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Gaspare Invrea, alias Remigio Zena Confessione postuma IntraText CT - Lettura del testo |
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La cavalcata
I
Un fatto che ha dell'inverosimile succede in casa vostra, durante la vostra assenza; quando vi si palesa, ne sapete meno di prima: non soltanto ne avviluppa una tenebra lo scopo e le modalità, ma pure le persone che l'hanno ideato, manipolato, e nell'ombra spiano ogni vostra mossa per ricominciare. Ladri? non sembra, almeno fino ad ora; dilettanti di burlette eccentriche ovvero d'un eteroclito carbonarismo nuovo risuscitato per passar mattana da chi ha tempo da perdere? piuttosto; ma comunque sia, la curiosità s'impossessa di voi, vi dà la smania e la febbre, tanto piú si acuisce quanto meno riescono efficaci i tentativi di sollevar la cortina, e allora, nel subitaneo assillo di averne il cuor netto, offrendo quel tenuissimo barlume ottenuto che ad altri piú esperti e sagaci di voi deve bastare a rischiarar la strada, a chi ricorrere se non al vigilante Argo della salute pubblica? Andiamo da Argo. Molti ci vanno come dal dentista, quando un dente duole. E cammin facendo, non dubitando che oltre i cento occhi di prammatica prescritti dal Testo unico delle Leggi sull'Ordinamento della Pubblica Sicurezza e le cento braccia che l'opinione popolare gli affibbia, Argo sia munito altresí della bacchetta magica al cui semplice tocco si spalanca immediatamente l'ignoto, quasi quasi la fiducia di rifare tra mezz'ora quella stessa strada col cuore alleggerito da un gran peso, non vi sembra soverchia. Siamo a Palermo, in Questura, nell'ufficio di don Pellegrino Gullifà, Commissario e cavaliere della Corona. Due personaggi: uno, l'ingegnere Lascaris, tipo volontariamente inglese, dalla faccia rasa come un marmo, dal vestire inappuntabile per sobria eleganza con un vago accenno all'esotico, dalle maniere disinvolte e perfette di chi conosce per pratica piú d'una carta o due dell'atlante e si picca di trattar sempre con gentiluomini, alto, roseo, i capelli biondastri già sulla via della contumacia, forse anzitempo; l'altro, il Commissario, un Turiddu che il coltello di compare Alfio abbia trent'anni fa risparmiato e che abbandonata allora nel paesello nativo la pericolosa caccia alle Santuzze e alle Lole, sia sceso in città a caccia d'un mestiere da galantuomo, e in trent'anni la fortuna e qualche santo l'abbiano tirato su all'onor del mondo, un Turiddu grigio, ma schizzante ancora faville dagli occhi di pece. Tralasciamo i preliminari d'un dialoghetto cerimonioso tra due persone che per la prima volta si vedono: l'ingegnere un po' irrequieto, un po' incerto, che man mano va riacquistando la sua scioltezza, il regio funzionario attento, impassibile. «Senta quel che mi capita. Pel nuovo impianto a Castelvetrano delle Officine elettriche Ryland e C. e come direttore della medesima società per le industrie chimiche dello zolfo, da alcuni mesi, naturalmente, ho dovuto trasferire a Castelvetrano la mia residenza, però mia moglie, che avrebbe desiderato accompagnarmi, fu costretta dal suo stato cagionevole di salute e per consiglio dei medici a non muoversi da Palermo fino al prossimo autunno, ed io continuai a tenere in affitto il villino Floreal di casa Lucidia all'Olivuzza; tutte le settimane, quasi sempre il sabato sera coll'ultimo treno, faccio una corsa a Palermo per passar qui in famiglia la domenica e ripartirne il lunedí mattina. Ieri l'altro, giovedí, un telegramma da Parigi del nostro rappresentante generale, Mr. Green, mi significava di trovarmi a Napoli domani mattina, senza fallo, per importanti comunicazioni di servizio, nelle poche ore che egli si sarebbe fermato a Napoli prima d'imbarcarsi e proseguire per Bombay. Lo stesso giorno partii da Castelvetrano nel pomeriggio, sarei qui giunto la sera verso le ore venti, se un destino non avesse voluto a bella posta trattenermi, per farmi arrivare a tutt'altra ora, inaspettato: in ferrovia non m'imbatto con la sempre giovine principessa d'Aligademi e una comitiva di belle signore e di amici palermitani, tutti quanti reduci da un'allegra escursione in partita alle grotte di Segesta? e non salta il ghiribizzo alla principessa d'invitarmi lí per lí al pranzo che li attende tutti nella sua villa? inutile schermirsi, addurre scuse, pretesti; niente vale; a San Lorenzo scendono e quasi per forza mi si fa scendere, son pronti gli automobili che ci portano in un lampo alla Zaffarana; si pranza lietamente, si fanno centomila chiacchiere, un poco di musica, una partita a bridge, si prende il thè... insomma, a farla breve, arrivo all'Olivuzza sulle quattro del mattino, in automobile. Di questa stagione, si sa, oscurità perfetta. Faccio fermare, e saluto gli amici all'angolo del primo cancello per non turbare col rumore insolito di voci forse un po' troppo ilari la quiete di chi dorme. Inoltrandomi verso la porticina di servizio, della quale ho la chiave, scorgo un lume nel capannone. Bisogna sapere che il villino Floréal è minuscolo, niente piú d'un gingillo, e quindi sprovvisto di scuderia; tre cavalli che tengo, uno da sella per mia moglie, gli altri per la victoria, dovetti allogarli alla meglio in un capannone provvisorio, distante dalla palazzina quaranta passi o cinquanta, nel vicolo che ne fronteggia il lato sinistro. Scorgo dunque un lume nella mia scuderia: diavolo! a quell'ora? l'uscio è socchiuso, entro piano piano, sorprendo il mozzo di stalla che stava asciugando Caliban, il cavallo da sella di mia moglie. Si capiva che l'animale, tutto in sudore e irrequieto, scalpitante e sbuffante, era rientrato pochi momenti prima. A quell'ora! Voglio sapere, interrogo, e il giovinotto si confonde, balbetta, non saprei dire se piú atterrito dalla mia improvvisa comparsa o dal tono imperioso della mia voce; insisto, minaccio, lo metto alle strette, risoluto a qualunque costo di non andar via senza un'esplicazione del mistero, e piagnucolando finisce per confessarmi che aveva avuto ordine di condurre verso mezzanotte il cavallo fino al suburbio dei Porrazzi, anzi piú in là, in campagna quasi deserta, all'antica chiesa, ora abbandonata, di Santa Maria in Gloria, già dei Cavalieri d'Aragona, consegnarlo sulla porta a chi l'aspettava e lasciarlo lí, e sulla porta, dal personaggio medesimo tornare a riprenderlo un paio d'ore dopo. Cose dell'altro mondo! l'ordine! ma chi l'aveva dato quest'ordine? chi si arbitrava di venire a comandare in casa mia e con tanta disinvoltura, con tanta arroganza, disporre dei miei famigli e dei miei cavalli? Ma non basta, ma non basta! a furia di stringere il brigante, un'altra ne imparo: non era quella la prima volta! nient'affatto: la terza o la quarta, non so bene, che da varie settimane la burletta si ripeteva allegramente, e ogni volta il brigante si buscava dieci lire di mancia! Da chi le buscava? dice: dall'uomo sconosciuto che sulla soglia della chiesa gli restituiva il cavallo; benissimo; e nella chiesa non è entrato mai per pigliarsi una vista di quanto si facesse là dentro? risponde: proibizione assoluta, porta di ferro per lui e per gli altri palafrenieri che come lui venivano in accompagnamento d'altri cavalli, mezza dozzina circa, ora uno di piú, ora uno di meno. Grazie tante. Ma insomma, il punto essenziale era questo: figlio d'un cane, si poteva sapere sí o no chi avesse impartito l'ordine e da chi venissero le istruzioni? lui, il brigante, a chi obbediva? con chi aveva parlato e con chi era rimasto inteso? Buio fitto. Pretende d'aver conosciuto per caso, alla Favorita in occasione delle Corse, un fantino a spasso, e da allora bazzicando insieme qualche rara volta, costui, sul principio dell'inverno, una mattina gli abbia fatto la proposta, a bruciapelo. Un fantino! Potrebb'essere, potrebbe non essere, andatevi a fidare di questi mascalzoni, concepiti, nati e cresciuti coll'istinto del mentire e mentiscono anche quando il loro tornaconto sarebbe di dire la verità; figuriamoci se non mentiscono quando evidentemente soggiacciono all'incubo d'una minaccia tenebrosa, che per essi, affigliati alla confraternita della mafia, ha tutte le guarentigie d'essere mantenuta se falliscono ai patti, in ispecie alla parola data di non tradire il segreto! Va bene, in mancanza di meglio, fantino sia; ma senz'altre indicazioni - e non sappiamo neanche se si tratti d'un italiano o d'un forestiero, poiché il mariuolo si contraddice e finge di non rammentarsi e giura e spergiura di non aver mai saputo come si chiami e di non averlo mai piú visto né in corpo né in ombra da quando la proposta fu dibattuta e accettata su due piedi - senz'altre indicazioni all'infuori d'un fantino anonimo, e per giunta scomparso, chi me l'agguanta quest'uomo? Sbaglio: ce ne sarebbe un'altra indicazione e per la sua bizzarra gravità potrebbe mettere la Questura sulle traccie dell'enigma, se fossimo sicuri che almeno una volta, una volta sola, il mio mozzo di stalla si è dimenticato d'essere bugiardo. A costo di contraddirmi, c'è dei momenti che la tentazione mi piglia di vagheggiarlo quasi quasi meno furfante o piú ingenuo del presumibile e di credere che non sia tutta fanfaluca la sua storiella; per esempio, la chiesa di Santa Maria in Gloria ai Porrazzi non l'ha inventata lui, esiste, l'ho vista io stamattina, ne ho fatto il giro attorno, e non solo esiste in uno squallido abbandono, ma ho constatato io coi miei occhi, sul piazzaletto, davanti a una delle porticine laterali, segni manifesti d'un molto recente scalpiccio di cavalli, come ai sei finestroni piuttosto bassi e con una scala a piuoli facilmente accessibili, ho potuto constatare certe imposte tutt'altro che sgangherate, d'un'apparenza troppo solida per non farmi capire che se i vetri erano stati rotti dal tempo, non al primo curioso sarebbe stato concesso di ficcare lo sguardo dentro la chiesa. Tra un subisso di domande che gli feci, al mariuolo, quasi coi pugni sul viso, incalzandolo, stringendolo tra l'uscio e il muro per non dargli tempo di maturare la risposta, queste due mi venne in mente d'appioppargli: prima: hai parlato d'altri stallieri, cinque o sei, scritturati come te dall'impresa anonima dei Porrazzi; che tipi sono costoro? amici tuoi? di chi, di quali famiglie si trovano al servizio? e tra voi altri, discorrendo, aspettando in qualche taverna l'ora d'andare a riprendere i cavalli, cosa dicevate della spedizione misteriosa a cui vi si faceva partecipare di nottetempo, con tanto segretume e con una mercede abbastanza lauta, troppo lauta, per non farvi sospettare che ci fosse lí sotto qualche cosa di strambo? seconda: quando la sera dovevi condurre il cavallo fin laggiú, chi veniva a dartene l'avviso in scuderia, durante il giorno? non veniva nessuno, tu dici? e allora, come facevi, pezzo di canaglia, come facevi a esserne informato e a tenerti pronto? Rispose alla prima domanda battendosi con le due mani il petto e invocando tutti i santi del paradiso a testimoni del suo giuramento, e la beatissima Vergine e Santa Rosalia bedda madre e Gesú Crocifisso, sfidando i fulmini a incenerirlo sull'atto se non diceva la verità sacrosanta, che le faccie degli altri conducenti erano per lui tutte faccie sconosciute e ne ignorava il nome