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Antonio Ghislanzoni
Libro bizzarro

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  • CONFESSIONE GENERALE D'UN CRITICO
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CONFESSIONE GENERALE D'UN CRITICO

 

Gravi considerazioni m'inducono ad abbandonare per sempre il campo della critica.

Una quindicenne esperienza mi ha insegnato che la critica a nulla giova, o giova soltanto a coloro, i quali la convertono nel più vigliacco dei mestieri, smerciando la lode ed il biasimo a prezzo di tariffa.

Critico letterario non è ordinariamente che uno scrittore da poco, negletto dal pubblico e dagli editori, inetto a produrre delle opere attraenti, epperò nemico giurato di chi riesce collo ingegno, collo studio e colla operosità, a crearsi una posizione onorevole.

Critico musicale è quasi sempre un musicista abortito, il quale, dopo aver pubblicato una dozzina di polke pel consumo dei salumieri od aver fatta rappresentare un'opera altrettanto elaborata che stucchevole, si erige a maestro dei maestri, spacciando nei giornali le futili teorie che sono, per gli ingegni impotenti, un soprapeso di zavorra.

Critico d'arte è sovente un pittore reietto dalle Accademie e obliato dai Committenti, i cui quadri si vendono sulle pubbliche aste e passano dall'uno all'altro rigattiere per intercessione della cornice.

Il mestiere del critico ha poi un lato umiliante. - Non avvi idiota, non avvi cretino, il quale non sia in grado, dal più al meno peggio, di esercitarlo. È facile stampare in un quadrato di carta: «Manzoni è un gramo poeta, Verdi fa della musica mediocre, Vela è uno scultore grottesco.» Ma è difficile assai scrivere il Cinque Maggio, fare un'opera come il Rigoletto e trarre dal marmo uno Spartaco.

I critici hanno comune coi somari questo melanconico istinto che, all'apparire di un insolito bagliore, si danno a ragliare tutti in massa. Un tale fenomeno può essere constatato da chiunque si dia la pena di studiare siffatti animali nelle loro espansioni intermittenti.

Quando io sento elevarsi dalla terra un intollerabile frastuono di voci asinesche, l'anima mia si apre alla gioia come all'annunzio di faustissimo evento. Quella gagliarda sinfonia di stromenti unissoni, mi avverte che sull'orizzonte della letteratura o dell'arte è sorto un novello astro.

Ma, via! non imperversiamo sugli altri - non aggraviamo la mano sugli antichi colleghi, sui nostri fratelli di ieri. Fui critico anch'io - anch'io ho peccato grandemente; anch'io ho fornicato, ho mentito, ho truffato.... Il pentimento e il rimorso non cancellano la colpa - ben altra espiazione si esige.

- Venite qua - e a voi più direttamente mi volgo, o amici sconosciuti, i quali per tanti anni aveste la bontà di rappresentare, dinanzi alle mie critiche più o meno bestiali, più o meno assurde e colpevoli, la parte di pubblico. È a voi che io dedico questa mia confessione generale; confessione sincera ed integra quant'altra mai, perchè fatta sotto l'intimazione di quel prete terribile che si chiama il rimorso, al cospetto di quel Dio esploratore delle reni e dei lombi, che si chiama la coscienza.

Una confessione generale! Sapete voi che gli è un affare assai grave!... Buon per me che, a compiere questo grande atto di espiazione, non ho atteso i singulti dell'agonia....

Io mi trovo, laddiograzia, sano di corpo e di mente; le stoltezze e le nequizie della mia gioventù mi sfilano dinanzi agli occhi come una schiera di camelli o di paperi....

Come si fa a coordinare queste tumultuose reminiscenze, a ricostruire questo passato pieno di errori e di perfidie, in guisa che la coscienza non abbia più tardi a rinfacciarmi delle ommissioni? - Lo ripeto: è un affare assai grave.

