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Giovanni Boccaccio
Comedia delle ninfe fiorentine

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  • [XXVI]
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[XXVI]

- E' non sarebbe forse men senno il tacersi a me, avendo due sì fatti amori uditi ora davanti dalle due donne. E certo io il farei se sanza il proposto e cominciato ordine guastare far si potesse; ma però che fare non si può, le mie tiepide fiamme a rispetto dell'altre racconterò. Cipri, di molte città ricchissima, tenne il padre mio, non di sangue né d'animo popolesco, ma di mestiere. Egli, posta tutta la sollicitudine a' beni di Saturnia, per divenire copioso di quelli, l'onore della sua milizia n'abandonò, disponendo il forte scudo, nel quale i raggi di Febo e l'animale di quella casa, nella quale egli più si rallegra nel cielo, nel colore d'esso figurati portava. Ma, già di quelli pieno, la mia madre per isposa s'aggiunse, allora di bellezza famosissima ninfa in tutto Cipri; e il loro matrimonio fu felice e nel cospetto degl'iddii accettevole, però che me con molti altri figliuoli generarono, simiglianti ciascuno a' suoi parenti. Ma mentre che io, giovinetta e lasciva, tirava semplice alli fermi anni le fila di Lachesis, Pomena sollicita, nelli spaziosi orti avendo veduto dell'umore d'uno giovinetto rampollo di pero d'uno antico e robusto pedale e della virtù de' solari raggi, mediante una ninfa, nascere un bel garzone, con graziosa cura il nutricava, quasi nelle sue delizie nato; e però che umile il vedea e pacifico, di Pacifico nome li fece dono. Elli con l'effetto seguendo quello, venuto in età ferma, per servidore il diede al suo Vertunno e, poi che a quelli anni fu pervenuto ov'io correa, a me per marito l'aggiunse. Egli mi piacque e piace sopra tutte le cose, né altro mai me 'l fece o farebbe dimenticare. Tenendomi adunque così di costui l'amore, com'egli Vertunno così io Pomena proposi di seguitare e d'essere nelle sue arti dotta per fuggire gli ozii; né fu dall'avviso di lungi l'effetto, però che, a' suoi servigi profertami, da essa graziosamente ricevuta fui. La quale me, dalle facce di Diana nomata, continuo mi chiamò Adiona; e presami per la destra mano mi disse:

«Vieni vedi gli studi miei: vedi dove io le mie fatiche consumo».

E mossa, mi menò ad una porta d'un suo giardino, nella quale entrata, mi fece conte le sue delizie. Per lo quale io seguitandola, vidi mirabile ordine ne' suoi fatti; e Apollo tenente del cielo quella parte che ora trascorre, più i lavorii abelliva. Egli, secondo l'avviso dell'occhio, corrente per tutte le parti presto, era quadro, di bella grandezza; e ciascuna faccia di quello, da alte mura difesa, con dritto riguardo rendeva a una plaga delle mondane, né d'esso vacante particella alcuna, né occupata male, vi si potea conoscere. Egli avea intorno di sé per tutto pianissima via, non d'altra larghezza che quella che noi, qui dimoranti, diritta mena al tempio dove oggi fummo. La quale per tutto si puote non altrimenti veder coperta delle fila e delli stami delle figliuole del re Mineo, legate e stese con mani maestre sopra le incrocicchiate piante di Siringa, che sieno i lunghi atrii de' gran palagi con tonda testuggine di pietra coperti; e co' loro fiori, odori graziosi rendenti ne' tempi dovuti, si possono vedere cariche d'uve dorate e purpuree di diverse forme, i pedali delle quali, congiuntissimi col muro, niuno impedimento porgono a chi vi passa. Intorno al quale, in picciolo poggio levati, per luogo de' faticati sono di pietra graziosi scanni, li quali tanto dal muro con la loro ampiezza si scostano che, non togliendo luogo a chi sedesse, largo spazio concedono ad erbe di mille ragioni.