e la provenienza, come ignorava in quali famiglie servissero, e non ci fu mai scambio di parole e neppure di saluto né prima né dopo la consegna delle bestie, e Dio liberi, durante gli intervalli un mezzo bicchiere di vino bevuto insieme alla stessa tavola, non ci fu mai. Spudorata menzogna, assurda, inverosimile, perché cotesti cavallanti si conoscono tutti, si conoscono prima di nascere, uno nascesse a Chicago, l'altro a Cefalú, perché non è concepibile un giovinotto che nella stranezza del caso suo, trovandosi con altri del suo mestiere, sopraggiunti come lui in identiche circostanze, rimanga muto, ammesso magari che non li abbia mai visti al mondo, e non senta il prurito d'interrogarli o non sia da essi interrogato per fabbricare almanacchi di congetture. Dunque, bugiardo sopra questo capitolo, ma un momento dopo, l'impeto delle mie insistenze l'avesse ridotto a corto di scappatoie o per levarsi dalla tortura escogitasse d'offrirmi lo spuntino d'una rivelazione, mi confidava il misterioso segnale che fin dal mattino avvertiva lui e i suoi compagnoni di tenersi in gamba per la sera coi rispettivi cavalli, e appunto sarebbe cotesto segnale quel principio d'indizio vago, che a patto di molta calma e pazienza e oculatezza, potrebbe fornire all'autorità il bandolo del gomitolo. Nient'altro che una gabbia, non so bene con quale uccellino dentro, una gabbia esposta sul poggiuolo di quella data finestra d'angolo al primo piano, di quella data casa in via Ruggero Settimo presso i Quattro Canti di Campagna; bastava, passando nel giorno, dare un'occhiata alla finestra, dalla presenza o dall'assenza della gabbia pigliar l'imbeccata per la sera, e c'è da scommettere che il lucro delle dieci lire in prospettiva era buon pungolo alla memoria e tirava ogni giorno l'amico a far la sua ronda, col naso all'aria sotto il poggiuolo indicato. Fin qui siamo bene in sella: via tale, numero tale, appartamento tale; chi è l'inquilino che ha l'uso del poggiuolo? si fa presto a saperlo, e saputo chi è, tutta quanta l'abilità del funzionario dovrebbe ridursi a farlo cantare l'inquilino, lui e i suoi di casa, circa l'esposizione della gabbia sulla pubblica via a scopi misteriosamente semaforici, e occorrendo, se nicchia, metterlo a confronto col mio mozzo di stalla; ma purtroppo, eccoci di nuovo a terra: l'inquilino non esiste; presi già stamane le mie informazioni: non esiste; e si capisce, dal momento che la finestra d'angolo del primo piano fu internamente murata dietro le persiane chiuse, e quindi, per l'euritmia della facciata rimaste intatte le decorazioni esterne, sono vari anni che il poggiuolo corrispondente non può essere usufruito da alcuno. Dunque? tocca all'autorità vigilante aiutarmi, traendo profitto da questo semplice indizio; pensi l'autorità vigilante ad appostare i suoi giannizzeri, a fiutar l'aria e il terreno, a scoprire insomma con la sua ben nota perspicacia in qual modo e per mezzo di chi la gabbia-segnale salga dal di fuori in certe determinate notti fino all'altezza del primo piano e lassú, appesa alla ringhiera, faccia ai passanti bella mostra di sé. Molto probabilmente l'enigma si risolverà in una burletta di qualche capo ameno, speriamolo; comunque sia, trovandone la chiave, piú che al mio piccolo interesse privato potrebbe rendere un servizio, l'autorità vigilante, all'ordine e alla sicurezza pubblica. Non si sbaglia mai ad andare a fondo, magari in quisquiglie da ridere, quando pare che ci sia del losco, lei me lo insegna. Mia moglie voleva dissuadermi dall'importunare la Questura. Certo rimase stupefatta e irritatissima al racconto che subito le feci, svegliandola, del cavallo nostro condotto di frode e di nottetempo e con tanto apparato di mistero a una scuola clandestina d'equitazione o ad una giostra d'ignoti cavalieri da strapazzo, ma dopo tutto, perché dare importanza e pubblicità a un fatterello quasi domestico, a un abuso di fiducia da parte d'un barabba, che altro non dimostra se non la nostra insigne dabbenaggine, e per guadagnarci le beffe, sottoporci a visite di ispettori, commissari, questurini, a un'interminabile sequela d'esami e di confronti? Non sono dell'avviso di mia moglie, e non lo sono, non già perché essa abbia torto nel temere le risatine beffarde delle amiche e nel desiderio di non assoggettarsi alle noie d'un'inchiesta, ma perché piú ancora che dall'anomalia del caso mi sento come stordito dall'atmosfera d'occultismo che lo avvolge, perduto senza un barlume nel labirinto delle induzioni. Pochi discorsi: la curiosità mi martella, e da me solo, massime ora, costretto a viver lontano da Palermo l'intera settimana tranne la domenica, non ho sufficienti mezzi per appagarla; ricorro a chi può fornirmi una lanterna. Curiosità? non so bene: quasi quasi paura! non so bene: paura dell'ignoto, paura d'un disastro immenso, irreparabile forse... Perché sorride? capisco: dopo tutto, nella sua esperienza delle cose di questo mondo, le pare che io esageri e per un fatto semplicemente bizzarro io mi monti la testa un po' troppo, fino a confessare di aver paura. Ma non sa, lei, che questa confessione è sincera? che non arrossisco nel farla, perché si tratta di paura non degli uomini, ma di qualche cosa che è superiore alla volontà e alla forza degli uomini? non sa lei che da un tempo a questa parte io vado soggetto a certi presentimenti spaventosi che piuttosto potrebbero dirsi chiaroveggenze? Non mi chieda di piú, ho vuotato il sacco e se crede di poter venire a capo della matassa, faccia lei come la prudenza e l'abilità la ispirano, e a tempo debito m'informi. Oggi è sabato, parto oggi stesso col battello per Napoli, sarò di ritorno martedí mattina, o al piú tardi, mercoledí, e se dobbiamo vederci, ad evitare che i miei passi siano spiati e i nostri colloqui subodorati da gente troppo curiosa, vediamoci, ma non qui e tanto meno in casa mia: ricevo, per esempio, un suo telegramma convenzionale, io parto subito da Castelvetrano, e mi trovo all'appuntamento da lei fissato nel telegramma. Mi dimenticavo di dirle che non solo ho creduto opportuno per la mia tattica di non licenziare lo stalliere, ma di mostrarmi con lui piú che indulgente, pigliarlo con le buone e assicurarmene il silenzio promettendogli una regalía coi fiocchi pel giorno in cui la famosa gabbia ricomparirà al poggiuolo, e tanto piú solenne cotesta regalía quanto piú prossima sarà la ricomparsa».
II
Eccolo il dubbio: noi vedremo ancora appesa la gabbia? Rimasto solo, in fissa meditazione sull'unghia del pollice sinistro com'era sua consuetudine quando un problema difficile lo tormentava, don Pellegrino Gullifà, ricapitolando i punti principali dello strano racconto, cominciava a pentirsi d'essersi fatto bello con l'ingegnere Lascaris di decifrare in quattro e quattr'otto il mistero e d'essere stato troppo corrivo nel promettergli addirittura d'introdurlo nella chiesa abbandonata di Santa Maria in Gloria la prima notte di rappresentazione. A botta calda le difficoltà non si scorgono, la malizia altrui sembra puerile in confronto della propria, mille mezzi d'attacco galoppano nella fantasia, tutti eccellenti, tutti di riuscita sicura, e in buona fede le promesse diluviano, ma il bollore dato giú, appena si tratta d'impostare lo schizzo dell'operazione, non si sa da che parte rifarsi tanti sono gli intoppi, e le baldanze d'un minuto prima si abbattono l'una sull'altra come carte da giuoco. L'indomani e i giorni seguenti, non riuscendogli per lunghe ore d'ufficio di pensare ad altro, la meditazione sul pollice continuava. Algebra del mestiere: un profano avrebbe detto - e per un momento don Pellegrino Gullifà ebbe questa idea: aspettiamo vigilanti e pronti che il noto segnale faccia la sua apparizione; dovremo forse attendere due settimane, tre settimane, un mese, non monta: prima o poi, se lo stalliere non apre bocca, una mattina verrà fuori, e la notte successiva, voi, signor commissario, con una squadriglia dei vostri uomini circondate la chiesa nel massimo silenzio, bussate alla porta in nome della legge, e senza complimenti, usando le brusche se occorre, entrate dentro voi e la vostra sciarpa in tracolla. Siamo sempre lí: vedremo quel benedetto segnale? per avidità della ricompensa lo stalliere non parlerà con anima viva: può darsi; ma se per una ragione qualsiasi che potremmo anche supporre, un premio maggiore per esempio, ovvero la paura o un istinto di malvagità, egli avesse piú il suo tornaconto a spifferare ogni cosa che a tapparsi la bocca? e se il giochetto della gabbia l'avesse inventato lui o in precedenza gli fosse stato suggerito dal fantino per sviare le indagini? E dato pure che l'aspettativa semaforica non sia delusa, vogliamo cosí all'orbetto avventurarci in una spedizione notturna, prima d'aver tastato il terreno, prima d'avere attinto qualche ragguaglio, non dirò di certezza, ma almeno di presunzione? il minor rischio sarebbe quello d'un fiasco clamoroso, col danno e le beffe dell'autorità di Pubblica Sicurezza, se ci trovassimo semplicemente in una palestra di cavalieri nottambuli e bontemponi; peggio poi se la mattina dopo i giornali strombettassero a tutta Palermo che siamo cascati nel tranello d'una burla colossale; l'Autorità, in fondo, alle beffe è abituata, le scrolla e sta sempre ferma, ma il Commissario, invece? il Commissario, per un piccolo scappuccio che pigli, non c'è santi, gli tocca far fagotto per Udine o Domodossola e non è la croce di cavaliere che lo salva. Una burla alla Questura non avrebbe sugo: d'accordo; non si fa dello sport innocente adoperando i cavalli degli altri presi di straforo e corrompendo la servitú, circondandosi di tanto mistero e di tante cautele, spendendo fior di soldi per accapparrarsi il silenzio dei palafrenieri; c'è dunque del losco: ragion di piú per esser guardinghi; siamo al buio: non ci resta che camminare sulla punta delle pantofole; se accendiamo un fiammifero, se uno scricchiolio ci tradisce, guai! Guai, massimamente perché s'indovina al fiuto che ci si trova a battagliare con gente che oltre aver gli occhi bene aperti, non è dello stampo dei soliti ignoti, gente che naviga nelle sfere alte. Don Pellegrino mio, hai moglie e figli: giuocar di scaltrezza con canaglie matricolate, agguantarle se si può, è la tua professione, ma servir da zampa di gatto per la bella faccia d'un Tizio mai visto ne conosciuto, questo nei tuoi patti col Governo non c'è. In linea di supposizione, mettiamo che questa gente che naviga nelle sfere alte, sia di balla con uno di quei personaggi clandestini che qui a Palermo tengono in saccoccia l'onnipotenza di Dio e fanno baciar lo staffile anche ai tuoi superiori, saresti uomo, tu, cosí valente, cosí fortunato, da riprometterti di non uscirne con la testa rotta? Hai moglie e figli, don Pellegrino mio! Conferire col Capo, niente: meno lo disturbiamo, meglio è; i suoi lumi ti acciecano, le sue norme direttive son sempre bastoni nelle ruote; spirito eterno di contraddizione, specie con noi siciliani; piemontese o lombardo che sia, non ha capito l'ambiente e non lo capirà mai e non vuol persuadersi che l'Italia è una, va benissimo, siamo tutti italiani, va benissimo, ma la Sicilia è la Sicilia e Palermo è Palermo. Questo si può fare per ora: con molte cautele tener