?

Chi più avanza, quelli ha me' guardato

e più sa del guardar la condizione.

 

[Alcesto]

Non son da por già mai per acquistato

i tuoi agne', ché a molti tristo fine

si vede tosto, lasso!, apparecchiato.

Ma le mie poche nell'alto confine

vivaci, poste d'assalto sicure,

non curanti di lappole o di spine;

e tutte fuor delle brutte misture

bianche, con occhio chiaro, e conoscenti

di me che lor conduco alle pasture.

 

[Acaten]

Tu fai, come ti par, tuoi argomenti,

ma elli è me' delle mie il diletto,

che l'util delle tue che sì aumenti.

Quand'io vorrò, da cui mi fia interdetto

il su salire al monte, ove, pasciute,

assegni alle tue tanto perfetto?

 

[Alcesto]

Da quelle erbacce gravi, ritenute

nell'ampio ventre, ch'affamate e piene

sempre le tien, di salir fien tenute.

 

[Acaten]

Queste son tue parole, né conviene

a te di me parlar, perché non sai,

ne' monti usato, e l'uso ancor ti tiene.

 

[Alcesto]

Ne' monti, dov'io uso, io apparai

da quelle Muse che già li guardaro;

e nelle braccia lor crebbi e lattai.

Ma tu più grosso ch'altro, in cui riparo

già mai senno non fece né valenza,

taciti omai; ché li tuo' versi amaro

suon rendono a coloro a cui sentenza,

come di savie, stiamo; e la tua male

di pasturar qui difesa scienza

con altrui cerca coprirla di tale

mantel, che meco; ché tu se' nemico

di greggia più che guardia o mandriale:

di che ancor andrai tristo e mendico.

 




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