Quivi si vede la calda salvia con copioso cesto in palida fronda, e èvvi in più alto ramo con istrette foglie il ramerino utile a mille cose; e più innanzi vi si truova copiosa quantità di brettonica, piena di molte virtù, e l'odorifera maiorana con picciole foglie tiene convenevoli spazii insieme con la menta; e in un canto si troverebbe molta della frigida ruta e d'alta senape, del naso nimica e utile a purgarsi la testa. Quivi ancora abonda il serpillo, occupante la terra con sottilissime braccia, e il crespo bassilico, ne' suoi tempi imitante i garofani col suo odore, e i copiosi appi co' quali Ercule per adietro solea coprire i suoi capelli. Quivi malva, nasturzi, aneti e il saporito finocchio col frigido pretosillo. Ma perché mi stendo io in queste menome cose? Io non ne saprei nominare tante che tutte quivi non sieno, e molte più. E perciò, procedendo all'altre cose, dovete sapere che l'opposita parte a questa, cioè l'altra parte della già detta via, difendente con più piacevole resistenza, toglie all'andito gli aguti raggi d'Appollo. Ella è di diritti pedali di diversi alberi [seminata], spessi e distanti a misura; e, sostenenti l'abondevoli viti, chiudono la via erbosa da' solchi con chiusura di canne, con loro congiunte con tegnente vinco, non in altra maniera che appaiano le 'ngannevoli reti stese a' passi de' fuggenti animali. E quelle non occupate si veggono da vitalbe, abondevoli di bianchi ligustri; ma, come l'ellera l'olmo, così da spessissimi gelsomini e da pugnenti rosai sono per tutto cinte. E come 'l cielo di molte stelle nel chiaro sereno a' riguardanti par bello, così quella verdeggiante non meno, veggendola piena di fiori e di bianche rose e di vermiglie, molto già disiate da Lucio allora che, asino divenendo, perdé l'umana forma, e in alcune parti di bellissimi gigli. Né è di quella via il suolo dall'arido paleo occupata, né in tutto la cuopre l'abracciante gramigna, ma lieta si vede di molti fiori. Quivi Narcisso e il pianto Adone e l'amata Clizia dal Sole si vede, ciascuno in grandissima abondanza, e vedevisi lo sventurato Iacinto e la forma di Aiace e qualunque altro più bello a riguardare; e di tanti colori è dipinto il luogo che appena ne tengono tanti le tele di Minerva o i turchi drappi.

Questo, fatto come io disegno, cercato tutto intorno, come piacque a Pomena, entrammo per una via movente dal mezzo dell'una delle quattro facce, non d'altra qualità che le dette: fuori che, dove quelle da muro dall'una delle parti difese sono, queste da ogni parte da fiori. E per quella andanti, pervenimmo in uno bellissimo prato di grandezza decente a quel giardino, sopra il quale, quadro, tre altre ne rispondieno, ciascuna dal mezzo mossa della sua faccia, e qui, nel mezzo di quella del prato rispondente, finiva, fatte sì come l'altre. Ma l'occhio mio, andante alle cose alte, quello prato vide coperto di simile copritura che le vedute vie, in forma quale ne' battaglievoli campi i tirati padiglioni mostrano i colmi loro.

Questo con l'altre cose vedute, a me molto piaciute, sanza fine lodai; e l'occhio, tornando alle cose più basse, mi die' cagione di maggior maraviglia, e mostrandomi cosa non meno degna di loda, quasi quelle mi fece dimenticare. Io vidi nel mezzo di quello una fontana di bianchissimi marmi, per intagli e per divisi e per abondanza d'acque molto da commendare, le quali così copiose e scarse moveano da quella, come Pomena volea. Esse, alcuna uscenti per sottil canna, si levavano verso il cielo e, ricadenti nell'alta fonte, faceano dolce gridare; e altra volta all'erbe del prato, aperti piccioli fori, molto a sé gittavano lontano; e quindi per occulte vie il bello giardino rigavano tutto, come Pomena mi disse e fe' palese. Io riguardai questa lunga fiata, ma poi per picciolo cancello, come Pomena volle, entrai nell'una delle parti aperta al cielo, e quivi manifesta cognobbi la dignità degli alberi di quello orto, a me ancora per le graziose ombre non potutasi palesare. Io vidi sì come il quadro teneva alberi d'ogni maniera; de' quali tutti sopra i legati tralci, li quali i loro pedali sostenevano, si stendevano i torti rami non altrimenti che sopra le merlate mura si mostrino l'alte torri imbertescate.