d'occhio il mozzo di stalla dell'ingegnere Lascaris, pedinarlo, stabilir bene chi sia, donde venga, con chi bazzichi, come trascorra il tempo che gli rimane libero; e anche questo possiamo tentare: informarci, alla larga, circa la chiesa di Santa Maria in Gloria, a chi attualmente appartenga, e se ora non è piú magazzino di legname com'era una volta, quale uso ne faccia il proprietario o a chi l'abbia data in affitto, e se l'abbia data in affitto di sua iniziativa, oppure perché la proposta d'un offerente a condizioni magnifiche gli è piovuta dal mondo della luna. Rimane la gabbia: mettere adesso di sentinella ai Quattro Canti di Campagna un piantone travestito per invigilare chi l'alza e chi l'abbassa dalla strada o dalla finestra superiore, sarebbe lo stesso che appiccare sul muro un manifesto stampato con la diffida ufficiale a quei signori di mutar subito semaforo e alfabeto; il giorno invece che la vedremo, dieci ducati di multa se non siamo a cavallo: piano piano, durante la notte, un buon servizio d'appostamento, e il mattacchione che si accosterà per portarla via, avesse una maschera di ferro, i connotati dovrà lasciarseli prendere. Nel frattempo, siccome pare da un telegramma che l'ingegnere debba prolungare a Napoli la sua permanenza molto piú di quanto aveva preveduto, passerà dell'acqua sotto i ponti; se egli un giorno o l'altro si ricorderà di tornare alla carica, il nostro formulario è sempre quello e sempre esauriente: l'autorità indaga. Non diceva bugia, perché sul suo protocollo giornaliero don Pellegrino si affrettò a inscrivere la «pratica Lascaris» in attesa di registrare man mano i risultati delle indagini che si proponeva di far eseguire da un suo fido armigero, volpe vecchia e prudente, prudentissima sovratutto. Tanto per cominciare ad annerir la pagina, corredò l'intestazione d'alcune notizie biografiche, racimolate in parte tra i suoi colleghi d'ufficio o attinte dal cosidetto Repertorio volante, i cui paragrafi le Questure si trasmettono a seconda dei casi, in parte qua e là, tra amici suoi e conoscenti, soci del Casino Gerace, piú o meno assidui frequentatori di salotti. Senonché molto magre erano le notizie della Questura: «Lascaris Alessio Teodoro di Costantino e di Triandaphillidis Elena (sudditi greci) nato a Livorno nel 1870, nel 1888 a Livorno condannato per ribellione e oltraggi agli agenti della forza pubblica durante una dimostrazione di carattere anarchico, amnistiato, studente a Zurigo e poi a Liegi, reduce in Italia nel 1905, rappresentante a Palermo d'una Società mineraria inglese» nel mentre i discorsi del giorno e della notte fornivano ragguagli assai piú diffusi e magniloquenti, appioppando all'ingegnere il titolo di duca - titolo che egli, del resto, non si attribuiva sui biglietti di visita, ma che tollerava volentieri e lasciava usufruire largamente da sua moglie - facendolo discendere in linea retta, e forse primogenita, da una dinastia degli Imperatori d'Oriente, esaltandone il talento, gli studi, l'uso di mondo, la facilità prodigiosa delle lingue acquistata nei suoi viaggi attraverso i continenti d'ogni clima e d'ogni colore; e si narravano le eroiche avventure delle sue cospirazioni giovanili ad abbattere le tirannie, e le aspre lotte sotto il sole dell'Africa meridionale per la conquista d'una sterlina, e come un eroe le dame l'avevano accolto nel loro olimpo, e i veri duchi, quasi a dargli la patente di fratellanza araldica, celebravano a gara le impareggiabili grazie e gli occhi azzurri della «duchessa». Tutte esaltazioni, tranne l'ultima, dovute a quella raffica di capriccio collettivo per lo straniero, cosí frequente nei salotti indigeni. L'ultima no: esaltazione legittima e meritata, sinceramente spontanea. Le bionde trionfarono sempre in Sicilia e la duchessa Lascaris - chiamiamola pure noi duchessa, senza ironia di virgolette, ossequenti a un nome scritto nella porpora bizantina di Nicea - non soltanto trionfava come bellissima tra le bionde, ma come una di quelle creature, figlie d'un miracolo, che passano sulla terra e non la sfiorano e che la terra contempla nel miracolo della loro virtú. Donde scaturisse la leggenda e in qual modo si fosse formata, niuno saprebbe dirlo: certe riputazioni entrano di scatto nell'opinione e se ne impossessano, protette dall'egida del consenso universale, e guai a chi si attenti graffiarne un preteso neo coll'unghia del dito mignolo; cosí i piú maligni e i piú temerari, le piú invidiose e le piú viperee non avrebbero osato mai d'arrischiare contro l'invitata nei loro cenacoli un frizzo o una sillaba, né quell'occhiata né quell'attimo di silenzio che rivelano un sospetto. Eppure, nelle sue apparizioni in società, niente che la distinguesse dalle altre dame: forse l'innocenza mistica dei suoi occhi. Di lei e della sua vita altro non si sapeva se non che era di famiglia oriunda scozzese, trasmigrata al Capo, dove l'ingegnere l'aveva conosciuta e fatta sposa piú per reciproco innamoramento che per la dote discreta. «Ahimè! - ripeteva stando a cena con gli amici il brioso principe di Mongiardino, spasimante perpetuo e qualche volta fortunato - ahimè! non nominatemi piú quella donna... i suoi occhi non sono occhi di buona speranza!» A proposito, dov'è il Capo di Buona Speranza? Don Pellegrino Gullifà, le cui nozioni geografiche non l'assistevano neppure in nebbia di reminiscenza e a sfogliar l'Atlante non ci si raccapezzava, ne richiese un alunno che faceva con lui tirocinio, il giorno stesso che lungo il viale della Libertà, nella fila di legni reduci dalla Favorita, essendosi fatto indicare la duchessa Lascaris, una doppia sorpresa l'aveva colpito: prima, quella di riconoscere nella duchessa l'amazzone mattutina, con la quale, sempre sola, piú volte s'era imbattuto per le strade di campagna, e anzi una volta nell'oratorio suburbano delle Sette Spade, verso Fumara, le aveva servito alla meno peggio da mezzo interprete per l'acquisto d'una pianeta antica di damasco rosso; seconda, quella di veder cocchiere della duchessa il piú bel diamante sfaccettato che la Mafia possedesse a Palermo, cicerone, mediatore, anche cocchiere in livrea per ricoverarsi all'ombra d'uno stemma patronale e sotto l'apparenza d'un mestiere da galantuomo, ma in realtà famoso maneggiatore d'affari segreti di qualunque risma. - E don Pellegrino cadde dalle nuvole quando s'intese rispondere che il Capo di Buona Speranza si trova in Africa. In Africa!? dunque non lontano dalla nostra Colonia Eritrea, dal Benadir, dal Marocco? (Di Tripolitania non si discorreva ancora). Ma se son tutti negri come l'inchiostro in quei paesi del diavolo! non sapeva capacitarsi all'idea d'una donna, d'una signora africana che fosse bianca di pelle, piú bianca d'una tazza di crema, e avesse bionda la capigliatura e gli occhi cilestri. E il bravo alunno a spiegargli con sussiego che l'Africa è immensa regione, con infinite varietà di tinte e di sfumature, a seconda delle razze, nel colorito dei suoi abitanti: figuratevi che essa sia una specie di Sicilia, però molto piú grande: Messina, per esempio, che guarda lo stretto, potrebbe paragonarsi a Massaua sul Mar Rosso, avete capito? il Capo di Buona Speranza che è sotto il dominio dell'Inghilterra, sarebbe invece dalla parte opposta, distante, chi lo sa? io non lo so, forse tre o quattromila chilometri, press'a poco, figuratevi, sulla punta di Marsala. Avete capito? Non troppo: si rassegnava alla geografia con un atto di fede. Senonché, azzeccato il suo uomo nel cocchiere della duchessa, quand'ebbe appreso che si chiamava duchessa Lascaris quella bella signora forestiera, la cui imagine gli sorrideva come una lontana reminiscenza, un sogno d'una vita anteriore, ecco l'anima sua di don Pellegrino, invasa tutta da una nuova energia piú forte d'ogni titubanza, vincitrice d'ogni paura. Sul momento, quello che avrebbe fatto non sapeva, le idee gli si aggrovigliavano in testa come un viluppo di ginepri selvatici, ma non per niente egli si stimava il piú abile e il piú destro funzionario tra quanti ne annoverasse la polizia italiana; in cento occasioni, secondo lui, avea dato prova di saper uscire con onore dai piú intricati laberinti, e anche questa volta, a tamburo battente, la buona ispirazione non l'avrebbe lasciato in asso. Finché eravamo nel desiderio d'appagare per gentilezza nostra e per puro favore una curiosità abbastanza giustificata, nessun male, se c'era del filo da torcere non senza qualche rischio, tirare alla lunga con diplomazia, ma ora, che diamine! ora dobbiamo afferrare i minuti; il primo lumicino è apparso come una rivelazione di Dio, siamo a tu per tu con un manigoldo che si è introdotto nella casa d'una gentildonna straniera evidentemente con la volpe e la biscia sotto il tabarro per un'impresa delle sue, ed è da questa donna che bisogna fare in tempo a stornare il pericolo. Pericolo c'è, non sappiamo quale, ma c'è. Intanto, che sia lui, l'amico don Nicola Cardamomo detto Cocò, il gran faccendiere di questa curiosa faccenda dei cavalli, cosí fossimo sicuri d'imbroccare un terno! la gabbia? ma se davvero comparisce e sparisce questa gabbia del diavolo, è lui che l'ha imaginata; il fantino? ma che fantino d'Egitto! vogliamo buscarci l'itterizia a cercarlo col lampione per tutta Palermo, il fantino, e a non rintracciarne neppur la bulletta d'uno stivale, quand'abbiamo già sottomano don Cocò? E poi si sente l'odore: una macchina montata ad uso dei forestieri. Da anni don Cocò, non traffica altro genere, i forestieri sono la sua specialità con brevetto; sugli alberghi e nei villini da ottobre a marzo ne piovono di tutte le risme; gente denarosa, però di tutte le risme; dove l'ha imparato l'inglese? non si sa; col suo inglese, ai gentiluomini veri, alle oneste signore offre servizi da persona che si rispetta, agli altri, altri servizi, e in fin di stagione li ha messi tutti nel sacco; bene: tempo otto giorni, don Cocò, e vi garantisco io l'improvvisata d'un servizietto, come non vi siete sognato mai. Avrebbe torto chi si stupisse di tanto subitaneo fervore nel temporeggiante don Pellegrino dopo le incertezze della vigilia. Ecco il divampare d'un vulcano che si credeva ormai spento, osserva un maligno critico. E perché no? gli autunni precipitano, succede all'età del giudizio non sempre in orario, quella dei rimpianti o dei rimorsi, diventato grigio e padre di famiglia, il bersagliere Turiddu affonda nella prosa, altre gatte ha da pelare che le Santuzze e le Lole e accende i moccoli a sant'Antonio, eppure vien quel minuto che gli balena a tradimento un lampo d'estro poetico e gli torna all'orecchio lo squillo dell'antica fanfara in lontananza. Centomila donne passarono sulla sua strada e non le ha viste, una ne passa, ignota, senza guardarlo e gli intenerisce il cuore, vorrebbe baciare il terreno dove ha posato i piedi, e sapendola in pericolo si ripromette di salvarla a costo della vita. Ma Turiddu se è rimasto ignorante, non è imbecille né rimbambito, possiede uno specchio e la virtú di specchiarsi, non insegue mantiglie, non insidia talami; se ha preso fuoco, le sue fiamme son puramente cavalleresche, quasi mistiche; Turiddu ha del sangue spagnuolo nelle vene: non potendo piú combattere per la conquista, combatte da dilettante per la chimera.
