- Abbattete la porta! - gridò ai
suoi giannizzeri il delegato di P.S. appena giunto sul pianerottolo davanti all'uscio
della signora Bernabei, nel tramestio d'una casa intera svegliata di
soprassalto dal primo sonno, in mezzo al crescente susurro degli inquilini che
si erano riversati per le scale a crocchi e gruppetti, uomini e donne, grandi e
piccoli, e si sporgevano dalle ringhiere, salivano, scendevano da un piano
all'altro, tutti ostinatamente curiosi e trepidanti d'ansietà.
Un nome correva per le bocche,
storpiato, mutilato anzi il piú delle volte espresso alla meglio in un paio di
sillabe sibilanti o tradotto per antonomasia da un appellativo generico, ma
s'intendevano tutti. Ormai, svanito il terrore subitaneo d'un pericolo comune,
ignoto e imminente, le pazze voci contraddittorie che da principio nel
trambusto avevano annunziato l'ira di Dio, bombe, dinamite, incendio,
terremoto, si erano mitigate e già in parte si accordavano, tutte designando la
stessa persona. Nessun dubbio che se c'era una vittima - se c'era poiché finora
i discorsi non uscivano dalle supposizioni piú o meno verosimili - questa non
fosse il polacco del secondo piano, un giovinotto cui la signora
Bernabei subaffittava in casa sua un assai misero quartierino e che di
lontanamente polacco non aveva altro che il nome, problema e tormento di quanti
si affaticavano a decifrarlo sulla targhetta d'ottone appiccicata alla porta:
B.N. Tschernyschewskij. Vittima d'un suicidio o d'un assassinio? Alcuni
pretendevano d'essere stati svegliati da un colpo di pistola fortissimo, che
rintronò cupo nel silenzio della notte non preceduto né seguito da strepiti di
sorta altri invece giuravano sull'anima loro d'avere udito tra il sonno e la
veglia il rumore sordo come d'una lotta corpo a corpo e coll'abbaiare d'un cane
furibondo, delle grida imploranti aiuto, poi giú per le scale il frettoloso
calpestio di gente che fuggiva a precipizio. Affermavano con tanta sicurezza,
che anche coloro i quali avevano dormito placidamente sulle due, le orecchie
foderate di piombo, finivano per lasciarsi trascinare dalla suggestione e
figurarsi e persuadersi d'avere inteso essi pure la tregenda; quanto al cane
non c'era da dubitarne: dietro l'uscio chiuso, Egar l'enorme mastino del
cosidetto polacco ringhiava tuttavia; un dog da catena, famoso nel vicinato,
che all'infuori del suo padrone non conosceva barba d'uomo e solo a guardarlo
in lontananza digrignava la chiostra dei denti, pronto a saltare alla gola, se
Dio liberi, la catena di ferro si fosse spezzata: ringhiava tuttavia, di tratto
in tratto ululava dei gemiti lamentosi che parevano umani, allontanandosi
qualche momento dalla porta per ritornare poco dopo, piú inferocito che mai, a
battere della testa contro il legno, a tentare di sconquassarlo con le zampe.
Senonché la Bernabei e sua figlia, quelle che erano state le prime a gettar
l'allarme e sul ballatoio raccontavano per la centesima volta, tutte spiritate,
il come e il perché del loro spavento, non sapevano affatto né di colpi di
pistola né d'altri strepiti e tanto meno di ladri o d'assassini fuggitivi.