Io conobbi quivi nell'uno de' canti gli antichi pedali di Baucide e di Filemone, pieni nelle loro sommità di rugose palme; nell'altro canto, altissima e con etterne frondi, era la non pieghevole Danne, qui a noi similmente soprastante; nel terzo canto era l'albero cercante il cielo con la sua sommità, nel cui pedale si mutò il fanciullo Ciparisso; e il quarto luogo teneva il cretense abete più bello all'occhio che per frutto utile. In mezzo di questi si sariano annoverati molti meranci carichi ad una ora di fiori e di verdi frutti e di dorati, tra' quali, avvegna che radi fossero, si vedevano gli alberi a' quali la misera Filis aspettante Demofonte diede principio, e gli sparti fichi aspettati dal corbo, e le piacevoli castagne difese da aspra veste, state già care ad Amarille; e nel mezzo dello aperto luogo, forse di non minore grandezza che quella che il matto Erisitone violò con la tagliente scure, stava una bellissima quercia porgente grandissime ombre con gli ampi rami, di nuove frondi carichi e mostranti lieti segnali di copiosa prole. Né è da credere che di quelli luoghi fossero i solchi vòti, anzi, di varie biade pieni e già biancheggianti, davano segnali di loro maturezza. Di questa parte passai nell'opposita, la quale, come la prima, d'alberi varii circundata conobbi. Ella mi mostrò sopra l'uno de' canti l'antico pero, la cui pianta avea generato il mio marito, e l'uno e l'altra carica de' suoi frutti; sopra l'altro canto il palido ulivo, caro a Pallade molto, di rami pieno si vedea e di frondi, significante con abondevole segno li futuri frutti; e l'angulo a questo seguente teneva la frigida noce, dante a sé medesima co' suoi frutti cagione d'asprissime battiture; e nell'altro uno olmo altissimo, congiunto con l'amichevoli ellere e con l'usate viti, intra' quali gran copia di pugnenti pruni, belli di verdi frondi e di bianchi fiori. Quivi in molte verghe surgeano avillani, e più presso a' solchi correnti pieni dell'acque versate dalla fontana erano le misere sirocchie di Feton e la piagnevole Driope e la lenta salice; e se il dolente Idalago fosse stato mutato in pino, io avrei detto che quello che quivi in mezzo degli scoperti solchi vidi, fosse stato desso; ne' quali solchi si vedevano gli alti papaveri, utili a' sonni, e i leggieri fagiuoli e le cieche lenti e i ritondi ceci con le già secche fave, ne' suoi luoghi divisi ciascuno.

Ma io, venuta di questo luogo nel terzo, il vidi intorniato di sparti meligranati, e in una parte mi parve conoscere la piagnevole pianta della mutata Mirra, abominevole per li suoi amori, e vidi le mutate radici del gelso col suo pedale e co' suoi frutti per la morte de' bambillonici giovani; e pieno di fioriti meli. Ma il suolo era ripieno di fronzuti cavoli e di cestute lattughe e d'ampie bietole e d'aspre borraggine e di sottili scheruole e di molte altre civaie. E così nel quarto la pianta dante l'incensi, stata non molto avanti mutata dal sole, e il corniuolo di poco tornato da udire la cetera d'Orfeo, e le care mortine alla nostra dèa, e l'eccelso ciriegio e il lazzo sorbo e il fronzuto corbezzolo e l'alto faggio e il palido busso e più altre piante, le quali lungo saria il narrare, sotto le quali la terra di dovere producere mostrava le cipolle coperte di molte vesti e i capituti porri e gli spicchiuti agli; e oltre a ciò i lunghi melloni e i gialli poponi co' ritondi cocomeri, e gli scrupolosi cedriuoli e' petronciani violati con molti altri semi, de' quali la terra vie più s'abellia. E certo appena pure queste dette mi poterono, molte volte vedute, rimanere nella mente, le quali, se la vista d'esse e dello inestimabile ordine posto a quelle non mi fosse veridica testimonia, l'audito non vi darebbe fede. Ma perché mi voglio io distendere in ogni cosa e multiplicare in parole? Voi dovete imaginare come egli stea per quello c'ho detto. Il quale così veduto e tutto cercato, Pomena lodando l'opera sua, dimandatami del mio parere, con vera risposta la ne fe' certa. Ella, postasi a sedere sopra le piacevoli erbe, e io con lei, mi mostrò quali parti del giardino fossero a diversi albori utili, e quali io dovessi da Euro e quali da Borea o da Austro guardare, e quali al soave Zeffiro sanza alcuno ostaculo concedere, e quanto per ciascuno dovessi la terra cavare, e quale barbato e quale sanza barbe si potesse piantare; aggiugnendo a questo quali lune e quali disposizioni d'esse fossero utili, e come gli olmi si dovessero delle viti accompagnare, e quale età d'essi era più atta a tale commerzio. E insegnommi come e in che tempo gli occhi d'uno albero nelle tenere cortecce dell'altro pigliassero forze. E dopo questo m'aperse come sopra i susini nascessero i mandorli, e i robusti peri nutricassero gli altrui figliuoli e qualunque altri; e poi mi disse quando con curva falce i lussurianti rami di tutte le piante siano da reprimere e come da legare, e in quali ore l'onde si debbano porgere agli assetati solchi e similmente i semi, e di che erbe si debbano gli orti purgare e quali in essi con abondanza lasciare multiplicare, e come chiuderli e da cui guardarli, e in che modo si servino i ricevuti frutti. Tutte queste cose mi furono carissime; e con diligenzia dandole l'apprensiva, alla memoria le guardava. E con lei mi diedi a nuovi lavorii nel grazioso giardino, nel quale se forse alcuna volta dalle fatiche o dal caldo eravamo vinte, o sedenti sopra le tenere erbe davamo gli orecchi a' canti de' varii uccelli o con diverse parole imbolavamo le non utili ore a' nostri affanni. Ella mi solea alcuna volta dilettare con queste parole, dicendo:

