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Paolo Mantegazza
L'arte di prender marito

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  • PARTE PRIMA.   IL RACCONTO.
    • CAPITOLO QUARTO.   La corrispondenza continua. Compaiono sull'orizzonte due altri pretendenti al cuore di Emma
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CAPITOLO QUARTO.

 

La corrispondenza continua.

Compaiono sull'orizzonte due altri pretendenti al cuore di Emma

 

Il lettore desidera molto probabilmente ch'io gli dica, che dopo quelle prime tre lettere lanciate da una finestra all'altra, ella non ne ricevette altre.

Ma pur troppo, siccome il mio racconto è storia vera, e la storia ha per primo dovere quello di esser sincera, io devo dirvi la pura verità, tutta la verità, null'altro che la verità; come certi testimonii, spergiurando, in una causa da me perduta perchè ero un galantuomo, dissero davanti al mio pretore.

E la verità è molto diversa da quella supposta o desiderata dal benigno lettore.

Emma ricevette una quarta lettera, che non riportò subito alla mamma, come aveva fatto delle prime tre, ma se la nascose in seno; ben decisa a farle seguire più tardi lo stesso cammino che avevano seguito le altre.

Ma la lettera lanciata alle dieci del mattino era ancora alle dieci della sera allo stesso posto, e siccome vi stava bene, calduccina e lieta di quel roseo nido, tessuto con qualcosa di meglio che non sieno le paglie e i fuscellini; non aveva voglia di escirne.

Se non che Emma alle dieci andava a letto e il foglio criminoso passava dal roseo nido in un altro bianco niveo, ornato di trine e profumato di giovinezza, ch'era il letto di lei.

Fu messo sotto il cuscino, ma dopo poco passò nelle mani di Emma, e le mani lacerarono la busta con uno strappo, che pareva una convulsione.

Tra lo strappo e la lettura passarono molti minuti, dolorosi e agitati come un'agonia; lunghi come secoli; ma il foglio fu letto e riletto alla luce tremula della candela con un tremito degli occhi, delle mani; e soprattutto del cuore della innocente fanciulla, che aveva così commesso il suo primo peccato.

Quale sarà l'ultimo?

L'ultimo non lo so, perchè in amore conosco il peccato secondo e il terzo e il quarto e il centesimo; ignoro l'ultimo.

A pochi giorni di intervallo furono lanciate una lettera N.° 5, una lettera N.° 6. Furono nascoste nello stesso nido roseo della N.° 4 e lette nello stesso nido bianco; ma non ebbero risposta per parte di Emina.

Ma la N.° 7 ebbe una risposta e da quel momento le linea telegrafica, che riuniva due cuori, due ingenuità, due amori, non fu più interrotta.

I peccati però non seguivano la stessa numerazione delle lettere, avendo sempre una cifra molto minore. Quelle erano al N.° 20, i peccati erano sempre al N.° 2.

Il primo: ricevere le lettere di un giovane e leggerle senza portarle alla mamma.

Il secondo: rispondervi. - Veniale il primo, quasi mortale il secondo. E chi sa fino a quando il terzo si sarebbe fatto aspettare, navigando i due colpevoli sempre nelle acque azzurre dell'Oceano senza mai toccar terra!

 

Intanto fra i molti visitatori della casa erano comparsi due nuovi uomini, che si erano quasi nello stesso tempo innamorati di Emma.

Essa però non se n'era accorta, perchè malgrado le lettere ricevute e risposte, serbava sempre una grande innocenza, e perchè i due pretendenti al suo cuore erano timidissimi, il primo essendo molto giovane e molto scienziato, il secondo essendo molto brutto e molto vecchio. Il primo aveva 26 anni ed era l'ingegnere Rinaldini, più uomo di scienza che ingegnere; il secondo era il marchese di Acquafredda, di 60 anni e tre o quattro volte milionario.

L'ingegnere Rinaldini era destinato a grandi cose, ma nessuno se n'accorgeva, perchè era troppo timido e troppo modesto.

Timido per temperamento e perchè della società umana non conosceva che la casa della mamma e la scuola; modesto, perchè aveva studiato molto e sapeva moltissimo; ma il suo ideale era così lontano e così in alto da parergli impossibile raggiungerlo anche con una vita di ottant'anni.

Appena laureato con grandissimo onore aveva subito ottenuto un posto di ingegnere tecnico nella R. Marina, ed era incaricato dello studio delle materie esplosive.

Aveva l'ingegno inventivo e fin dai primi mesi aveva scoperto cose nuove e intraveduto tutta una rivoluzione nel congegno delle torpedini e dei siluri. Non si era affrettato però a vantarsi, a pubblicare i suoi risultati.

Era timido, era modesto; ma soprattutto non era impaziente. L'impazienza è dei deboli.

Ora in congedo da Spezia, dove aveva il suo ufficio, si trovava in vacanza a Firenze, dove la mamma lo aveva spinto a entrare in società.