Ecco: tornavano dal teatro; un
miracolo da scrivere col carbon bianco; vederle esse al teatro era la stessa
cosa che vedere dei turchi alla predica; combinazione, quella sera, per non
disgustare Garganelli, il baritono, il celebre Garganelli che cantava la Cavalleria
al Politeama e aveva voluto provveder lui i biglietti... figuriamoci, un
amico di casa! giusto le stanze del polacco due anni prima le avevano
mobigliato di casa privata apposta per lui e c'era rimasto tutto il carnevale e
la quaresima; insomma, quella sera si erano lasciate tentare; una tentazione
del diavolo? un destino? chi lo sa? l'avvenire è nelle mani di Dio; potevano
prevedere che sarebbe successo quello che era successo? basta, tornano a casa;
nel salire le scale, facendosi lume coi fiammiferi perché il gas era già
spento, dice Penelope: - mamma, vuoi scommettere che l'orso ha tirato il
catenaccio come al solito e ci ha chiuso fuori di casa? - L'orso era il
polacco: un giovinotto di buona famiglia, che in quattro mesi non si sapeva
ancora di che colore avesse la voce, sempre solo, lui e il suo cane, sempre con
una faccia scura di temporale, sepolta nella barba da cappuccino, a chiamarlo
orso gli si faceva grazia. Risponde la madre: il campanello alla porta c'è,
suoneremo e chi ci ha messo fuori, il meno che potrà fare sarà di alzarsi e di
metterci dentro. - Penelope: e se dormisse? - E se dormisse..., già non
dormirà, non dorme mai, ne so io qualche cosa che tutte le notti lo sento
passeggiare su e giú per la camera; se dormisse, avrà tanta pazienza e si
sveglierà; non per niente hanno inventato i campanelli elettrici; costano un
subisso ma sveglierebbero anche i sette dormienti -. Penelope l'aveva
indovinata; fanno per aprire, giusto! tanto di catenaccio: suonano, aspettano,
suonano di nuovo, aspettano ancora, terza scampanellata, lunga, interminabile, quarta,
quinta, e finalmente chi risponde è Egar, urlando e gemendo; picchiano colle
mani, tempestano coi piedi, gridano forte: signor Basilio, apra, siamo noi! - è
sempre Egar che risponde, va e viene da una stanza all'altra perché in casa non
è mai legato seguita a urlare, e intanto il signor Basilio dorme sempre; dorme!
ma che dormire! ma che dormire d'Egitto! una delle due: o è venuto pazzo e gli
è saltato il capriccio di fare una burla da pazzo, oppure qui si tratta d'un
sonno di tutt'altro genere; allora cominciano madre e figlia a montarsi la
testa, lo spavento le prende, scendono all'oscuro, che i fiammiferi si erano
consumati tutti, e piú morte che vive, chiamano il portinaio; cinque minuti
buoni d'orologio prima di sentirsi rispondere e di farsi sentire: avete visto
tornare a casa il signor Basilio? a che ora l'avete visto? chi sa, forse non
era ancora rientrato; ogni tanto gli succedeva dl restarsene fuori fino alle
due, alle tre... e, se non erano riuscite ad aprire, non poteva essere colpa
loro che non avevano saputo far giocare la chiave, o colpa delle serrature
guaste? Ma invece, purtroppo, era rientrato piú presto del solito, anzi il
portinaio si ricordava benissimo d'averlo visto passare con una bottiglia
fasciata sotto il braccio: un veleno, un veleno di sicuro! ma perché non si era
svegliato! sfido: potevano suonare fino a domani mattina! il portinaio, vecchio
com'è, mezzo in camicia piglia i gradini a quattro a quattro, e loro dietro e
la moglie del portinaio dietro, ricominciano da capo a chiamare, a battere, a tentare di sforzar la
porta... tempo perso! Penelope caccia degli urli da far traballare il
firmamento, sua madre, per prudenza vuol darle sulla voce e attacca l'ottava
alta, di là dall'uscio il cane sembra indemoniato; comparisce una serva e per
prima cosa si mette a strillare, serve e padroni compariscono da ogni parte sui
pianerottoli e strillano tutti, si affollano, domandano, vogliono vedere,
sapere, e l'unico che stia zitto, è quello che non si vede e non parla perché
purtroppo i morti non parlano.
Abbattete la porta! - gridò
nuovamente il delegato alle sue guardie ma quantunque esplicito e perentorio
fosse il comando, esse non parevano troppo disposte ad ubbidire e una
coll'altra si consultavano piano, borbottando delle mezze parole, tenendosi
indietro. Abbattere la porta voleva dire trovarsi subito di fronte un nemico
del quale udivano tra i gemiti intermittenti, come se piangesse, il ringhio
feroce, e che tanto piú si figuravano spaventosamente terribile quanto piú seri
e mordaci erano i commentari degli astanti alla loro titubanza. D'armi non
mancavano, ma con tutto l'arsenale di daghe e di rivoltelle, dov'era il
temerario cui bastasse l'animo d'affacciarsi pel primo sulla soglia e senza
remissione esporsi all'impeto del mastino che di certo gli si sarebbe avventato
addosso? Forse non abbastanza gagliardo di fibra o poco solido sulle gambe per
offrirsi lui di dar l'esempio, il delegato non osò insistere; urgevano i
momenti, conveniva lasciar da banda le discussioni e tentare di rimuovere
l'ostacolo, a qualunque costo, imaginando un altro mezzo meno rischioso,
senonché in quel visibilio, tra l'ansia e il timore, tra l'impazienza
rumoreggiante degli inquilini e i loro mille suggerimenti spropositati, appunto
le discussioni si moltiplicavano frustranee, senza conchiudere nulla.