III
In massima, piú che si può, nelle operazioni delicate il buon funzionario di polizia deve lavorare da solo. Riconoscere i luoghi è il primo atto dell'operazione: guidando egli stesso un biroccino da campagna, di pieno giorno, al piccolo trotto, l'esperto Commissario se ne andò ai Porrazzi, dove proprio dinanzi all'ufficio di sezione volle a bella posta conferire col Delegato per far credere che fosse quella la sua meta, proseguí verso Nistri, passò senza fermarsi lungo il fianco della chiesa di Santa Maria in Gloria, un tempo dei Cavalieri d'Aragona; senza fermarsi, ma rallentando in guisa da fissar bene la località, osservare i finestroni sbarrati dietro i vetri da ermetiche cortine di legno, e specialmente le tre porte d'accesso, quella grande in facciata, un'altra laterale, e accosto all'abside, dissimulata nell'angolo del muro con la sporgenza del campanile, una rozza porticina minuscola, che tanto poteva essere del campanile come della sacristia. Voltò a destra imboccando un sentiero tra le ville, raggiunse la Rocca, tornò in città per la strada di Monreale. A notte fonda eccolo di nuovo sul posto. Una notte da lupi e da ladri, con vento e pioggia, fredda, scurissima, eccellente. Quella porticina gli ha dato nell'occhio: mette alla sacristia? e dalla sacristia in chiesa il passo è breve; piú probabilmente si apre sulla scaletta che conduce in cima, al chiostrino delle campane? e secondo l'uso deve esistere a livello del cornicione un'apertura interna, che dava adito lassú agli scaccini per gli addobbi e le luminarie. Eccolo nell'oscurità palpare a tentoni il catenaccio irrugginito, travagliarsi le mani con certi suoi ordigni infallibili e sudar sangue sotto un rovescio d'acqua. Mannaggia la serratura e il bisnonno di Noè che l'ha fabbricata! tanto ci vuole a torcerle i denti? Infine il boncinello salta fuori dalla toppa. Laus Deo! Non rimane che tirar la stanga, un'altra fatica d'Ercole, chiavata com'è negli anelli da una ruggine barbina di cent'anni, a dir poco. Laus Deo! E ora, una spinta, una seconda piú vigorosa, e l'uscio cede. Dove siamo? dopo qualche peripezia di scaramuccia coi fiammiferi umidi, l'occhio della lanterna, volto di qua e di là tutt'attorno, non rischiara che uno stambugio e i primi gradini d'una scaletta a chiocciola: o salire o tornar fuori: per quanti assaggi si vogliano tentare d'un passo in chiesa tastando e picchiando il muro, altra via d'uscita non c'è. Saliamo dunque in paradiso. Attenti ai brutti passi: gradini alti spropositati, e il peggio, monchi quasi tutti, traballanti sotto i piedi. Arrampica e gira, arrampica e gira, la scaletta s'interrompe, tanto almeno da riprender fiato, e sul pianerottolo nuova esplorazione, e dentro un'incavatura nel muro formante nicchia una grande ogiva, la quale prospetta senza dubbio l'interno della navata, si spalanca sopra un abisso di tenebre. Affacciarsi, e pur non illudendosi di scrutare l'abisso col raggio estenuato d'una lanterna, veder sotto di sé le tenebre che corrono e si accavallano furibonde come onde di mare aizzate dal vento! affacciarsi, e nella profondità paurosa del buio in tempesta ascoltare un clamore, un crescente clamore di voci e di nitriti e di galoppi, il clamore come d'una turba che ulula e urla, incitando frenetica dei cavalli in fuga! - Giuochi di fantasia, allucinazioni suggestionate dal momento e dal luogo, ma ce n'è abbastanza per non aver piú altro coraggio se non quello d'arrischiare l'osso del collo per scendere piú presto la scaletta e trovarsi all'aperto. Brutti giuochi di fantasia, allucinazioni spaventose e crudeli, la cui impressione si sente alla bocca dello stomaco, piú crudele d'una morsa di ferro, man mano che cessata l'imminenza dell'incubo, il pensiero si tortura nel richiamarlo, nel carezzarlo quasi, e ne raddoppia l'angoscia. Gullifà tuttavia, anche ventiquattr'ore dopo, sebbene un po' rinfrancato dal suo primo smarrimento, l'inganno dei sensi non lo sospettava, altrettanto persuaso d'aver visto realmente e d'avere udito, quanto che la chiesa dei Cavalieri fosse infestata da diavoli o spiriti o anime dannate. Si batteva la fronte: cinquanta metri sottoterra avrebbe voluto nascondersi per la vergogna d'essersi lasciato pigliare dalla paura - lui, dalla paura! - ma come mai, come mai, prima d'avventurarsi con la testa nel sacco, solo, a mezzanotte, in una ricognizione di quella specie, non pensare a premunirsi con lo scapolare di santa Brigida, potentissima contro tutte le arti diaboliche? e non venirgli in mente che nelle catacombe della chiesa erano sepolti a centinaia gli antichi Cavalieri d'Aragona? Cosí, tra la viltà dell'istinto superstizioso e l'ira per la sua viltà, nel compiacersi d'avere scoperto quel posto d'osservazione che rispondeva ai suoi calcoli e ai suoi progetti, l'idea di giovarsene una notte o l'altra lo faceva rabbrividire. Volle svagarsi in differenti pratiche d'ufficio: tempo perso, giornatacce negre per lui, tremende per chi l'accostava: un istrice! al Politeama Garibaldi, durante un comizio di scioperanti e relativo tafferuglio, delegati e marescialli sanno essi la gragnuola di rabbuffi e sanno le guardie gli scapaccioni che si buscarono. Il sangue gli scese tutto negli stivali una mattina che sul poggiuolo dei Quattro Canti vide la gabbia, col suo bel canarino saltellante, appesa alla ringhiera. Se l'aspettava, fin dall'alba un presentimento l'aveva agguantato al cuore, uno di quei presentimenti matematici che non fallano, pure, come se la testa mozza d'un celeberrimo brigante da lui ucciso anni prima in uno scontro corpo a corpo, gli fosse subitamente apparsa, rimase immobile in mezzo alla strada, con gli occhi sbarrati e fissi verso il temuto segno convenzionale. E quante volte nel giorno sia tornato ad accertarne la presenza e quante volte abbia mutato proposito, ora di vincere ogni ripugnanza e da fedele sentinella non disertare il suo posto, ora invece d'appiattarsi al caldo sotto le lenzuola, non domandiamolo a lui che non lo sa, e rammenta soltanto come volasse rapida la giornata e si trascinasse interminabile in quel fiotto d'alternative, e approssimandosi il momento, assai piú che dalla paura dei fantasmi si sentisse invaso dal terrore buio di ciò che i vivi gli apparecchiavano. Non sa, non sa quante volte, per finirla con un colpo di testa, fu sul punto di farsi condurre per la cravatta don Nicola Cardamomo da due angeli custodi, metterlo alle strette coi migliori argomenti del repertorio, e se teneva duro, farlo cantare a suon di nerbo. In ultimo, circa le ventitré, licenziata la vettura già pronta alla porta, mandato a spasso il suo piú fido aiutante che doveva accompagnarlo, non volle nemmeno disporre il servizio di vigilanza ai Quattro Canti per scoprire chi fosse venuto ad ammainare la maledetta gabbia, tanto era fermamente deciso di bruciare i suoi vascelli e non combattere piú. Ma la risoluzione eroica venne ancora! venne, perché il buon sangue non si smentisce, o piuttosto perché la volgare forza irresistibile è tra le intermittenze del libero arbitrio la piú misteriosa? Affrettando il passo nella notturna solitudine della campagna, non era uomo Pellegrino Gullifà da rendersi conto se lo moveva audacia volontaria o rassegnazione forzata, né da sottilizzare nel tumulto dei pensieri che l'agitavano se quello d'abbattersi faccia a faccia contro un ostacolo insormontabile, era di timore o di speranza: per esempio, essere riconosciuto e fermato da qualche cagnotto in vedetta, oppure la porticina, della quale forse, fuggendo, non aveva rimesso la stanga, trovarla resistente ad ogni tentativo d'aprirla. - Tutto andò liscio; unico incidente, il passaggio d'alcune vetture automobili che a fanali spenti, filando verso i Porrazzi, venivano di certo da Santa Maria per tornar piú tardi a riprendere i loro padroni, e l'incontro con parecchie ombre girovaghe, al cui accerchiamento sarebbe stato assai difficile sfuggire pure usando la piú cauta scaltrezza, se quella notte la luna, invece di tenersi nascosta nella bambagia, si fosse fatta scrupolo d'ottemperare alle indicazioni dell'almanacco. Tutto andò liscio come olio. Via via che stava salendo la scaletta a chiocciola, don Pellegrino vedeva battere sulla spirale del muro un riflesso di barlume e via via farsi piú intenso e piú chiaro, finché, sul pianerottolo, gli si aprí davanti l'ogiva nel fondo della nicchia, in una luce discreta. Non si affacciò: piú del ribrezzo che gli serpeggiava nelle ossa lo trattennero il timore e la vergogna d'esporsi improvvisamente dalla sua tribuna agli sguardi dei sottostanti; chi erano costoro? ne udiva il bisbiglio come un ronzio nebulato di mistero; superò carponi il breve tratto d'impalcatura scricchiolante, rifugiandosi nell'angolo tra il davanzale e la parete, donde, in ginocchio e senza esser visto, dominava di sbieco l'abside e porzione della navata. Stretto alla gola da un sentore acre di fiori languenti e di cera che consumava, prima impressione per don Pellegrino fu quella d'assistere a un mortorio, di cui tra poco si sarebbe celebrato il rito solenne. Ad ogni pilastro fiammeggiava una torcia, ma la navata, col pavimento coperto d'uno strato giallo di segatura, era sgombra interamente: l'assemblea dei convenuti si agglomerava tutta al di là della balaustra, nel sancta sanctorum che piú frequenti torcie illuminavano a gran bagliore come una scena di teatro e dove nel mezzo ardeva fumante al posto dell'altare un enorme braciere e i gradini erano sparsi a profusione di camelie bianche recise, sopra un tappeto scarlatto. Non poteva dirsi folla l'assemblea, ma era numerosa abbastanza, tanto da riempire i due larghi spazi a destra e a