"Tu hai bisogno di riposarti (gli aveva detto) dei tuoi studii e devi conoscere il mondo, in cui devi vivere e che tu ignori affatto. Non sei solamente un ingegnere, ma un uomo."

E il Rinaldini aveva ubbidito, non direi a malincuore, perchè sentiva anch'egli il bisogno di vedere e conversare in un mondo per lui nuovissimo e sentiva una grande curiosità di trovarsi con persone d'altro sesso.

Vide Emma e se ne innamorò per , come colpito da quel famoso coup de foudre, per il quale psicologi e romanzieri non hanno trovato una parola migliore.

Per lui, con un'ingenuità indegna del suo tempo, amare e sposare erano sinonimi: ma come aspirare alla mano di una fanciulla bella, colta e anche ricca? Egli, che non aveva che la sua professione e una modestissima agiatezza da parte della sua famiglia?

Ma d'altra parte, come rinunziare a quell'amore, che aveva occupato tutto il suo cuore e subito, dilagando senza ostacoli in quell'anima così vergine?

Dopo averla veduta la scienza non gli bastava più e parevagli che la scienza con Emma sarebbe il paradiso in terra, senza di lei una landa sterile, arida, un deserto senza oasi.

Sembrandogli il suo amore un'utopia aveva provato a tenersi lontano dalla casa di Emma, preparandosi poco a poco a ritirarsene del tutto. E con sforzi dolorosi riuscì a non visitarla per tre giorni di seguito, ma non potè giungere al quarto e quell'assenza non servì che a una cosa sola: a persuaderlo che ormai l'amore per Emma e la vita erano per lui una cosa sola. E per ricompensare quasi i dolori di quella sua lunghissima assenza ora egli andava ogni giorno da lei, e i genitori lo festeggiavano e parevano felici della sua assiduità. Soprattutto il padre, che, come uomo di scienza anche lui, aveva subito pesato il valore di quel giovane.

Emma era sempre cortese con lui, sempre alla stessa maniera e null'altro che cortese.

Invece nel Rinaldini l'amore cresceva ogni giorno, e ormai a furia di dilagare, aveva innondato ogni fibra di lui, penetrando nei più sottili meandri della sua vita. Non aveva più nulla da occupare al di dentro. L'alveo del fiume era pieno; e la piena doveva condurre all'innondazione.

Pareva che in questo caso straripando l'amore avesse dovuto manifestarsi al di fuori. Nel linguaggio volgare ciò si chiama dichiarazione d'amore.

Ma la dichiarazione non veniva mai; e tutta la corte, che l'ingegnere faceva alla sua Emma, si risolveva in sguardi continui, ardenti, penetranti come lama di Toledo; terribili come fulmini o teneri come tepori del sole di maggio.

Tutti quelli sguardi non penetravano nulla, non bruciavano nulla, non intenerivano nulla. Si perdevano nello spazio, confondendosi insieme a tutte quelle energie planetarie, per le quali fisici chimici, hanno ancora trovato l'equazione di equilibrio.

Non andavano però perduti per l'occhio vigile e affettuoso della mamma di Emma, che dopo pochi giorni s'era convinta, che l'ingegnere era innamorato della sua figliuola. E di ciò era, come il babbo, felicissima. Non le pareva possibile trovare per la figliola un giovane più prezioso, che le fosse compagno per tutta la vita.

D'una cosa sola si stupiva assai ed era che Emma non si accorgesse di quell'adorazione silenziosa del Rinaldini e che non glie ne avesse parlato.

Un giorno però ella non potè più tacere e a bruciapelo le domandò:

- -Che ti pare dell'ingegnere?

- Del Rinaldini?

- Sì, proprio di lui. Nessun altro ingegnere viene in casa nostra.

- Uhm.... mi pare che sia un bravo giovane.... molto studioso, molto timido.

- No, voglio dire se ti piace, se ti è simpatico.... se lo trovi bello.

- Non ci ho mai pensato, cara mamma.... Lo trovo un bel giovane, sì; piacente come tanti altri....

Essa aveva detto tutto questo senza arrossire, con un'aria di tanta indifferenza da lasciare addolorata la mamma, che avrebbe desiderato in vece una tutt'altra risposta, magari una confessione di cose quasi gravi... tanto da aver bisogno dell'assoluzione materna.

Rimase parecchi minuti senza parlare. Era piena di stupore e amareggiata da un grande disinganno....

Dopo tutto quel silenzio, per quel giorno la conversazione terminò con un gran sospirone della mamma e con un:

- Quanto sarà felice la donna che diverrà la moglie dell'ingegnere Rinaldini!

il sospirone le parole materne commossero il cuore di Emma.

Essa pensava che aveva in quel momento nel nido di rose una lettera di Enrico e che quella sera passando nel nido bianco, essa avrebbe goduto un'ora di ineffabile voluttà, leggendola a centellini, divorandola d'un fiato....