Sulle prime, m'era venuto in pensiero di riprodurre e di confutare con eroica abnegazione tutte le enormità da me stampate in quindici anni di vita giornalistica. - Ohimè! Come rileggere duemila e centosessantadue articoli, sperperati in varî giornali, e oggimai inghiottiti per la massima parte da quei tubi assorbenti, ove lo spirito umano, già tradotto in materia mercè l'inchiostro e la carta, subisce l'ultima, forse la più utile decomposizione, diventando concime?

E tante altre maniere di confessione mi erano passate per la testa....

Ohimè! - La confessione ripugna all'orgoglio umano - alcuno farà meraviglia ch'io mi sia data la pena di tradurla in una forma, la quale fosse atta ad esprimere il vero, senza troppo pregiudicarmi nell'opinione del mondo.

Vediamo se ci riesco.

Io mi farò ad esprimere colla più scrupolosa sincerità le impressioni da me raccolte nel campo della letteratura e dell'arte; dichiarerò i miei veri e spontanei apprezzamenti su tutto ciò che ho veduto, o letto, o ascoltato, o meditato nel corso della intera mia vita. La mia confessione sarà una rettifica ed una ammenda, ma io non avrò da arrossire che in faccia a quei soli, i quali vorranno darsi la noia di raffrontare le menzogne dell'antico peccatore colle schiette manifestazioni del critico ravveduto.

 

Entriamo innanzi tutto nel campo della letteratura.

Fatta astrazione da Omero, che io lessi più volte con immenso diletto e pel quale professo la più sentita ammirazione, debbo confessare che il mio entusiasmo per i poeti dell'antica Grecia non salì mai a quel grado di elevazione ch'io lasciai supporre a' miei creduli ascoltatori.

Nella sonante e robusta versione di Felice Belletti ho comprese e gustate le tragedie di Eschilo, di Sofocle e di Euripide. Il secondo mi piacque di preferenza; ma allorquando, per far pompa di classica erudizione, ebbi a citare alcuni brani del Filottete, mentii ignobilmente a me stesso ed al pubblico, asserendo che quella tragedia mi aveva commosso alle lagrime. - Ci vuol del coraggio, miei cari, a rettificare quella vile menzogna e a proclamare che alcune tirate del più patetico, del più appassionato dramma del teatro greco, provocarono in me una ilarità irresistibile!

Quante volte mi è uscito dalla penna: l'inimitabile, l'insuperato Aristofane! Quante volte, ricordando quel grossolano e sguaiato motteggiatore, ebbi anch'io l'impudenza di chiamarlo argutissimo e festevolissimo! Aveva io dimenticato che la più parte de' suoi personaggi si permettono ad ogni tratto di ruttare plebeamente alla barba degli spettatori, quando non scendano in piazza a recitare un turpe monologo, facendo le loro occorrenze?... E questo era l'attico sale, di cui ho parlato così spesso nelle mie enfatiche digressioni sulla greca letteratura!...

Se ora vi dicessi francamente che mai non ho potuto reggere alla lettura di una intera ode di Pindaro; che le veneri di Anacreonte mi parvero il più delle volte scipite; come potrete voi perdonarmi di avere, a dispetto dei moderni poeti, simulato una quasi-adorazione per uno stucchevole ineggiatore di circensi, per un elegante ma monotono cantore di Batilli?

Ma io ho spinto più oltre la rettorica menzognera. Ho espresso degli entusiasmi per le statue di Fidia e di Prassitele... ho arso il mio granello di incenso al genio di Zeusi e di Apelle... Li avete visti mai, questi insigni capolavori dello scalpello e della tavolozza degli artisti greci? anche in sogno. - Come avvenne che sì spesso li abbiate ricordati ed ammirati con tanto entusiasmo? - Polvere pei gonzi.

Passiamo ai poeti ed ai prosatori del Lazio.

Non è più tempo che io vi dissimuli la mia predilezione per Catullo e per Ovidio, sebbene, ogniqualvolta mi occorse fare delle citazioni, dalla mia penna sgorgassero di preferenza i nomi di Virgilio e di Orazio.