«Giovane, a me come me medesima cara, io non dubito che, vedendo tu il giovane giardino e il mio viso non mostrante ancora alcuna crespa, me reputi d'età vòta: ma io, antichissima, ho la presente forma con laudevole stilo servata ne' miei lavori bella, come tu vedi; e voglio che ti sia nota cosa di maggior maraviglia. Io fui nata ne' primi secoli e co' primi uomini la mia puerizia consunsi, li quali di me niuno bisogno aveano; e il perché udirai. Allora che la mia madre mi diede al mondo, Saturno i cari regni dell'oro governava ne' correnti secoli sotto caste leggi, e nel suo senno abondava ciascuna provincia tenente uomini. E la terra, più copiosa di beni che di gente, per sé a' rozzi popoli fedele donava nutrimenti, però che le ramose querce abondanti di molte ghiande sodisfaceano a tutti i digiuni. E credesi che Dadona allora per santissima selva e sì come molto utile al mondo fosse da' viventi con festevole voce onorata. E i fuochi solamente o nell'acque o sopra le sue brace davan le carni mal cotte de' presi animali a' cacciatori, e le crude radici delle non conosciute erbe parevan dolcissimo cibo a qualunque persona. Niuno fiume era che non desse dolcissimi beveraggi a' suoi popoli: Ganges, dante le prime vie al sole con le care arene ancora non conosciute, dava, alli suoi, soavissimi beri con le chiare onde, e Idaspen era per molte cose caro agl'Indiani; ma più per quella. Nifate similmente era nella sua chiarezza con diligenzia dalli Ermini servato a mitigare le seti; e i celestiali Tigri e Eufraten di questa medesima cosa contentavano i Persi, e l'egiziaco Nilo, bagnante per sette porte la secca terra, con argentate onde rinfrescava le aride gole. E chi dubita che Tanais sotto freddo cielo, se ancora si vedeva alcuno popolo, era loro caro per quei bisogni? E i regni che doveano essere di Danao, rigati d'Acheloo, d'Alfeo e da Penneo, ancora non padre della rigida vergine, e di molti altri, erano tutti per tale mestiere spesso riveduti insieme con Inaco. E Xanto e Simois, non aventi ancora vedute le rocche di Nettuno, furono più cari a quel tempo per bere che poi per ispegnere le greche fiamme, se alcuno fu che con isperanza di campare l'adoperasse. E Rubicone, che dovea l'ardito passo prestare a Cesare, e Albula, lui aspettante, e a cui gli onori del mondo doveano tutti essere sottoposti e palesi, non avente ancora per lo ricevuto re nelle sue onde mutato nome, se non aveano popoli, care davano le loro onde agli animali. E il tempestoso Danubio, crescente per le risolute nevi, e Isera erano lietamente gustati da' popoli, oggi di quelle nemici, altressì come Eridano a' Liguri.