A troncarle venne improvviso,
dall'interno, un gran fracasso di vetri rotti e quasi subito dopo il rimbombo
d'alcuni colpi successivi d'arma da fuoco. Misericordia! in un attimo gli
strilli delle donne e dei bambini, le voci degli uomini, tutti i clamori acuti
e rauchi d'una gente repentinamente invasa da nuovo terrore, si propagarono in
alto e in basso della scala dal portone al solaio, fu un precipitarsi per
fuggire, uno spingersi cieco per guadagnare l'uscio piú vicino: Misericordia!
era piombata quella notte la maledizione di Dio sulla casa della signora
Bernabei? D'un salto istintivo balzato indietro anche lui come quelli che
l'attorniavano, stordito, incapace di qualunque pronta risoluzione, il delegato
agitava in aria le braccia, anfanando nel parapiglia, e tanto per illudere sé
medesimo sgolandosi quanto poteva a raccomandare la calma, la calma, la calma,
allorché il battente della famigerata porta si spalancò e apparve sul limitare
un caporaletto di fanteria.
Un caporaletto di fanteria.
Perché a quell'ora si trovasse
fuori del quartiere, il delegato non pensò a domandarglielo; forse, dopo aver
visto correre su e giú tante serve e non tutte sessagenarie e non tutte
tagliate coll'accetta dall'osco, lontanamente lo sospettò ma i minuti erano
preziosi e d'altra parte gli doveva troppa riconoscenza per arbitrarsi di
metterlo nell'imbarazzo e di farlo arrossire. Egar lungo disteso sul pavimento
nella sala d'ingresso, boccheggiante gli ultimi tratti, e coi suoi uomini si
slanciò verso la camera del polacco, ancora illuminata. Solo piú tardi, molto
piú tardi e quando le prime constatazioni di rito furono compiute, per pura
curiosità volle sapere dal fantaccino in qual modo, senza dir niente a nessuno,
lavorando di sua testa, fosse penetrato dall'appartamento attiguo in quello
della Bernabei, mentre fuori si almanaccava l'assedio di Troia: il fantaccino
non c'era piú e d'andarsene avrà avuto le sue buone ragioni disciplinari, ma
per arrischiarsi di nottetempo sopra un asse posticcio largo mezzo palmo, alla
meglio collocato da lui attraverso il cortiletto sulla sporgenza esterna di due
finestre prospicienti, per affrontare dalla finestra, col precipizio alle
spalle, una grossa bestiaccia come quel maledetto cane e ammazzarla a
revolverate, bisogna davvero che fosse un bel tomo, pieno di fegato, da dar dei
punti a Tizio e Sempronio.
Questo pensava il delegato, anzi
lo diceva francamente in un crocchio, volendo coll'ammirazione pagare il debito
di gratitudine, però, siccome la coscienza gli rimordeva d'essersi lasciato
prendere il passo avanti lui e i suoi fiduciari, da un ragazzotto mai visto né
conosciuto, versava nelle lodi una goccia d'aceto: bellissima cosa rischiare la
pelle quando il dovere lo comanda e non se ne può fare a meno, ossia si son
tentate tutte le altre strade, ma rischiarla gratis et amore, cosí per
semplice dilettantismo d'alta scuola, secondo la scienza moderna è un segno di
degenerazione; chi ha letto, come li aveva letti lui, gli scritti del professore
Lombroso.
Non parliamone piú.
Ancora vestito di tutto punto, il
polacco giaceva a terra sul tappeto dalla parte sinistra del letto. - Morto? -
Giaceva come se fosse caduto dormendo, il capo appoggiato di sbieco contro lo
spigolo della poltroncina, il braccio destro in alto colla mano aggrappata al
lenzuolo, il sinistro rattrappito e tutto nascosto sotto il fianco in guisa da
non lasciar vedere che le nocche del pugno. -
Morto? - Un guanciale gli era rotolato sui piedi, intorno alle gambe gli
si attorcigliava lo strascico della coltre pendente dal letto. In quella
postura, basse le palpebre, le labbra semiaperte e contratte da una specie di
sorriso, a prima giunta si sarebbe detto che smaltisse sconciamente la crapula
in un sonno bestiale di beatitudine, ma il pallore del volto, un pallore
plumbeo, un pallore tenebroso, quale sulla carne umana non si dipinge né per
deliquio né per catalessi, tosto rivelava ben altro sonno; quella smorfia agli
angoli della bocca che appariva sulla maschera come un ebete riso, era invece
il rictus orrendo dello spasmo che non perdona.