sinistra dei gradini. Da che mondo era piovuta quella gente? uomini e donne alla rinfusa: macchiette d'uomini strani, dalle faccie rase, senza età apparente, figure di donne ancora piú strane, segaligne o formose, ridicole o lusingatrici nello sfoggio degli abiti e dei colori, si alternavano con adolescenti e con giovinette, con mostri di decrepitezza quasi esausti e quasi sdraiati in abbandono su certi cuscini provvidenziali; comparivano e sparivano tra i gruppi, come avessero addosso l'argento vivo dell'irrequietudine, altre figure maschili e muliebri, gli uni ermeticamente ammantellati, le altre imbacuccate fino agli occhi nelle pelliccie, tutti a piedi nudi, senza nemmeno la protezione dei sandali. - Manicomio forestiero, pensava don Pellegrino aguzzando lo sguardo e agitandosi in una febbre paurosa d'aspettativa, e alcuna di quelle faccie gli pareva e non gli pareva d'averla già intravista piú d'una volta. Quand'egli, ultimamente, confidò in parte l'avventura a un dotto figlio di san Domenico suo mezzo parente e antico protettore, e gli descrisse lo svolgersi successivo dello spettacolo, il frate sulle prime, non ostante tutta la sua erudizione e pur comprendendo trattarsi d'una cerimonia satanica e abbominevole, non sapeva a quale speciale culto attribuirla, se indiano, caldaico, egiziano, oppure ebionita, manicheo, albigese, palladista, o luciferiano. Diffatti nessuna effigie o simbolo di divinità al disopra del braciere ardente, nessun emblema caratteristico d'un rito particolare, nessuno che fungesse da sacerdote; non invocazioni di preghiera, non canti né musiche, salvo da parte della folla qualche scoppio di grida isteriche e la cadenza martellata d'un tamburello, spezzata a intervalli da un lungo trillo femminile, acutissimo, gorgheggiante; nient'altro che una sequenza di figurazioni mimiche e convulsionarie, tormentosamente elaborate sui gradini da cinque giovinette, poi da tre, poi da una sola. Chi erano? donde venivano? ballerine di teatro, non certo: creature maldestre, deboli creature, che storcevano il loro corpo in geroglifici ora d'impudicizia ora di sortilegio, e con la bava alla bocca, gli occhi stralunati, finivano ad una ad una per rovesciarsi come morte, cacciando un urlo. - Vedi figliuolo? tanti schiarimenti non occorrono: le solite danze che risalgono alle pratiche dell'occultismo piú remoto, lussurie, incantesimi, assalti d'epilessia, ce n'è d'avanzo perché l'opera del demonio sia manifesta; se non sappiamo darle un titolo a cotesta tua congrega, nella quale all'imperizia delle danzatrici e al ludibrio della loro povera carne si accoppiava il fascino e il terrore dell'invisibile e i loro gesti facevano correre negli astanti e in te medesimo brividi di peccato, possiamo affermare che per imporsi all'adorazione è sempre lui che si rivela, in tutti i tempi e in tutti i paesi, Belial, il serpente, oggi qui da noi, come all'inizio del mondo nel paradiso terrestre. Ma quando Gullifà ebbe appena cominciato a narrargli la scena finale, d'improvviso il domenicano si illuminò, come sotto il baleno d'un lampo. L'enigma era sciolto. Balzò da sedere, e interrotto il racconto, senza molte ricerche, trasse dagli scaffali un volume antico legato in cartapecora, a voce alta sillabandone il frontispizio con certa solennità, per quanto le orecchie del suo uditore egli potesse ritenere foderate contro il latino a prova di bomba: Speculum triumphale seu adversus daemonia nocturna et meridiana ex sacris necnon profanis scriptoribus analecta restituta, D. Francisco Vanderlinden Cathedralis Ecclesiae Namurciensis Archidiacono satagente; Amsterlodami 1618. Un pulviscolo dell'immensa mole di scartafacci sull'arte magica che ingombrano le biblioteche e pure qualche volta offrono ai dilettanti curiose notizie inaspettate. Riferisce l'arcidiacono fiammingo al capo IV «de negotiis perambulantibus in tenebris» un frammento di sant'Epifanio relativo a una setta samaritana, istituita forse da Dositeo o da Simon Mago, che fin dal primo secolo dopo G. C. professava il culto d'Erodiade, questa anteponendo alla Beata Vergine con empia adorazione e che già nel terzo secolo si era estesa in tutto l'Oriente ed anche a Roma, secondo una lettera al presbitero Ippolito di Papa Calisto. Ciò in via di proemio; quindi l'autore sulla scorta d'alcuni frammenti gnostici salvati dalla dispersione dei vangeli apocrifi di Basilide e di Cerinto, asserisce con la piú placida sicurezza che subito dopo aver per vendetta fatto cadere il capo del Battista e averne gradito la sanguinosa offerta in un piatto dalle mani della figliuola, la scelleratissima delle donne scomparve, rapita da un turbine di fuoco; ne è meno tranquillo nell'unirsi a Diodoro d'Antiochia per affermarla tuttora vivente, destinata a non perire fino al giorno in cui dal suo commercio col diavolo darà alla luce l'Anticristo. Le tradizioni copte, siriache, greche d'un'Erodiade volibonda sulla faccia della terra per preparare le vie al regno d'iniquità, passano il mare, si propagano in Occidente; accolte con devozione tra i fedeli, non respinte dalle assemblee dei capitoli, discusse benignamente nei commentari scritturali, amplificate dalla fantasia dei poeti; diventano piú terrificanti man mano che i barbari si accostano o che esse penetrano nelle regioni dei barbari. Quella che sarà domani la leggenda medievale germanica comincia sotto i Merovingi ad alterare le sue linee primitive per opera di Fredegario, poscia dei monaci di Bangor in Britannia e di San Gallo nella Rezia, che ne compongono sequenze e responsori brevi da inserirsi nei loro Antifonari e quando piú tardi Agobardo la declama alle veglie della corte di Carlomagno in versi esametri orrendi, assume addirittura una forma gotica nello spogliarsi d'ogni vestigio latino sulla bocca del popolo. Ed ecco che non si parla piú d'Anticristo, Erodiade ha mutato nome, si chiama Faraide e non è che uno spettro, inseguita dal rimorso; di tempo in tempo, durante la notte, le foreste tremano al suo passaggio, anche le streghe e i folletti ne hanno paura e si nascondono dietro le quercie, mentr'ella fugge, a cavallo, in un galoppo precipitoso, fugge al nord, vestita di porpora e decapitata, e la testa mozza che pende pei capelli all'arcione, è la sua propria testa, urlante nelle tenebre. - Ma l'antico sacrilegio samaritano dei suoi adoratori si è perpetuato, tenace; non valsero ad estirparlo il corso dei secoli né i fulmini della Chiesa e l'arcidiacono Vanderlinden, sull'autorità d'un monitum del vescovo d'Utrecht, ne discorre come di pratica purtroppo ancora viva ai suoi tempi: «guai a voi, uomini e donne, che rinnegando il sangue di Cristo Redentore e l'acqua del vostro battesimo, vi radunate in notturne congreghe dove il demonio presiede sotto la figura della nefanda concubina d'Erode, e invasi dal delirio di ribellione e di lussuria, inforcate i cavalli addestrati alla magia, illudendovi per arte satanica di superare immani distanze in brevissimo spazio di tempo e di luogo, perseguendo un fantasma che non può condurvi se non all'abisso dell'eterno pianto con stridore eterno di denti!» Che il frate domenicano avesse imbroccato nel segno, non toccava a don Pellegrino pronunciarsi per tante ragioni, fra le altre che non aveva capito nulla, ma don Pellegrino poteva giurare sul vangelo che se il diavolo non gli era comparso davanti con tutto l'apparato che gli spetta secondo il protocollo delle cerimonie infernali, si era sentito anima e corpo trascinato in sua balía. Santa Rosalia benedetta, perché non l'avete liberato dalle tentazioni e non gli avete coperto gli occhi col vostro manto, allorché furono condotti dinanzi alla balaustra cinque o sei cavalli che nitrivano e s'impennavano come bestie selvaggie, e in un attimo, caduti i mantelli e le pelliccie, vide cinque o sei corpi irrompere nella navata, balzare in groppa, senza sella, e uno dietro l'altro slanciarsi a briglia sciolta sulla pista? come in un circo equestre? perché, santa Barbara e san Vincenzo Ferreri, non avete impedito che un fulmine gli trapassasse il cuore nel riconoscere tra le amazzoni la duchessa Lascaris? Forse non era lei. Si era ingannato, non poteva esser lei! ma nei rapidi giri tutt'attorno la chiesa ogni sforzo di rintracciare un istante colei che le somigliava era divenuto impossibile. Hop! hop! hop! chioccano le fruste, gridano tutti. Dal galoppo la corsa si tramuta in gran carriera: è una vertigine di fuga. Hop! hop! le cavalcatrici s'inseguono, passano, ritornano, passano ancora in un lampo, i capelli sciolti, ondeggianti all'aria, le braccia larghe, abbandonate le redini. Un clamore d'anime dannate. Tutti gridano, cavalcatrici ed astanti. Tutti in piedi gli astanti, rovesciate le sedie, abbattuti i candelabri, tutti frenetici, vogliono vedere, si pigiano, si accaniscono tra loro nella furia di veder meglio, si spingono quasi sotto le zampe dei cavalli. E don Pellegrino, pure lui, alla vista di quei corpi umani portati via dal turbine, fatto ubbriaco dalle voci, pure lui ha smarrito l'intelletto e non sente che gli istinti della bestia: non ha piú timore d'essere veduto né udito, si sporge dal finestrino agitando le braccia nel vuoto e battendo le mani, acclama ed urla insieme con la folla sottostante, pure lui ossesso in quella tregenda d'ossessi. Furono due le riprese: egli ignora se con le medesime centauresse o con altre. Nel breve armistizio, voltandosi, scorse immobile accanto a sé don Nicola Cardamomo che lo fissava. Non si parlarono: l'incrocio degli sguardi bastò, l'occhiata siciliana di due uomini che si scrutano a vicenda fino al fondo dell'anima, si capiscono, e stringono un patto d'alleanza.