E brievemente in ogni parte Tetis, graziosa delle sue onde, sanza porgere cagione di vizio, usava le sue cortesie. Questi così fatti popoli coprivano i corpi loro, ancora non tementi i rigidi freddi, delle vellosi pelli delli scorticati leoni o di qualunque altro animale; e il sangue del tiro non era ancora conosciuto né caro per dare i varii colori alle lane, che per sé medesime cadevano delle non tondute pecore, solo per lo loro latte tenute care. Gli altissimi pini erano, a queste, graziose ombre e a' caldi e alle piove, e le cresciute erbe davano graziosi sonni, e ciascuno in sé, ad exemplo degli altri animali, teneva i libidinosi voleri reprimuti, fuori che allo ingenerare.

Questi così fatti tempi trascorrevano con picciolo bisogno delle mie fatiche sì come ristretti solamente nelle bisognevoli cose alla natura. Ma la Terra, prontissima a' danni suoi, cacciato Saturno, ricevette per re Giove, le cui leggi furono molto più larghe e i suoi secoli meno cari. Costui generò Cerere, la quale, aggiunti i carri suoi a' colli de' tiranti serpenti che mai per solco di bionda biada non erano iti, discorse il mondo; e la terra, sostenitrice di tutti gli affanni, ancora intera, rotta da Saturno col ricurvo aratro, ricevette i nuovi semi con diversi lavori prestati alla sua fede, e la non conosciuta biada con alte spighe rendé in molti doppi. E così recate da Cerere le non sapute abondanze, si tolse via l'uso delle non libidinose vivande. E a costei sopravenne Bacco, nato della consumata Semelè, iddio riverito molto da' Tebani, il quale, ne' suoi giovani anni fattosi per molti paesi cognoscere, riempié de' suoi doni Naxon e Chia e Nisa e Elea e il monte Falerno e Veseo e altri luoghi assai; e infino in India i suoi usi n'andarono. Questi al mondo, già più pieno di gente, mostrò diversi modi agli usi suoi, e aggiunse odori e forze diversamente di più spezie a' suoi licori, e in tutto s'ingegnò di tôrre via le forze della già poco potente Tetide. E venne chi trovò mille modi, con nuove vivande, da lusingare la non sazievole gola: e i già mutati compagni d'Aceste, e Dirce, figliuola del superbo Nino, e la non savia Nais co' suoi giovani paurosi nuotano per le nascose acque, con gli altri lungamente stati sicuri dalla età non conoscente le loro carni viscose. E il lino, cresciuto già ne' campi, in danno degli uccelli mostrò le forze sue, e gli spezzati monti e la terra cotta, con lavorato bitume raggiunti, più sicure tolsero via l'uso dell'ombre de' pini. E Minerva, mostratasi rozza infino a quelli tempi alle genti che di così fatta [vita] erano contente, con più sottile ingegno mostrò i suoi artificii e insegnò le raccolte lane tirare in ritondo filo e di quelle comporre tele più utili a' vestimenti che le salvatiche pelli. E l'erbe, mostranti ne' campi ancora i loro colori, fece conoscere come, in quelle lane operantesi, le muterebbono in varii, e i piccioli aragni faccenti più preziose fila, usi di consumarsi in esse, cominciarono ad essere rubati da cupide mani. E infino a questi tempi Cupido con picciolissime penne, non potendo volare, nel seno della madre s'era nutricato; ma venuto in perfetta età e avendo l'alie grandissime, cominciato a volare, con le sue saette minacciando e ferendo, come gli parve il mondo discorse. Venne poi Sardanapalo a mostrare come le camere s'ornino, e Gaio Pensilia trovò l'uso de' bagni non mai saputo; e molte altre cose sopravennero, le quali insieme diedero aperta via a' superbienti Giganti e a' peccati di Licaone e a qualunque altro, onde seguio che la terra, non avente ancora gustato il sangue umano, nella battaglia di Flegra l'assaggiò. Da queste cose e dal non bene cultivato iddio nacquero i diluvii e le varie mutazioni delle umane forme, e i mali ebbero luogo nelle menti degli uomini; laonde io, bisognevole alle età dissolute, cominciai ad avere sollicita cura de' miei giardini, come tu puoi vedere».