Ma la poltroncina era rossa di
sangue, il guanciale era rosso di sangue, insanguinati i lenzuoli, insanguinati
gli abiti, insanguinate le mani del giacente, il tappeto addirittura una pozza
da macello; sulla spalla sinistra e sul petto la giubba era strappata come
dalle ugne d'un gatto. Appena gli accorsi ebbero messa in luce la parte destra
del collo che piegava verso terra e la barba monacale nascondeva,
rabbrividirono: dalla gola fino sotto l'occipite una turpe ferita si apriva
allargando spaventosamente i suoi margini, e lacerati i tegumenti, mostrava a
nudo squarciata e dilaniata l'anatomia viva, palpitante, orribile dei tessuti
molli e dei muscoli, delle membrane e delle vertebre, goccia a goccia gemendo
per la carotide recisa il poco sangue rimasto. Bastava vederla: tutto si poteva
supporre tranne che un'arma qualunque avesse prodotto lo scempio di quella
ferita; se era opera d'un assassino, ci si era messo coi denti e colle unghie intorno
alla sua vittima per sbranarla come l'avrebbe sbranata una belva?
- Presto, un uomo alle guardie
notturne di Piazza Corvetto: mandino subito un medico che venga a constatare la
morte. Con tanta gente nei piedi, non c'è un medico in questa casa del diavolo?
Brigadiere Mistretta, alla Centrale, di volo, e poi dal Procuratore del Re e
dal giudice istruttore. - Fate stare
indietro i curiosi, vadano a dormire e sarà meglio; quante volte ho da dirlo?
parlo turco? via tutti, non c'è niente di bello da vedere; venisse il Padre
eterno, guai a voi altri se lo lasciate entrare senza mio permesso! - Prima di
tutto, ora ho da interrogare la padrona di casa: dov'è la padrona di casa?
chiamatela, lei e sua figlia, che intanto comincino a dirmi quel che sanno sul
conto del loro inquilino. Nessuno si accosti al cane, nessuno lo tocchi finché
il perito non si sia pronunciato. E fatevi dare dei lumi; da tanto tempo che
arde questa lampada non ha piú petrolio; pigliateli dove volete, ingegnatevi:
l'importante è che quando a momenti saranno qui le autorità non ci trovino
nelle tenebre.
Una rapida ispezione sommaria a
colpo d'occhio aveva tolto anche l'ombra del sospetto che potesse trattarsi
d'un delitto a scopo di furto: sul cadavere non erano stati toccati né
l'orologio d'oro né il portafogli contenente parecchi biglietti da cinquanta e
da cento lire, i vari cassetti erano intatti. Aspettando la perizia medica, il
delegato procedeva all'interrogatorio della signora Bernabei, ma nient'altro
che per scrupolo di coscienza e di formalità, e secondo lui e secondo il parere
di tutti quelli che da vicino avevano visto il quadro della tragedia e potuto
esaminare la ferita mostruosa, l'autore dell'assassinio era già scoperto.
Profondamente infossate le
materasse recavano l'impronta d'un corpo che vi avesse riposato sopra parecchio
tempo, greve come una massa inerte di piombo: niun dubbio che la vittima era
scivolata giú a terra, svegliata di soprassalto, nel dibattersi contro la
morte. L'uscio aperto, la lampada rimasta accesa, sul marmo del caminetto un
bicchierino a calice e un cavaturaccioli appiedi d'una bottiglia di wisckey
ancora sigillata e solo a metà sfasciata della carta che l'avvolgeva, erano
segni manifesti che il polacco giunto in camera sua e disponendosi a tracannare
un sorso, era stato colto suo malgrado da un sonno invincibile, e cosí vestito
come si trovava, senza neppure slacciarsi la cravatta, si era buttato sul
letto.