IV
Da quella notte lo spirito di Pitone lo invase; dall'alba al tramonto, dal tramonto all'alba, nella veglia e nel sonno non gli diede piú pace né tregua con la perpetua visione della cavalcata e il desiderio feroce d'assistervi ancora, stimolandone crudelmente i nervi e l'imaginazione con l'ignominia di quella donna insospettabile che pareva piú bianca d'ogni terrestre bianchezza! Rivederla! rivederla a costo della famiglia, a costo della vita e della salvazione dell'anima! gemeva il torturato, fatto vile e perverso dal demonio che lo possedeva; e anche non dormendo, i suoi sogni lo trascinavano vertiginosi in groppa con la mala femmina, tanto piú bramata quanto piú fugace era stata l'apparizione e piú terribile lo sgomento d'averne conosciuto l'infamia. Vile e perverso. Scusarlo? Come il giogo di Nostro Signore non s'impone se non a chi lo domanda, cosí le catene dell'avversario non avvinghiano che schiavi di buona volontà. Scusatelo: ma l'uggia crescente per la famiglia e il distacco dalla casa, dove non metteva piede che per sfogarsi in escandescenze di collera bestiale? e i consulti delle fattucchiere perché gli tirassero dalle carte l'oroscopo favorevole? e il pretendere che gli amuleti sullo stomaco e le giaculatorie a tutti i santi gli ottenessero misericordia, nel mentre giungeva a macchinare un tranello di sangue che liberasse la donna dai sospetti e dalle indagini del marito? Onesto nel mantenere il patto di solidarietà con don Nicola, questo sí: e non soltanto perché rompendolo sarebbe svanito l'incantesimo della sua follia ed egli voleva esser folle; non soltanto per gratitudine verso l'uomo che invece di salir lassú ad affrontarlo, avrebbe potuto, senza nemmeno il fastidio di sporcarsi le mani, chiuderlo come un sorcio in trappola e chi s'è visto s'è visto, parce sepulto, ma altresí per quel punto d'onore che nel catechismo dei galantuomini è il primo comandamento. Data una parola, promesso il segreto, caschi il mondo: furfanti, ma galantuomini! - Che in quei giorni sia avvenuto tra di loro un colloquio clandestino di ratifica, non lo so: possiamo supporlo, tanto imperiosi erano gli argomenti sul tappeto, massimamente la fedeltà del mozzo di stalla e le troppo visibili irrequietudini dell'ingegnere Lascaris da far temere un colpo di testa e per lui e per tutti una brutta sorpresa; del resto, sicuri l'uno dell'altro, ognuno lavorava con destrezza per conto suo, Gullifà a imbambolire il greco mediante l'eterno arzigogolo del filo che la Polizia è quasi certa d'aver nelle mani purché l'imprudenza d'una sillaba non lo spezzi, don Cocò a vigilare il ragazzo e non solamente il ragazzo. Intanto una mattina ricomparve la gabbia al poggiuolo. Se non fosse materia assai piú di tristezza che di ilarità, le similitudini grottesche verrebbero a stormi per dipingere la faccia di don Pellegrino e la sua mortificazione, quando a notte fonda, giunto trafelato alla chiesa dei Cavalieri, la trovò deserta, nel silenzio e nel buio. Sapeva d'essere in ritardo: con la febbre addosso che lo bruciava vivo, gli era toccato per turno di servizio far da aiutante di campo al Questore e accompagnarlo alla stazione a ricevere S.E. il Ministro degli interni, che proprio quella sera, a sceglierla apposta, arrivava da Catania coll'ultimo treno. Dunque, un'ora di ritardo, mettiamo un'ora e mezza, ma per l'anima di Giuda! come l'altra volta, prima del tocco non potevano aver cominciato, e alle due, alle due meno otto minuti, erano già tutti spariti? neanche il tempo materiale di smorzare i lumi. E i cavalli? e gli automobili? spariti per aria, in un soffio? il segnale, non una volta, dieci volte l'aveva veduto coi suoi occhi, passando e ripassando sotto il poggiuolo, tornando a ore diverse fino all'accensione della luce elettrica: una burla di don Cocò? un inganno? un tradimento, corpo santissimo!? - Ma in quel luogo, in quella solitudine nera, le bestemmie gli gelavano sulle labbra, come gli sapeva d'ostico il mezzo sigaro che stritolava fra i denti. Appena l'alba, rintanatosi in ufficio che pareva l'imagine del cane di San Rocco, un impeto repentino lo fece scattare tant'alto: finiamola! e buttò in acqua la sua zavorra di prudenza, lí per lí sul tamburo, per non aver tempo a pentirsi: don Nicola Cardamomo non c'era brigadiere né maresciallo a Palermo che non lo conoscesse; don Cocò; bene: o presso l'ingegnere Lascaris all'Olivuzza o nella sua abitazione in via dei Cinturinari o a casa del diavolo, scovarlo subito, e con le buone o le brusche, vivo o morto, portarglielo davanti, subito! Un'ora dopo: - Don Cocò, nessuno qui ci sente; carte in tavola: che è successo? La richiesta non ammetteva preamboli, dalla faccia di marmo dell'interrogato, rasa e giallastra, non traspariva indizio di timore, né meraviglia né sdegno; se egli tardò un istante a rispondere, furono pronti gli occhi a raccogliere in un guizzo tutta l'espressione di sincerità fedele che potesse rassicurare il suo complice. - Don Cocò s'assettasse. Che era successo? questo era successo: che loro due, Gullifà Pellegrino e Cardamomo Nicola, si vantavano d'essere volpi vecchie e invece erano due oche; lui, Cardamomo, sapeva che sotto i colpi di staffile e schiaffi e calci senza compassione d'un povero picciuotto il segreto era stato rivelato, lo sapeva, e come niente fosse aveva messo fuori l'avviso, anche perché quei signori diventavano frenetici; pazienza la prima volta, l'uomo era a Napoli, e piú tardi si sarebbe provvisto; ma la seconda!? non pensare che da Palermo a Castelvetrano c'è il telegrafo e da Castelvetrano a Palermo in poche ore ci si arriva? Don Pellegrino poi, con tutto il suo talento e il suo uso di mondo, nel cuore d'un marito non aveva saputo leggere, si era lasciato ingannare da una disinvoltura apparente, aveva creduto con quattro buone parole delle sue, con qualche promessa a mezz'aria d'appendere a un fico tutte le paure e tutti i pericoli. - Don Cocò, veniamo al fatto. Il fatto è che successe quel che doveva succedere: l'uomo sospettava, lo sappiamo da un pezzo, l'uomo si sentiva dentro il cuore un nido di serpi che lo mordevano e gli avvelenavano il sangue; visto che la Polizia tirava in lungo, non sapeva o non voleva aiutarlo, si aiutò da sé, rivolgendosi semplicemente a un amico che gli telegrafasse d'urgenza non appena avesse notato alla ringhiera di quel tale palazzo una gabbia cosí e cosí. Don Nicola non si lambiccava la fantasia a spiegare altrimenti il ritorno precipitato del padrone, in automobile, a rotta di collo; da Palermo era partito la sera prima, tardissimo: dunque nessun dubbio che il telegrafo nella mattinata avesse battuto l'allarme. No? Pienamente d'accordo, per quanto le approvazioni sbuffassero d'impazienza. Novantanove su cento, un altro, nei panni del signor duca, avrebbe avuto l'ispirazione di filar dritto sul posto, attendere i cavalli, spiare le persone che arrivavano, e se il cuore gli diceva, provvisto della sua brava rivoltella, cacciarsi dentro per sotterfugio o per forza. Gli mancò il fegato. Dio sia benedetto. E venne a casa, giunse che non erano ancora suonate le ventitré, e la signora duchessa, già pronta, da capo a piedi nella sua grande pelliccia, stava aspettando l'automobile di miss Fleming per imbarcarsi. Niente di strano aver dato appuntamento a un'amica che venisse a prenderla e l'accompagnasse in una casa o nell'altra ad uno dei tanti ricevimenti; il male fu che don Nicola, presso il cancello del giardino, non fece in tempo ad avvisare miss Fleming com'era stato svelto un poco prima a trattenere Caliban in scuderia, e miss Fleming, arrivando puntuale al villino con diverse dame e signori della confraternita, si mise a chiamar forte dalla strada: Gladys! Gladys! e il signor duca, affacciatosi a una finestra del pianterreno, non disse che queste parole, in inglese: buona sera, miss: ve ne prego, abbiate pazienza d'aspettare un minuto, e se permettete, vengo io pure con voi e con Gladys. Un'oncia di sangue freddo rimediava subito: ... viceversa, riconoscere all'impensata la voce e credersi tutti mezzi morti, far voltar la macchina e via come il vento, fu un attimo di saetta. Volarono ai Porrazzi a troncar sull'istante gli ultimi apparecchi della funzione e gridare a tutti di svignarsela a rompicollo per non vedersi acciuffati, in trappola dalla Questura? cosí dev'essere, se don Pellegrino non trovò laggiú altro naso all'infuori del suo. Ma lasciamo stare i Porrazzi; frattanto il guaio era nel villino: dopo una fuga matta di quella specie da far nascere i sospetti nell'individuo piú pastafrolla del genere umano, vogliamo figurarci la povera signora duchessa a tu per tu col marito? rispondere, bisognava rispondere, una spiegazione bisognava inventarla, e se egli insisteva e non voleva saperne di capacitarsi? uno dei suoi estri gli fosse venuto in un momento dispari, neanche il Padre eterno l'avrebbe garantito da qualche brutto sproposito. La servitú a letto, porte e finestre sbarrate. Rasente il muro, camminando sulla sabbia in punta di piedi, don Nicola tendeva le orecchie, caso mai avesse udito un grido o una voce. Niente. Il signor duca uscí dalla porta grande, senza cappello, e fermatosi un poco sulla gradinata a respirare l'aria fredda, si diresse al capannone della scuderia, in lontananza seguito piano piano da don Nicola; entrò, accese la lampadina elettrica imponendo di star fermo al picciuotto che si era svegliato nella sua branda, si accostò a Caliban, palpandolo dolcemente sul collo e facendosi riconoscere dalla voce. Se avesse avuto l'idea d'insellarlo per calmare gli spiriti in una galoppata al fresco della notte, certo si sarebbe servito del ragazzo. E cominciò a parlargli tale quale come si parla a un cristiano quando si tenta di ragionarlo, prima con parole basse e tranquille, poi con furia alzando la voce, poi di nuovo con le buone e con le carezze. Doveva parlare inglese secondo il suo solito, ma don Nicola che l'inglese lo capisce e bene o male s'ingegna a farsi capire, dal posto dov'era appiattato non riusciva ad afferrare in aria che dei mozziconi di sillabe. Ad un tratto gli abbrancò il muso a Caliban, gliel'abbrancò con tutte due le mani e con la violenza d'un pazzo o d'una bestia feroce: tu la sai la verità! gridava, e questa volta don Nicola poté capirlo benissimo; tu sai la verità, Caliban! e il cavallo nitriva, nitriva sollevando e abbassando la testa e squassando la criniera come per dir sí e rispondere che la verità la sapeva! - Nel tornare al villino dopo piú d'un'ora, i trenta o quaranta passi da percorrere dovettero al signor duca sembrargli il viaggio di Gerusalemme, tanto barcollava sulle gambe. In definitiva, un terremoto senza disastri: l'essere venuto il marito a domandare la verità a Caliban, indizio certo che dalla moglie non l'aveva saputa. - Don Cocò, e adesso? Il meglio sarebbe stato tagliar corto e di sacre cavalcate non parlarne piú fino all'altro inverno, ma di sicuro, cessata la paura effimera della prima sorpresa, quei signori non si sarebbero mai rassegnati all'astinenza e la signora duchessa meno di tutti. Donna di carattere la signora duchessa, incrollabile nelle sue convinzioni religiose, perché queste cerimonie notturne, imparate in Africa o in America che fosse, erano la sua religione e diceva spesso a don Nicola che contenevano grandi misteri simbolici, molto piú grandi di quelli del nostro cattolicismo, e piuttosto di rinunciarvi, cosí fragile com'era da spezzarla in due con un garofano, tutto si sarebbe sentita capace di sacrificare, tutto, anche la vita! Adesso? don Pellegrino era sulle spine: e cosí? tutti erano sulle spine. Pazienza, prudenza, provvidenza, diceva quel vescovo. Parliamo sottovoce. Nella sua pelle, il signor duca non aveva torto: uomo di carattere, e basta; ma in questo momento, a furia di rodersi l'anima nei sospetti e di voler vigilare, il cervello gli bolliva un po' troppo: l'importante era di provvedere alla sua pace e a quella degli altri. Oggi o domani bisognava bene che ripartisse per le sue miniere di Castelvetrano, ad impedirgli l'improvvisata d'un secondo ritorno piú disastroso del primo questa volta ci si sarebbe pensato in tempo, se non altro mutando immediatamente il segnale, e qualora avesse deciso di non muoversi da Palermo e rinunciare pure all'impiego e rimanere in sentinella a scombussolare il prossimo... se avesse voluto persistere nella sua ostinazione... - … ? ...un bicchier d'acqua la mattina, un bicchier d'acqua la sera... - ...Don Cocò!? Parliamo sottovoce.