Virgilio è in gran credito presso i puristi; Orazio è più elevato ed astruso. Conveniva dunque, a riguardo del primo, secondare l'opinione pubblica, ed attestare, facendo l'apoteosi del secondo, un alto grado di comprensività, dal quale i miei buoni lettori sarebbero rimasti intontiti.

Orazio! - Quand'uno proferisce un tal nome con una certa solennità, è sicuro di ottenere il suo effetto. - Un critico che capisce, che gusta, che all'uopo sa commentare questo famigerato applicatore di epiteti, ottiene legalmente il diploma di erudito.

E non è forse l'Arte poetica, ricostruita da colui sulle tradizioni di Aristotile, che servì per tanti secoli e serve tuttora di cronometro agli inesorabili pedanti della letteratura e della critica?

È ben vero che nessuno ha mai capito, per esempio, quali alte ragioni di estetica impongano che la tragedia debba dividersi in cinque atti piuttosto che in quattro; ma un critico che si rispetta e che vuol farsi rispettare, avrà sempre buon giuoco in faccia ai suoi lettori ogni qual volta, coll'autorità di Aristotile e di Orazio, coopererà all'immobilizzazione di un pregiudizio.

Ciò che mi ha fatto stupire e quasi rabbrividire percorrendo i classici di ogni nazione, fu l'immoralità delle favole che essi svolsero in poemi drammatici, nonchè le triviali oscenità di che riboccano le loro commedie, le satire, gli epigrammi, le novelle. E nondimeno io pure mi sono unito al coro dei nostri critici-tartufi, per deplorare gli scandali della moderna letteratura, per ripetere che il dramma odierno è una scuola di corruzione, che il romanzo dell'epoca nostra rappresenta l'abbominio.

Così avvenne che, dopo aver applaudito senza riserva agli amori incestuosi di Fedra e di Mirra, alle orrende vendette di Medea, agli adulterii di Clitennestra, a quella sequela di tragiche inverecondie per cui si rese proverbiale la famiglia di Tieste, ho finto scandolezzarmi pei ravvedimenti di una Camelia innamorata, ed ostentai una grinza di pudore violato nell'assistere alle peripezie maritali del povero Clémenceau.

Perdonate, o giovani autori, perdonate alla mia ipocrisia! - Io non produrrò la circostanza attenuante dell'esser nato nel più ipocrita dei secoli; e non vi farò notare, a mia discolpa, che l'ipocrisia viene oggimai considerata, fra gli scrittori da gazzette, una figura rettorica; - ma farò degna ammenda delle mie ingiuste e stolide invettive, protestando che nessuno dei moderni drammaturghi ardirebbe oggi presentare sulla scena una figlia innamorata del proprio padre; come nessun poeta bernesco oserebbe segnare col proprio nome degli epigrammi sconci e indecentissimi come quelli di Marziale.

Non esigerete che io ripercorra tutta la biblioteca dei classici per mostrarvi quante volte ho mentito degli entusiasmi per autori non letti, o letti sbadigliando. - Forse meno che altri miei colleghi ho abusato del gran nome di Dante Alighieri. Pure, non debbo tacervi che, mentre ebbi la costanza d'imparare a memoria tutta la cantica dell'Inferno e di rileggere quattro volte il Purgatorio, non mi tengo ben certo di aver toccato la fine del Paradiso. Voi mi perdonerete, o lettori, se trattandosi di un poeta che ottenne onori divini, io dovetti posare da enfatico ammiratore di lui, fino al punto di dichiarare che ciascuna delle sue terzine è un vasto poema, che tutti i suoi versi meriterebbero di esser stampati in lettere d'oro, compreso anche:

 

«Ed egli avea del cul fatto trombetta

 

Queste iperboli mi valsero la stima di parecchi dotti, ai quali ero sempre apparso un dappoco.

Ne' miei giudizi sui quattro illustri poeti,che più si onorano in Italia, ho vilmente mentito affermando di prediligere il cantore di Madonna Laura, mentre in realtà le mie più vive simpatie erano per l'Ariosto. Non ho mai potuto leggere tutte di seguito quattro pagine del Canzoniere, e nondimeno ho osato stampare che i versi del Petrarca, compreso anche:

 

Fior, fronde, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi

 

danno una melodia di paradiso.