Sarebbe stata la prima volta che
un cane, divenuto ad un tratto furibondo non si sa perché, piglia nel sonno il
suo padrone, gli si avventa alla gola, gli pianta i denti nella carne, lo
lacera, lo dilania, gli spezza la carotide, lo fa morire scannato? Non si
discorre di idrofobia che qui l'idrofobia non c'entra, ma per quanto si esalti
e dacché mondo è mondo sia portata in proverbio l'affezione dei cani pel loro
padrone, essi pure vanno soggetti a morbosi fenomeni di ribellione feroce,
massime certe razze selvaggie e quasi indomabili, e se per disgrazia vi capiti
di possedere una di queste bestie, non vi fidate: niente di piú facile che
all'improvviso, magari senza causa apparente, l'istinto del sangue si manifesti
e quando meno ve l'aspettate vi vediate aggredito. Non succederà tutti i
giorni, forse una volta su mille, ma può succedere: la scienza parla chiaro,
non si sbaglia la scienza, e il delegato che era uomo studioso e oltre ad
occuparsi specialmente e seriamente d'antropologia criminale, sapeva a memoria
le opere dei piú insigni naturalisti moderni, si preparava a suffragare con
validi esempi la sua convinzione, appena fossero arrivate sul luogo le autorità
giudiziarie. Se poi, per uscire dal campo delle teorie ipotetiche, si voleva
una prova palmare e positiva a filo di logica, tale da non temere obbiezioni,
bastava quest'argomento - e il Procuratore del re e il giudice istruttore,
comprendendone tutta la portata avrebbero subito riconosciuto l'inutilità
perfetta d'ogni altra indagine: con un guardiano cosí formidabile come quello
che vigilava i sonni dell'infelice predestinato, un estraneo, per audace e
temerario che fosse, si sarebbe introdotto nella stanza a rischio d'esser fatto
a pezzi sul momento? e introdottosi, mettiamo con prodigi di cautele, non solo
sarebbe sfuggito a una lotta terribile con l'animale, ma davanti ad esso
avrebbe avuto agio di compiere il suo misfatto con tanta libidine di barbarie e
poi sparire pacifico, senza lasciar traccia di sé? O quest'uomo era uno
stregone che affascinava pure il demonio, o il cane era un cane dipinto.
In complesso il ragionamento del
delegato filava dritto né occorreva essere profondi nelle discipline fiscali
per arrivarci, né aver messo a soqquadro le biblioteche; tanto dritto, che
udite le conclusioni sommarie di due dottori, il magistrato venne seduta stante
nelle medesime idee, abbandonando ogni velleità di promuovere l'inchiesta
contro assassini puramente imaginari. Dalle risultanze dell'esame necroscopico
stabilito pel giorno dopo coll'assistenza d'altri periti, coteste conclusioni
avrebbero avuto piú tardi dimostrazione e conferma, ma frattanto non potevano
essere piú categoriche: la morte era stata determinata da emorragia traumatica
per rottura dell'arteria jugulare destra in seguito al morso d'un animale
carnivoro, come ne facevano fede le lacerazioni dei tessuti e dei vasi
sanguigni, frastagliate ai lembi con visibile simmetria delle incisioni dei
denti.
Gran mercede che di sua
iniziativa e sfidando il pericolo, forse senza neppure conoscerne la gravità,
un giovine animoso avesse fatto pronta giustizia della belva e cosí prevenuto
altre disgrazie; senonché i due medici, costretti dall'evidenza a non accusare
che il cane, si trovavano davanti a un problema inesplicabile nel volersi
rendere conto dei solchi profondi che tanto sugli abiti dell'ucciso come sulle
carni apparivano impressi da veri artigli felini; esaminando bene, anche nello
squarcio del collo i segni caratteristici lasciati dai morsi corrispondevano
per la forma e la disposizione assai meglio ai denti d'un felino anziché a
quelli d'un canide. Ma simili sottigliezze che in altra congiuntura avrebbero
avuto un'importanza massima, erano oziose questa volta di fronte a ben altre
prove materiali e certe che ne distruggevano la momentanea parvenza e i dottori
non esitavano a persuadere se medesimi che al domani un'analisi calma, fatta in
migliori condizioni, avrebbe spiegato l'enigma.
Questo succedeva a Genova, in una
casa di via Palestro, la notte dal 15 al 16 aprile 1894.
La signora Bernabei quando sul
conto del suo pigionale aveva detto e ripetuto che era un orso, di giorno quasi
sempre tappato in casa - dove ogni tanto venivano a trovarlo certe faccie
barbute e misteriose come lui, che non erano mai le stesse - che a guardarlo
dal buco della chiave passava le eterne ore a tavolino ruminando sui libri e
imbrattando montagne di carta, su per giú aveva detto tutto quello che sapeva;
a orecchio i vicini l'avevano battezzato polacco, e polacco era anche per lei,
che colla geografia era molto di manica larga, sebbene, dovendo fame registrare
il nome in questura, egli si fosse dichiarato nativo d'un villaggio nei
dintorni di Mosca.