V
Un fulmine: la duchessa Lascaris è scappata! - A botta calda, nei salotti, nei circoli, in tutta Palermo un grido solo di stupore, piú sbigottito che incredulo. Quando è scappata? dove? con chi? non si sa: è scappata. Maggiori notizie si diffondono, dapprima arruffate nei particolari, contradditorie nelle cause, poi da un'ora all'altra pare che spunti un bandolo dal viluppo, a poco a poco una versione unica si fa largo e i rari increduli piú caparbi, il principe di Mongiardino fra gli altri, finiscono per piegar la testa. Versione semplice e breve, accolta con benevolenza, e massime dalle dame quasi difesa con un certo zelo d'orgoglio per quella sfumatura sottilmente romanzesca che la purifica dalla volgarità d'un fattarello borghese: al Capo, prima del matrimonio coll'ingegnere Lascaris, antico idillio di passione con un ufficiale boero, ferito al petto nella guerra del Transvaal e prigioniero degli inglesi; matrimonio col greco, imposto a forza dai genitori; vita coniugale di qua e di là pel mondo, nello sconforto d'un sogno ucciso, arida d'affetti e di figli; venuta a Palermo del boero, forse in cerca d'un clima miracoloso contro il male lento e terribile che gli rode i polmoni, senza dubbio per non morire prima d'aver raggiunto l'anima della sua anima; ripresa dell'idillio, in segreto, che neppur l'aria sospetta, nuovo divampar della fiamma; infine, ciò che il destino voleva: la fuga. Ecco il romanzo, e l'ultimo capitolo è nelle mani di Dio. Cosí, sepolto lo scandalo assai presto, una dolce figura è sparita. L'infedele che si chiamava duchessa Lascaris ora non è piú che Gladys, vittima della sua costanza, e se ne va sui mari verso un altro sacrifizio, il piú disperato, lasciando nei luoghi del suo soggiorno come una traccia di visione, recando con sé come un'aureola di martirio; se ne va, la piccola Gladys, in veste di suora di carità e in compagnia del suo morente, tra i rimpianti e le assoluzioni. - Dei farisei ce n'è sempre, curvi a raccoglier sassi, pronti a lapidare, e mormorano in sordina che la società giudica senza criterio, per puro impeto di simpatia non sempre legittima allorquando scevera a modo suo, a destra e a sinistra, le agnelle bianche dalle nere, ma essi sono farisei, non concepiscono la grandezza dell'espiazione, tanto meno l'eroismo di certe colpe. D'altronde, se alla piccola Gladys è toccato in sorte d'essere ripartita dall'opinione pubblica nel gregge delle agnelle bianche, ragione di piú perché in tale unanime concordia d'indulgenza il marito trovi un balsamo alla propria angoscia e sappia rassegnarsi al destino, comprendendo che pel suo onore e per la sua dignità assai piú grave sarebbe stata l'offesa se fosse avvenuto in circostanze volgari l'abbandono da parte della moglie; come assai piú ignominiosa la sua sventura se la moglie fosse stata inseguita dal vituperio. E avrebbe anche torto a lagnarsi d'altri che di sé medesimo, poiché, sebbene in generale non gli sieno cessate le benevolenze affettuose che aveva saputo cattivarsi e quasi tutti amici ed amiche, lo compatiscano sinceramente, ora vengono a fior d'acqua non soltanto le sue marachelle, galanti prodezze di società, ma gli squilibri e le violenze del suo carattere, certe vessazioni continue, certe scene intime spaventose di nevrastenia, dalle quali era ineluttabile che un giorno o l'altro la moglie finisse per liberarsi. Egli pure è sparito, o almeno non si lascia vedere; chi lo dice nascosto nel villino dell'Olivuzza, in preda a convulsioni di pianto e di furore, chi a Castelvetrano, chi addirittura in viaggio, sulle peste dei fuggitivi. La verità è che non una finestra del villino Floreal trapela indizio d'abitante, che i famigliari furono tutti licenziati e il cocchiere s'imbarcò per Napoli coi cavalli, forse incaricato di trattarne la vendita; due cavalli da tiro; il terzo, un magnifico morello, prediletto dalla duchessa, l'ingegnere lo freddò, a Castelvetrano pretendono alcuni ma senza dubbio s'ingannano, con un colpo di rivoltella. Sfoghi da manicomio, e perché c'entrasse la povera bestia tutti se lo domandano: sei o sette mila lire bruciate nello scattar del grilletto e molti che la bestia la conoscevano e la valutavano, quasi ogni mattina ammirandola sbuffante e docile sotto il pugno fermo della cavalcatrice, vogliono spiegarsi l'eccidio in un momento folle, però, a prezzo cosí alto, come solo nelle Novelle Arabe il Califfo di Bagdad poteva concederselo ai suoi bei tempi, non lo capiscono piú. Del resto, un Commissario di polizia, certo cavalier Gullifà, il quale si vanta fin troppo e a mezzo mondo ripete dieci volte in un'ora d'essere stato lui per caso a ravvisare la duchessa a bordo, travestita da monaca, sull'atto della fuga coll'amante e si diffonde in un lusso di particolari, per le confidenze avute dal marito stesso non crede che questi abbia idea d'ingigantire lo scandalo, di trascinarlo all'estero né con ridicoli inseguimenti né con processi clamorosi: ciò che è stato è stato, mettiamoci sopra una pietra; vorreste vederlo in lotta contro una donna che ama tuttavia e alla quale ha già perdonato? da che parte sieno i torti il mondo lo grida ai quattro venti, ma non è la voce di Dio; l'ingegnere Lascaris ha la cittadinanza inglese, non ci son figli, e per lui tanto vale oramai agevolare il destino non opponendosi al divorzio, se la signora, come non c'è dubbio, ne farà richiesta ai tribunali del suo paese. La voce del mondo non è la voce di Dio! il Commissario batte specialmente su questo punto.
VI
Don Pellegrino Gullifà, cosa vi è venuto in mente, ora che l'ingegnere Lascaris si è dileguato verso le terre d'Australia e don Nicola Cardamomo nessuno l'ha piú visto a Palermo, quale spirito maligno di suggestione vi ha indotto a rifischiare per filo e per segno nelle orecchie di qualche amico, in grande segretezza, la vostra storia? quella storia che avreste dovuto seppellire nella caverna piú scura dei vostri ricordi? Sono circa duemilasettecento i venerdí bene o male tramontati sul calendario vostro, don Pellegrino, e l'esperienza e la politica del mestiere non vi hanno ancora insegnato che oltre essere elastico secondo le coscienze, l'obbligo del segreto professionale vuol essere piú o meno rispettato secondo il vento che tira? Dio liberi, nessuno degli amici fiatò, persone serie, amici fidati e scrupolosi a metterli sulla graticola, ma i misteri della chiesa di Santa Maria in Gloria cominciarono qua e là a sussurrarsi con quel bisbiglio tra il pauroso e l'incredulo che fomenta la curiosità, le voci si fecero piú ardite, a poco a poco crebbero di numero e d'intonazione, penetrarono nel dominio dello scandalo non ancora pronto allo scoppio, finché un giornale accese la miccia. So bene che a rigore, chiusi gli spettacoli con l'improvvisa scomparsa della duchessa, dal vostro punto di vista il patto del silenzio era sciolto, tanto è vero che premendovi di riparare al ridosso d'ogni burrasca, una diplomatica esposizione dei fatti alle autorità superiori vi sembrò finalmente opportuna e ne riceveste encomio; so bene che cessata nella vostra carne e nel vostro spirito la febbre demoniaca d'ubbriacatura, aperti gli occhi a piú serena coscienza, non tanto vi mosse un impulso pettegolo o vanitoso, come il proposito deliberato di compiere atto di giustizia svelando chi fosse in realtà l'angelo biondo, la mite e buona creatura cosí esaltata dalle simpatie pure nel suo ultimo gesto e cosí rimpianta: errore, don Pellegrino! al vento sotterraneo voi non avete riflettuto, non vi occorse il pensiero di quella turba esotica partecipante ai riti d'Erodiade, gente che non domandava se non d'essere lasciata nelle sue tenebre e quando insieme con la Papessa si vide tratta all'obbrobrio della luce, in mezzo alla stupefazione inorridita, da voi che le eravate complice, il tradimento non ve lo perdonò. Ed ora negli Abruzzi vi godete il fresco dell'Appennino.