Se un poeta moderno commettesse una si orribile cacofonia di elisioni, verrebbe lapidato.

Dopo ciò, ognun si avvede che anch'io ho seguito, rispetto ai celebri autori dell'antichità, quell'iniquo sistema di menzogna che giova meravigliosamente a deprimere i contemporanei ed a perpetuare il pregiudizio.

Io però non mi accuso di aver troppo abusato della denigrazione nel giudicare i moderni. Rispetto a questi, i miei torti consistono piuttosto in una inconsiderata sovrabbondanza di encomî e di incoraggiamenti.

Non vi tedierò coll'enumerazione de' miei falsi apprezzamenti. Vi dirò solo (e da ciò potrete argomentare il numero e la gravità delle mie colpe) che la più parte dei libri moderni io li ho lodati senza leggerli. - Il delitto non è grave, dirà taluno; non foss'altro, questa maniera di critica incoraggia gli autori e favorisce il commercio librario. Disingannatevi. Gli è con questo sistema che noi abbiamo indotta la diffidenza nel pubblico e ottenuto il miserando vantaggio che molti buoni libri si smercino a peso di stadera.

Ed io pure ho gridato all'unisono coi più gagliardi mistificatori del giornalismo, che l'Italia ha nulla da invidiare alle altre nazioni in fatto di coltura letteraria. E mentre nel periodo di circa vent'anni il paese nostro non ha prodotto che una dozzina di romanzi tollerabili, quattro o cinque volumi di liriche meglio che mediocri, e una dozzina fra drammi e commedie appena degni di plauso, ebbi la sfrontatezza di sostenere che la Francia, l'Inghilterra e la Germania non producono, al nostro confronto, che aborti mostruosi. - Questo linguaggio spavaldo mi valse naturalmente la simpatia e l'ammirazione degli idioti, che costituiscono la maggioranza della nazione.

Gran ventura per me che nessuno mi abbia chiamato al redde rationem. Figuratevi il mio imbarazzo, se un Francese od un Inglese mi avessero imposto di appoggiare la mia asserzione con dati statistici!

Eppure, quanto era facile il cogliermi in contraddizione! - Non ho io ricordato con ammirazione, nelle mie riviste critiche, parecchie centinaia di romanzi stranieri che appena pubblicati invasero le nostre biblioteche, i nostri gabinetti di lettura, i nostri salotti, le nostre camere da letto, obbligandoci a vegliare le lunghe notti nelle illusioni di un mondo ideale e fantastico? Balzac, i due Dumas, Eugenio Sue, Giorgio Sand, Alfonso Karr, Victor Hugo, Gauthier, Dikens, Féval.... Quanti nomi di romanzieri, di drammaturgi, di poeti, i cui volumi a mala pena si conterrebbero nel vasto salotto dove io sto scrivendo!

Più di cento produzioni drammatiche che (e dico poco) scesero dalle Alpi in questo breve periodo di tempo a fanatizzare le nostre platee. Per tutte ebbi parole di ammirazione entusiastica; e questa ammirazione, più che un risultato della analisi, era il riflesso delle impressioni immediate. Ma ciò non ha impedito che in ogni mia rassegna teatrale io mi sia permesso di ripetere il sempre applaudito ritornello delle melensaggini e delle mostruosità d'oltremonte.

Volete di peggio? Convien dir tutto, in mia confessione generale. Avvi un ramo dell'arte, dove infino a ieri l'Italia non aveva abdicato alla sua nobile supremazia. Questo ramo d'arte è la musica. E nondimeno in molti casi anch'io mi lasciai sorprendere da una codarda esitanza, quando mi avvenne di citare i nomi tanto giustamente famosi, ma pur tanto nostrani, di Rossini, di Donizetti, di Bellini, di Verdi. - Come si fa a passare per eruditi senza un po' di Chopin, un po' di Spohr, un po' di Schumann, un po' di Berlioz, un po' di Wagner e un'altra decina, per sovracarico, di nomi impronunziabili?