Meglio lo conoscevano al
Consolato russo e in obbedienza a speciali istruzioni non lo perdevano
d'occhio: spiandone quant'era possibile le abitudini, sorvegliandolo nelle sue
passeggiate notturne e nelle sue rare amicizie: Vasili Nicolaievitch
Tchernyschewski giornalista, professore d'economia politica prima a Smolensk
poi a Odessa al liceo Richelieu, di idee democratiche e sovversive, e per
queste licenziato dall'insegnamento, affigliato alle sette nel 1872 condannato
in contumacia a dieci anni di lavori forzati nelle mine imperiali per aver
fatto parte a Kiew d'un complotto contro la sicurezza dello stato, fuggito in
Francia, espulso dalla Francia dopo pochi mesi; venuto girovago tra Milano,
Firenze e Genova, in Italia, donde seguitava a mandare ai suoi correligionari
opuscoli di propaganda anarchica, informati alla scuola di Bakounine, che
giungevano per via clandestina e a migliaia di copie erano sparsi per tutta la
Russia.
In aggiunta a queste notizie ufficiali,
registrate nel protocollo, non si ignoravano altri particolari d'indole diversa
e forse maggiormente curiosi: uscito appena dall'università di Mosca,
giovanissimo, Vasili Tchernyschewski si era sognato di innamorarsi, e fin qui
nessuna meraviglia, ma apostolo fervente della rigenerazione sociale, non
dall'amore fatto cieco, bensí da un falso scrupolo di coscienza e di predicar
coll'esempio, aveva sposato una cavallerizza o un'acrobata, non si sapeva bene,
taluni asserivano una domatrice di belve, insomma una creatura da circo della
peggiore specie; e cotesta donna tolta dal fango e che egli credeva in buona
fede di aver redento, era stata lei a denunziarlo, dopo parecchi anni
d'ingiuria atroce al suo onore con quanti le capitavano, e l'aveva denunziato
speculando sulla passione senile d'un alto funzionario e mercanteggiando a
rubli il prezzo del tradimento - o della calunnia, poiché circa il complotto di
Kiew si susurrava che i tribunali fossero stati ad arte ingannati.
E ramingo, esule, sotto il peso
d'una sentenza implacabile, Tchernyschewski le aveva perdonato a questa donna!
le aveva perdonato e seguitava ad amarla nell'esiglio come l'aveva amata in
patria al focolare domestico. Il protocollo venuto da Pietroburgo lo accusava
d'essersi fatto nuovo portavoce delle teorie di Bakounine e dell'altro
Tchernyschewski suo omonimo, Nicola Gawrilovitch, autore del famoso romanzo Cyto
dielat? e nei suoi opuscoli di eccitare alla strage col ferro e col fuoco i
fratelli della santa Russia; ebbene, per una contraddizione da pazzo o
un'ingenuità da bambino, dato che i suoi accusatori non ne travisassero a loro
consumo l'apostolato, quest'incendiario derivava dal cristianesimo il futuro
rinnovamento; camminando attraverso le nebbie insanguinate del nihilismo, predicava
come Tolstoi il regno di Dio sulla terra e levava in alto il Vangelo perché
rischiarasse la via, unico faro di luce e di verità. E dal Vangelo aveva
attinto l'abnegazione del suo perdono, altrimenti non concepibile: amate i
vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, vi perseguitano, vi
calunniano; dov'è il merito, dov'è il sacrifizio, se non sapete amare che in
contraccambio, per obbligo di gratitudine?
In uno dei suoi ultimi scritti,
facendo chiara allusione a colei che appunto con tanta gratitudine l'aveva
rimunerato, coperto d'ignominia, abbeverato d'assenzio, tratto al suicidio se
un'altra fede migliore non l'avesse soccorso, Vasili Tchernyschewski spingeva
l'oblio dell'offesa e la carità del perdono fino ad offrire per lei la sua vita:
«...vicina o lontana, se c'è una creatura di Dio in qualche parte del mondo che
possa temere da me anche un solo pensiero di vendetta, non mi giudichi
dall'amarezza delle mie parole; sapendomi qui fuggitivo e abbandonato da tutti,
coll'agonia nell'anima e il fantasma della patria davanti agli occhi, oppresso
dai terrori notturni d'una visione inesorabilmente crudele, non pensi che le
presenti torture mi strappino dalle labbra un grido di maledizione. Non so
maledire. Dove sei, dove sei, o tu che non rispondi? L'eternità è popolata di
misericordie infinite, e sarò io quello che non avrà indulgenza per te, io che
ti ho amato, io che ho creduto ai tuoi sorrisi e alle tue lagrime, e come della
mia credo all'immortalità della tua anima e presto o tardi, anche tuo malgrado,
ho la certezza di rivederti? Intanto il mio spirito è con te e non ti
abbandona, soffre e non ti abbandona, trema e non ti abbandona. Chiamo Dio in
testimonio: ascoltami: se un pericolo imminente ti sovrasta, se ti si affaccia
davanti, terribile, il minuto supremo al quale forse non hai mai pensato,
contro di me si volga quel pericolo e perché tu sia salva, quel minuto diventi
l'ultimo della mia vita; posso ancora darti qualche cosa? non ho piú che il mio
sangue. Altre penne, altre spade continueranno, meglio della mia, a combattere
la santa battaglia; in Russia e nel mondo i fratelli sono legione; ho udito una
voce, è la tua voce che mi chiama? è la voce di Dio che m'impone per un'anima,
per l'anima tua, il sacrifizio della mia vita? eccomi, ti ho dato tutto, non ho
piú che il mio sangue».