 

Il marchese di Acquafredda era l'altro innamorato di Emma.

Un uomo su cui nessuna lingua, fosse la più maledica di questo mondo, avrebbe potuto sfogare la sua malignità. Non era libertino, non era bevitore, non era giuocatore.

Ma nello stesso tempo nessuno avrebbe saputo dirne bene. Era l'uomo più incoloro, più inodoro, più insaporo, come diceva il mio Professore di storia naturale, parlando del diamante. Era buono, perchè non aveva mai rubato assassinato, perchè faceva delle opere di carità....

Del resto un vero zero umano. Erede di una gran fortuna, non l'aveva accresciuta diminuita d'una lira. Badava alle sue terre, alle sue case; leggeva i libri alla moda, andava nell'estate ai bagni o alla montagna, frequentava i teatri e le conversazioni; viveva.

Dei suoi amori giovanili nessuno sapeva nulla. Non era galante, ma neppur scortese colle signore. Aveva da molti anni in casa una bella cameriera, che faceva anche un po' da maggiordomo e che forse aveva risolto per lui il gran problema dell'amore, che tormenta tante migliala di uomini, che semina per le strade della vita tanti feriti e tanti morti.

Insomma il marchese di Acquafredda era, per dirla col linguaggio di moda, un uomo perbene.

Giunto però ai sessant'anni, molto ben conservato, con tutti i suoi capelli che non tingeva, con tutti i suoi denti, che eran proprio suoi; aveva pensato che, non avendo nipoti, cugini, altri parenti lontani che portassero il suo nome, avrebbe dovuto prender moglie e avere un erede, che non lasciasse morire il nome e il blasone dei marchesi di Acquafredda.

Era vecchiotto, ma era sano e arzillo, e scegliendosi una sposa povera o appena agiata, avrebbe potuto coi suoi milioni gettati sulla bilancia del matrimonio far equilibrio alla giovinezza e alla bellezza di una fanciulla, che gli fosse piaciuta.

Ed egli si era innamorato di Emma. Dico innamorato, perchè egli stesso adoperava questa parola, parlando a stesso nei soliloqui della notte; quando nel silenzio della solitudine correggeva le bozze della vita quotidiana.

Non avendo pensato a prender moglie prima d'allora, non aveva badato mai alle signorine, e quella era la prima a cui dirigeva gli occhi amorosi con intenzioni oneste sì, ma alla sua età alquanto temerarie.

Quegli occhi erano sempre coperti da due grandi occhiali d'oro e attraverso a quelli passavano sguardi di diversa natura; ora teneri, ora appassionati; qualche volta anche concupiscenti.

Fossero però quegli occhialoni d'oro o i capelli bianchi, che erano tanto vicini ad essi, gli sguardi del marchese ferivano incendiavano, e neppure vellicavano la pelle di Emma.

Agli sguardi tenevano compagnia dei fiori, dei dolci, dei libri, omaggio dell'adoratore all'adorata. Questa accettava tutte quelle cortesie e galanterie come da un babbo, e diceva spesso:

- Che buon uomo è quel marchese di Acquafredda!

I due amori dell'Ingegnere e del Marchese camminavano, con diversa velocità, ma paralleli l'uno all'altro.

Quello del Marchese correva assai più lesto, perchè i vecchi son sempre impazienti e perchè la timidezza eccessiva rallentava il passo all'Ingegnere.

I giovani però, anche i più timidi, sanno saltare, ciò che i vecchi non sanno, e possono in un giorno riacquistare il terreno perduto in un mese.

Non so se il Rinaldini spiccasse il salto o altro avvenisse di nuovo.

So però che un giorno essi si incontrarono allo stesso punto.

Il marchese di Acquafredda con una lettera modestissima chiedeva al padre di Emma la di lei mano.

E proprio nello stesso giorno l'ingegnere Rinaldini, trovandosi alla sera solo con lei nel salotto nel vano d'una finestra, chiese con voce tremante ad Emma, se vorrebbe dividere la vita con lui.

Emma rispose con tutta calma:

- Per ora non voglio maritarmi.

Quanto al padre di Emma, devo dirvi, che lesse la lettera del Marchese con grande stupore e la passò subito alla moglie.

Non so cosa dicessero tra di loro e come commentassero quella strana domanda. So però che un tragico avvenimento piombò su quella casa fin allora così serena e felice.

Il dottore, partito da Firenze per un consulto a Modena, era morto in vagone fulminato da un'apoplessia.

Vi risparmio la storia del dolore di quella famiglia.

I due pretendenti, che avevano fatto in diverso modo la loro domanda, presero parte a quel dolore, per nulla stupiti di non avere risposta.

Quanto ad Enrico, seguitava a scrivere dalla sua finestra prendendo la sua terza parte nel dolore di una famiglia, che considerava come sua.

 

 

 




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