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Giovanni Boccaccio Comedia delle ninfe fiorentine IntraText CT - Lettura del testo |
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[XXXIII] Sì come il foco, in fummi oscuri molto, nel quale i figli di Iocasta accesi, miseramente saliva ravolto, i suoi caccumi in due fiamme distesi, diviso si mostrava a dichiarare di loro il poco amor, se ben compresi, e ancor come già quel dell'altare di Vesta si divise in Roma, quando piacque a Pompeo Italia abandonare; così il santo monte fiammeggiando di Citerea, ma lieto tutto splende, di mirabile luce sfavillando. E l'una parte inverso il ciel si stende; e così fatto caldo sale a quello che del suo lume tututto l'accende; ma l'altra, poi ch'è divisa da ello, alla terra declina sì fervente che quanto prende del mondo fa bello, riscaldando ciascuna fredda mente, dimostrando il valor di Citerea, mal conosciuto alla moderna gente. E di quel caldo tal frutto si crea, che se ne acquista conoscere Iddio e come vada e venga e dove stea. Di salire a' suoi regni anche 'l disio s'aguzza molto, e tra' viventi amore fraternal se ne piglia giusto e pio. Cresce il bene operar, cresce il valore per questo; e la virtute è reverita, merito di cui è degno onore. E seguitando così fatta vita, fuggesi via la tema del morire, da chi vive altramenti assai sentita. Dunque ogni tiepidezza è da fuggire e sé di questo foco accender tanto che degni diventiamo di salire a' regni che non sepper mai che pianto si fosse, altro che bene e allegrezza non fallibile mai; e io ne canto, però che 'n quel tutta la mia bellezza arde e sfavilla, Venere seguendo, per cui spero tener la somma altezza, dov'io rimiro sempre più ardendo. |
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