È un peccato che Max Nordau non
parli affatto di Vasili Tchernyschewski, laddove flagella i degenerati del
misticismo, Tolstoi in capo di lista, e li deride; strana omissione pel maestro
che tutto ha detto, tutto conosce, e a cui la forma e la sostanza del brano
riferito avrebbero somministrato un esempio di piú del delirio mistico in
questo fine di secolo, se pure ciò che egli chiama delirio non è piuttosto la
rivelazione dell'invisibile.
Dopo alcuni giorni, comunicata
per telegramma al suo governo la fine miseranda del cospiratore, il console
stava redigendo una minuta relazione la quale doveva accompagnare a Pietroburgo
tutte le carte di Tchernyschewski rinvenute nella sua stanza e consegnate dalla
questura, allorché gli pervennero due giornali d'Odessa, che non era solito
ricevere, il Novorossiiskii Telegraj e l'Odesokii Listok, in data
l'uno e l'altro del 4 aprile e l'uno e l'altro recanti con matita rossa un
segno di richiamo sullo stesso fatto di cronaca. Torna superfluo rammentare che
secondo il calendario greco-ortodosso la data del 4 aprile corrisponde a quella
del 15 secondo il calendario gregoriano.
«Un'orribile tragedia poco mancò
che non avvenisse ieri sera lunedí, nel serraglio di bestie feroci eretto a
Koulikow Pole dalla celebre domatrice Wanda Fedorowna Gagarine, e ancora adesso
ci domandiamo per quale miracolo della Provvidenza fu scongiurata una
catastrofe che purtroppo sembrava inevitabile. Sotto l'impressione viva del
terrore, palpitando tuttavia - noi che eravamo presenti - quei due minuti
d'angoscia che furono secoli e non dimenticheremo mai piú, ci assale un brivido
di freddo e la penna ci trema fra le dita.
Come ogni sera una folla grande
di spettatori era stipata nella galleria, avida d'emozioni violente e malsane,
non mai abbastanza biasimate da quanti nutriscono vero sentimento d'umanità;
l'odore ferino ammorbava, gli urli e i ruggiti si rispondevano da un capo
all'altro della baracca, sempre piú insistenti, sempre piú iracondi, mano mano
che si avvicinava l'ora del pasto, il quale, al solito, doveva essere preceduto
dall'entrata di Wanda nelle gabbie. - Confessiamo schiettamente che simili
spettacoli non solo non ci allettano ma ci guarderemmo bene dall'assisterci, se
piú forte della nostra ripugnanza non fosse il dovere di pubblicisti che ci si
impone; giustizia vuole però nel tempo stesso che a rischio di ripetere ciò che
scrivemmo la settimana scorsa, rendiamo omaggio d'ammirazione a Wanda Gagarine,
delle domatrici mondiali la piú intrepida e la piú elegante, ma che accoppia la
grazia alla forza, l'arditezza alla
poesia e non sappiamo se come Orfeo affascini le belve colla musica della voce
o come Medusa col lampo degli occhi, se le incanti col sorriso o le soggioghi
coll'audacia.
La rappresentazione procedeva in
mezzo al silenzio trepidante del pubblico, il cui entusiasmo lungamente
represso dall'ansietà, scoppiava in applausi frenetici sul finire di ciascun
esercizio; Wanda era uscita dalla gabbia dei leoni, dove una famiglia di cinque
re del deserto nubiano si prostrava innanzi a lei, tutti cinque mansuefatti dal
suo sguardo e obbedienti come agnelli - per entrare in quella della pantera.