Queste parole ascoltai io, e a tutte diedi debita fede e vere l'affermai con la mia risposta. Ma poi che con così fatti ragionamenti o con simili avevamo alle sopravenute fatiche rendute vigorose forze, noi ci levavamo a' nostri lavori sanza lasciare passare perduta alcuna particella del non ricomperevole tempo. E mentre che io, alcuna volta con la mia Pomena e altre sola, andava per lo bello giardino aprendo le vie all'acque, risecando i troppi lunghi rami e rilegando gli sciolti, avvenne un giorno per avventura che, avendo io con la falce tagliate superflue mortine e fattami una ghirlanda, sì come a Pomena in altra forma apparve il suo Vertunno, così nella propia mi si mostrò la santa dèa di cui parliamo, con non mutato aspetto dalla sua divinità; e a me stupefatta, con voce alla nostra dissimile, così disse:

«O giovane, ora passerà sì notabile forma come la tua, degna per la sua bellezza de' nostri regni, alla fredda vecchiezza sanza le nostre fiamme aver sentite?»

Io, non usata di così fatte voci, timida, dubitando di peggio, cominciai a tremare come il mobile giunco mosso dalle soavi aure, e la falce cadde delle mie mani e io appena mi ritenni. Ma pure così pavefatta sopra le zolle del solcato orto bassai le ginocchia e dissi:

«Dèa, così sia di me nel tuo cospetto come ti piace».

Questa allora, lieta appressantesi a me, credendo io ch'ella mi volesse baciare, espirommi non so che in bocca; né prima così ebbe fatto che io mi sentii dentro accendere d'uno sùbito fuoco e ardere non altrimenti che le raccolte paglie negli sparti campi di monte Gargano, poi che il lavoratore v'ha sottoposte l'accese fiaccole.

E partitasi la santa dèa, già cominciava ad avere maggior paura, quando con piacevoli parole la mia Pomena mi rifece sicura, lodandomi che queste fiamme mandassi fuori per alcuna bellezza: ma io rozza in queste cose appena la 'ntesi. E pure seguendo lei, avvenne un giorno che, andando noi dintorno all'orto nostro, dinanzi m'apparve un giovane di maravigliosa bellezza, dal cui viso con maestra mano la barba era stata levata. E i capelli, biondi come oro, con maraviglioso ordine ricadevano ne' loro luoghi, e i vestimenti, di color varii, d'oro eran lucenti e di pietre; e così ornato quasi come una donna, pieno di sonno per soperchi cibi, come io avvisai, in atto lascivo con parlare rotto, sozzo e non continuo disteso stava a fresche ombre. Non i modi di costui, ma la forma piacque agli occhi miei, li quali io propuosi di fare ch'egli lasciasse; ma non potendo tosto come io volli, più volte mi fu cagione di dannare me medesima per elezione pessima fatta di tale amante. E s'io avessi potuto tirare indietro l'ardente disio, sanza dubbio l'avrei tirato; ma sì era già forte il fuoco acceso ch'elli crescea, quando l'aure s'ingegnavano di spegnerlo. Laonde io, come vinta, propuosi di seguitare con fermo animo la 'ncominciata opera; e quando con occhio vago e quando con altri cenni mostrandogli le mie fiamme, m'ingegnava d'accenderlo di quello disio nel quale io ardeva; ma egli, non curantesi di me, solo alle sue lascivie sollecito trascorreva.

Adunque, costui così da me seguito più tempo sanza muoverlo se non come pietra, quasi disperatamente, avvenne un dì, essendo già il sole caldo, come elli è ora, che io ne' santi templi da noi visitati il trovai; quivi mi dispuosi d'aprirli il mio disio con vere parole e di sentire l'ultimo fine del suo intendimento, disposta di spegnere per forza i miei disii se lui a quelli pieghevole non trovassi. Ma prima con altre parole volli tentare il dubbioso ragionamento acciò che a quello meno tremante giugnesse la lingua; e chiamatolo, sedendo con lui, così gli dissi:

«Giovane, la tua età, l'abito e la forma mi fanno vaga di sapere chi tu sii e donde e qual è il nome tuo: e però piacciati di finire con vere parole i miei disii».