Mentre confesso di aver rinnegato il mio nazionale orgoglio per la vanità di conquistare il mio posto fra i critici d'alta levatura, mi pento e mi dolgo del mio peccato e ne chieggo perdono al buon pubblico.

Non ho il rimorso di aver ecceduto di indulgenza verso quei duecento maestri poco celebri, le cui opere mi avvenne di giudicare nella mia breve carriera di critico. Qualche volta ho però abusato delle perifrasi mitiganti. A taluni, a molti forse, conveniva dire francamente: rinunziate al teatro e datevi a comporre dei Kyrie! In ogni modo, la mia severità mi procacciò dei seri rabbuffi da parte di alcuni colleghi. Naturalmente, ne seguirono delle polemiche; ma siccome io non ebbi mai il coraggio di dire a' miei avversarî: «Tu hai rubato l'orologio al direttore del tuo giornale» ovvero: «io so che tua sorella fu veduta uscire da una casa di tolleranza;» così le mie polemiche non ebbero conseguenze, e le duecento opere caddero nell'oblìo.

Questa mia maniera troppo blanda di trattare la polemica non certo una idea molto edificante del mio carattere, e qualcuno scorgerà in essa la vera ragione per la quale io diserto innanzi tempo dall'esercito dei critici. Uno scrittore che non sa dire al suo avversario: Tu sei un ladro e tuo padre faceva la spia, non può esser degno di sedere nel consorzio giornalistico.

Ho preso una parte abbastanza vivace nella lotta che oggi si combatte fra i musicisti del passato e i musicisti dell'avvenire. Ebbi torto. In una questione che i posteri soltanto potranno sciogliere, i critici del presente fanno la figura dell'imbecille.

Sarei troppo lungo se volessi enumerare tutte le adulazioni e le bassezze di che mi resi colpevole parlando di cantanti, di comici, di ballerini, di mimi e di istrioni di ogni genere. Ho dato del celeberrimo a più di trecento tenori, dell'insuperabile a più di quattrocento donne, dell'inarrivabile a più di seicento baritoni; ho chiamato silfidi e figlie dell'aria, delle ballerine che pesavano cento chili, ed ho gratificato del titolo di professori dei suonatori di piffero, dei raschiatori di contrabasso, dei martellatori di gran cassa....

Eppure, a pensarci una intera giornata, fra i molti da me uditi e portati al quinto cielo dai miei encomî, riuscirei difficilmente a mettere assieme cinque nomi di tenori, dieci nomi di prime donne, quattro nomi di baritoni, ai quali competesse il titolo di artisti perfetti.

E quante volte, encomiando dei cantanti, ebbi ricorso al confronto di Rubini, di Filippo Galli, di Lablache, della Pasta, della Posaroni, del Duprez e di altri famosissimi che fecero la delizia di mio nonno!

Non ho io scritto che il tale attore ricordava nell'incesso il gran Talma? che la tale attrice riproduceva l'energia e la passione della Pelandi? I miei lettori, naturalmente, mi avran creduto decrepito. No: io non era che uno stolido mistificatore, il quale citando delle celebrità mummificate, aspirava a divenire autorevole.

Non vi dirò quante volte ho sentenziato di opere e di artisti senza avere assistito allo spettacolo e prima ancora che lo spettacolo avesse luogo; tacerò le frequenti gherminelle degli articoli preparati di lunga mano e pubblicati all'indomani di una prima rappresentazione. Tutto il mondo ha ammirato la vivacità e la copia della mia prosa estemporanea, ed oggi il mio amor proprio si risentirebbe troppo vivamente nel dover disingannare i buoni lettori.

Una sola discolpa, od almeno circostanza attenuante, mi sia lecito addurre: - Sono io stato il più tristo, il più assassino, il più vituperevole dei critici? - Oserei quasi rispondere che i più onesti non si comportano altrimenti.


 

 

 




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