Abbiamo già parlato altre volte di questo superbo animale venuto da Borneo,
novizio alla prigionia, senza fallo il campione piú classico che possa
ammirarsi in un serraglio, nelle forme flessuose, nell'agilità e nello scatto
dei movimenti, nel mantello screziato e ondulato, nel verde oro delle pupille,
il tipo perfetto della sua razza, simbolo vivente di bellezza e di forza,
d'astuzia e di ferocia, terribile e fascinatore. A rapidi passi misurava su e
giú il breve spazio concessogli, sferzandosi i fianchi colla coda, gli occhi
sempre rivolti verso la folla; si accovacciò in un angolo, la groppa contro le
sbarre, fissando immobile l'usciolo, nel momento preciso che Wanda Gagarine
comparve.
Qui era l'aspettativa maggiore,
poiché tutti sapevano come la bestia non avesse abdicato ai suoi istinti e non
di rado, mostrandosi ricalcitrante, opponesse minaccia a minaccia. È noto che
Wanda Gagarine, a differenza d'altre sue compagne che sfoggiano nelle loro
funzioni abiti esotici all'ussara o alla baiadera scintillanti d'orpello, si
presenta invece vestita da amazzone, semplicissima, tenendo lo strascico
ripiegato sul braccio e unica arma il frustino. Avanzò di qualche passo,
proferí nel gran silenzio una sola parola, accompagnata da un gesto risoluto
che significava un comando, ripeté il comando in tono piú alto e piú vibrato,
ma non fu obbedita, avanzò ancora, col frustino brandito in aria, fin quasi a
sfiorare col lembo della sua veste le gambe anteriori della belva, ma
repentinamente la vedemmo indietreggiare, protendendo le braccia in atto di
schermirsi da un assalto, vacillare, cadere riversa. Fu un batter di palpebre:
la pantera le stava già addosso con tutto il peso del suo corpo.
Un urlo, un urlo immenso irruppe
dalla moltitudine degli spettatori come da un'anima sola. Non sappiamo altro,
non rammentiamo altro di ciò che avvenne intorno a noi, tutto il nostro essere
fu assorbito dalla scena di quel gruppo immobile sotto i nostri occhi, immobili
noi pure, esterrefatti, incapaci d'una parola o d'un gesto se una parola o un
gesto fossero bastati per dissipare la visione. Non potevamo scorgere della
donna che i piedi e un braccio, tutta la persona rimanendo nascosta sotto
l'abbominio dell'enorme pelliccia che la schiacciava; senza il piú lieve
tremito dei muscoli, ghermita la preda e oramai sicuro che non gli sfuggiva
dagli artigli, il felino pregustava lungamente la voluttà del sangue e
assaporava la nostra agonia.
Ma perché non l'uccidevano? morta
per morta la donna, non c'era nessuno che si azzardasse colle armi alla mano a
tentare l'ultima carta?
Un uomo penetrò nella gabbia,
vera apparizione tanto fu rapido il suo ingresso, quasi fosse passato
attraverso le sbarre. Onore a lui. Lo riconoscemmo: Vasili Tchernyschewski. Piú
coraggioso, piú generoso d'ogni altro, veniva a salvare colei che era stata sua
moglie. Onore a lui! si piantò dritto davanti alla pantera, fissandola; i suoi
occhi sfolgoravano. La pantera ebbe un guizzo per le membra, credemmo già di
vederla spiccare il salto e slanciarglisi sopra e atterrarlo, ma soggiogata dal
carbonchio vivido di quegli occhi, strisciando all'indietro, sul ventre, si
ritrasse a poco a poco, ansante, furibonda, vile, finché il corpo giacente di
Wanda Gagarine restò del tutto scoperto, finché sempre incalzata dall'uomo che
la spingeva verso il fondo, strisciando sul ventre e rimpicciolendosi a poco a
poco si ridusse nell'angolo piú lontano, dove non era piú che un gomitolo. Chi
in quel momento abbia avuto l'ispirazione d'abbassare la saracinesca, non si
sa: la gabbia rimase divisa, da una parte Wanda, incolume, salva! dall'altra il
duello; fu lí che la belva riuscí a spezzare l'incantesimo e si avventò al
collo del domatore, ma troppo tardi; per un prodigio della sorte, egli aveva
fatto in tempo a sparire dietro l'usciolo, e se ci sembrò un istante di vederlo
lottare nell'orribile abbraccio, senza dubbio non fu che una allucinazione
momentanea dei nostri sensi ubbriachi di terrore e d'ansietà...
Non sappiamo darci cagione perché
Vasili Tchernyschewski continuò a rimanere nascosto. Non lo trattenga il timore
della condanna inflittagli: a quest'ora l'atto eroico e magnanimo da lui
compiuto ha cancellato la colpa e dal Trono imperiale, ne siamo certi, non
tarderà a scendere sul suo capo la grazia plenaria del perdono».
31 ottobre '95
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