Allora egli mi riguardò così parlando:

«Ninfa, le tue parole mi dànno non poca d'ammirazione pensando che tu di me non abbi notizia, il quale in Cipri, comune luogo a te e a me, sono conosciuto da tutti; ma non per tanto la tua bellezza, se tu nol sai, merita ch'io il ti dica. E però sappi che 'l mio nome è Dioneo e in me cosa non udita giammai udirai, cioè che io, figliuolo di due iddii, da loro fossi generato mortale, di che non poco m'ho a dolere; e se in loro, come ne' mondani potrei, potessi le mie ire vengiare, io il farei sanza fallo».

Le cui voci, stendentisi in altre parole, rotte da me, il domandai chi fossero gl'iddii; a cui egli rispose:

«Chi fossero gl'iddii e come m'ingenerarono ti sarà noto. Bacco, a tutto il mondo notissimo per le ricevute vittorie in India, mi fu padre: questi, celebrantesi in Tebe, amantissima terra la sua deità, i suoi sacrificii, venne a' templi suoi, e quivi, sonati i tamburi e i rauchi corni e i tintinnanti bacini in segno de' suoi triunfi, s'adornò dell'usate corna; a' quali Cerere, tirata dalli suoi draghi, corse con le sue copie e aumentò in grandissima parte le sante feste. Ella era bellissima, e l'arte avea cresciuta la sua bellezza e similmente la festa. Per la quale andante ella intorniata di molte fanti, piacque agli occhi del padre mio, e con ardente disio cominciò a disiderare i suoi abbracciamenti. Ma poi che i tumultuosi giuochi e i varii diletti ebbero ampliati gli animi di tutti, e quelli della dèa altressì, Bacco, veggentesi il tempo opportuno, procedéo ne' suoi disii, e con favorevoli braccia presa la non renitente donna, e portatalane, è da credere ch'egli avesse interi i suoi diletti; de' quali io nacqui e, copioso de' loro beni, altro difetto non sento che quello che già vi dissi».

Egli non diceva più, onde io incominciai:

«Giovane, la tua bellezza non merita morte, la quale, se tu i miei piaceri vorrai seguire, levandolati, come i tuoi parenti ti farò immortale. E non ti maravigliare delle mie parole, ché il poter mio si distende a maggiori fatti che la mia lingua non può promettere. Tu se' a me lungamente piaciuto, di che se tu non se' meno avveduto che gli altri, tu il puoi avere conosciuto; e però, se il già proferto dono da me disideri, disponti a' miei piaceri. E certo questo non ti dêe parere grave, anzi in singulare grazia te 'l dêi tenere, però che Elena non fu in Isparten domandata da tanti nobili, né Atalanta, velocissima nel suo corso, né qualunque altra famosa, quanto sono stata io, la quale te solo tra mille giovani ho scelto per solo signore della mia vaga mente».

Egli, udendo queste voci, posta giù l'altiera maniera de' suoi costumi, umile disse:

«Seguirotti, e la voce tua comandi a me presto a ubidire; e già gli occhi tuoi piacevoli nel mio cuore m'hanno legato con le tue parole a' tuoi voleri».

Queste voci mi furono care molto; e in processo di tempo, mostrandoli io come le viti, gli olmi e qualunque albero, disposti i fiori una volta portati, intendendo solo a' frutti, erano contenti delle loro frondi, e come Danne, sempre portante le verdi foglie, era tenuta bella, li feci i varii ornamenti diporre e in una simiglianza i suoi vestiri ridussi. E poi come ne' fervori rifiutavano le piante essere rigate dicendoli, e come ancora, acciò che annegate non fossero le loro radici, con misura cercavano l'onde, tolsi via le cagioni de' sonni suoi, e in salutifere vigilie rivoltati, lui ad essere sollicito meco a' miei giardini menai. E nel mio stilo riduttolo sobrio e ordinato, ora di lui vivo contenta; per che se questa dèa favoreggiante con sommo studio a' miei voleri, sollicita vegno e onoro di sacrificio debito alla sua deità, niuno se ne dêe maravigliare. -

E qui si tacque. E intra queste parole dette e la seguente canzone trapassò forse tanto di tempo quanto dalla già imbiancata aurora penano l'altezze delle montagne a mostrare i raggi d'Apollo. E riposata, così cominciò:

 




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