Durante l'imperversare d'un subisso di meraviglie e d'indignazione prodotto dallo scoppio della bomba, mentre i giornali sbrigliavano la fantasia a tutta carriera e uno solo, manifestamente imbeccato, si ostinava nella piú scettica incredulità adombrando certe vaghe manipolazioni cattoliche in danno d'una comunione protestante forestiera, a questo giornale facevano spalla le prime lettere anonime piovute negli uffici di Polizia, le quali accusavano senz'altro il cavalier Gullifà d'avere imbastito la calunnia e d'averla propalata a fine religioso, per istigazione dei monaci. Che fosse stato veduto qualche rara volta accompagnare verso sera il ferocissimo frate domenicano suo parente e patrono? Avvisaglie grottesche ma significative d'una lotta che si voleva combattere a carte scure. Piacesse o no questa nuova gatta da pelare, per la soddisfazione del pubblico già troppo eccitato il mistero bisognava finire di sventrarlo, e dopo i valorosi esperimenti condotti a buon punto dal cavalier Gullifà l'incarico non ne poteva essere affidato che a lui. - Ah! questa volta don Pellegrino non si sentiva piú sotto la vigilanza d'un occhio invisibile, nei ceppi d'una potestà invisibile, trascinato da una follia di sacrilegio a rinnegare il suo onore, a manomettere i suoi obblighi, patteggiando e vendendosi: Dio l'aveva liberato col miracolo del terrore; questa volta non era piú come sul principio l'uomo tentennante nel buio, cacciatore tremante di fantasmi: non avesse avuto altro sussidio che il lampione provvistogli per forza da quella schiuma di don Cocò, ne aveva abbastanza per filar dritto all'attacco. Senza incertezze. O polso o niente. Fece abbattere le porte con un fracasso da conquistatore, la chiesa venne perquisita da cima a fondo, elencato e sequestrato l'intero armamentario del cerimoniale, dalle torcie e dai candelabri ai veli delle corifee e alle gualdrappe dei cavalli; scovò mozzi di stalla e meccanici d'automobile, facchini, cocchieri, servitori avventizi, cameriere d'albergo, mediatrici galanti, ragazze sensibili a tutte le offerte, insomma quanti d'una maniera o dell'altra sospettava nel giro; interrogò, mise a verbale; specie con le donne gli toccò giuocare una partita d'astuzia e di minaccia, lui che sapeva dove fossero reclutate le danzatrici, esse, pudibonde, che perfidiavano nel silenzio; in ultimo, sotto le tanaglie, fra dente o ganascia, anche le piú proterve si arresero allo strappo del dente. - Carta canta, signori: coloro che sbraitavano d'una turpe commedia montata dai clericali di balla con Tizio e Sempronio, avrebbero visto se per calare il sipario bastava che i grossi personaggi si fossero squagliati a tempo; carta canta e i processi verbali stavano aperti sulla tavola: nomi, cognomi, titoli, e che nomi e che titoli! a prova della verità, a edificazione del pubblico. Precisamente questo era il colpo gobbo e piú da temere, che se li avesse raggiunti a casa loro, nei loro paesi dove primeggiavano dalla loro altezza, parecchi dei grossi personaggi ne sarebbero stati travolti in una rovina irremissibile; questo il pericolo che essi e i loro fedeli aiutanti erano risoluti di scongiurare con ogni mezzo e a qualunque patto. Per impedire la rivelazione dei nomi non rimaneva altro scampo che mutar tattica, distogliere la curiosità e fuorviare l'inchiesta, giovandosi d'un cadavere. I dubbi già espressi in forma sibillina dall'organo ufficioso che la duchessa Lascaris non fosse fuggita mai da Palermo, e i punti interrogativi ed esclamativi circa il luogo dov'ella si celava, dai piú non erano stati afferrati; subito dopo, ai sordi ronzii terra terra che sogliono precorrere la vampata incendiaria, i piú crollarono il capo e ghignarono, stufi di tante sorprese che attorno a quel nome venivano succedendosi, e lo stesso annuncio, terribile, d'una morte violenta, meravigliosamente occultata dalla diceria della fuga, apparve a tutti cosí enorme che ci si volle scorgere il tentativo supremo di salvataggio della non piú illibata colomba; ma ciò malgrado, si sentiva qualche cosa nell'aria, gli occhi s'interrogavano, come se il volo errante dello spettro la facesse rabbrividire. Le lettere anonime intanto, da Londra e dalle maggiori città del nord, tempestavano la Prefettura e la Procura generale, tutte scritte a macchina, quasi tutte in francese, denuncianti l'assassinio premeditato della duchessa ad opera del marito pazzo e geloso, concordi nell'accanimento di dare addosso al commissario Gullifà piuttosto che all'assassino. Chiedevano le meno curiose e le meno esplicite: perché l'agente di polizia, incaricato dell'inchiesta e di perquisire il vecchio tempio dei Cavalieri, si guardò bene lui e i suoi uomini dal discendere nei sotterranei, dove a prima vista avrebbe rinvenuto e sequestrato ai fini della giustizia un corpo di reato assai piú importante d'un braciere e di quattro moccoli? Ed altre, sorvolando sui particolari, chiedevano poi a loro volta: perché, in qual veste, il cavalier Gullifà si trovò presente al delitto? perché non seppe impedirlo o almeno trarre in arresto il colpevole? perché neppure lo denunziò, e invece tutti i suoi pensieri, tutti i suoi sforzi, tutta la sua scaltrezza rivolse non solo a nascondere l'avvenimento di sangue, ma con una menzogna creata dal suo genio, da lui propagata, a mascherare d'ogni plausibile verosimiglianza la scomparsa della vittima? Fu allora che da inquisitore divenuto inquisito, don Pellegrino si vide in male acque, nell'attitudine di picchiarsi forte lo stomaco, raccomandandosi: confiteor; e fu allora che per un pelo non rischiò il ponte dei sospiri con un processo alle costole o quanto meno con un regio decreto di collocamento sul lastrico, lui e la famiglia. Confiteor, confiteor: il Governo ha viscere di misericordia, massime se qualche santo interviene tra il fosco e il chiaro, e per tutta punizione si limitò a ordinargli l'aria degli Abruzzi, ma in sostanza ciò ch'egli aveva omesso di denunciare - nient'altro, secondo lui, che per quella prudenza imposta nei casi estremi da un'estrema necessità - in sostanza non era un reato, ne possedeva lampanti le prove, ne chiamava testimoni oculari le ballerine egli stallieri, e l'Art. 180 del Codice penale è tassativo, non ammette interpretazioni arbitrarie, punisce l'ufficiale pubblico che tenga nascosto un reato. Umanamente parlando, cosí avesse voluto Iddio che un reato fosse stato commesso! il suo dovere Pellegrino Gullifà avrebbe saputo compierlo sino alla fine, anche questa volta come sempre, senza paure e senza riguardi. Lo accusavano d'aver venduto il suo silenzio a un marito omicida? i suoi accusatori sapevano la verità non meno di lui, essi, i primi a tremare sotto la minaccia delle conseguenze, i primi ad affannarsi disperati, brancicando tra le calunnie e il romanzo per seppellirla; quella notte, dinanzi a quella verità che ora impugnavano, li aveva visti esterrefatti dallo spavento, e piú d'uno cadere in deliquio; c'erano dei giovani tra essi, e a piú d'uno, quando s'imbarcò, i capelli erano divenuti grigi. Quella notte! - È l'ora, è l'ora. I cavalli si slanciano, dapprima serrate le groppe l'uno contro l'altro, poi nel crescente galoppo distaccandosi, inseguendosi, aizzati dalle femmine che li inforcano, la duchessa alla testa, e dal gridar dei presenti. La folla irrompe come un mare in burrasca. Urlate, urlate, figliuoli di Satanasso! I cavalli passano, volano, ripassano. In mezzo agli energumeni anche lui, spinto, respinto, giocando di braccia per farsi largo, don Pellegrino aguzza gli occhi, ma nei rapidi giri colei che stava alla testa non si discerne piú dalle compagne ed egli non vede piú che dei corpi: di tratto in tratto un baleno bianco ad ogni baleno del loro passaggio. Pochi istanti. La corsa va rallentando. - Don Cocò! don Cocò avete visto? una signora è precipitata da cavallo! - Don Cocò non ha visto. Un momento la corsa pare che s'intralci e si avviluppi come fermata da un ostacolo: subito però ripiglia piú vertiginosa di prima. Volano i cavalli e voliamo con essi. Che allucinazione è questa? il terreno traballa, il terreno ci manca, si sprofonda sotto i nostri piedi. Precipitiamo o noi pure siamo travolti in aria dalla vertigine della fuga? Fuga nelle tenebre: le torcie si sono spente in un soffio. Dove siamo? cos'è questo vento freddo che ci sferza e ci tronca il respiro? questo vento che ci porta via? Ci porta via, don Pellegrino sente d'esser portato via dalla raffica inesorabile, non lui solo, tutti insieme, nello stordimento d'un rombo cupo. I vicini lo afferrano, gli si aggrappano addosso, per istinto si aggrappa anche lui a qualcuno, le loro mani son morse di tanaglia come le mani dei naufraghi. - Un lampo! nell'attimo di bagliore l'immensità. Dove siamo? Il cielo e la campagna sterminata. Gesú, misericordia di noi! Un altro lampo, un altro, un altro. Non guizzi di folgore all'orizzonte, ma sprazzi di fiamma che scendono in valanga dal cielo, una luce terribile, infinita, che ci avvolge tutti e illumina tutto. File d'alberi, gruppi di case, torrenti, vallate, colline, monti, lontananze. È il campanile d'Alcamo che abbiamo visto là in cima? Dura piú ogni lampo dell'intervallo tra un lampo e l'altro. Partanna! Gibellina! Ad ogni attimo nuovi monti che fuggono, borghi che s'inabissano. Terra di Sicilia, fermati, misericordia di noi! La rapidità delle luci arroventa cavalli e cavalcatrici galoppanti con noi all'abisso in un medesimo vortice. Ed ecco il morello che ha sbalzato la donna, eccolo criniera al vento, furibondo d'essersi attardato alla mossa, raggiungere il branco e superarlo. Caliban! Caliban! Cos'è che gli ciondola dai denti egli sballotta tra le gambe e gli sbatte i fianchi? Le luci non sono piú cosí chiare. Una testa troncata!? La testa troncata e boccheggiante della donna gli pende pei capelli dai denti! È già passato. D'improvviso tutte le luci si estinguono per l'eternità.
Non è vero niente. I beffardi si rallegrano coi nuovissimi Lazzari del loro buon ritorno dai regni scuri; secondo la gente seria si produsse in noi un volgare fenomeno d'allucinazione istantanea e collettiva: non abbiamo fatto che chiudere gli occhi e riaprirli, quella che a noi parve un'eternità d'angoscia indicibile nel viaggio della morte non fu che un batter di palpebra. Siamo intesi, non è vero niente, ossia, raccolte dall'autorità giudiziaria le testimonianze degli stallieri e delle ragazze corifee, c'è soltanto questo di vero: il corpo della duchessa Lascaris giacente sotto la balaustra, dilaniato, decapitato! Atroce spettacolo, ma vacillando ancora, non bene ancora usciti dal sortilegio, cosí immanente abbiamo negli occhi la visione di quella testa squassata ai ludibri del turbine e nelle ossa il terrore d'averne riconosciuto il volto, che la realtà del cadavere ci appare come se già la sapessimo. Caliban! Caliban! A zigzag un solco di sangue percorre la navata dal fondo alla balaustra, qui una pozza di sangue vivo gorgoglia, sommerge quasi interamente il tronco, le cui arterie dovrebbero non contener piú sangue e ne versano a fiotti, ne versano sempre. È Caliban che ha trascinato fin qui la sua vittima e ne ha fatto scempio rompendole il petto coi suoi zocchi di ferro; belva o demonio, che si è accanito a morderle il collo, a recidere tegumenti e vertebre, a lacerare, squarciare, strappare, finché la testa non gli rimase ai denti per portarla via. Scomparsa. A chi l'abbia recata, pegno o trofeo di una promessa adempiuta, da un mare all'altro varcando la Sicilia in un lampo, indovinatelo: per esilararvi, avrete scoperto il nostro segreto di Pulcinella. - Dov'è Caliban? Fra le strida, i gemiti e le convulsioni, in mezzo al tumulto delle impennate e al parapiglia dei fuggenti, l'imperturbabile don Cocò si affanna a cercarlo: non lo trova; piú tardi, lo cercano tutti: niente; è fuggito, o piuttosto non è tornato.
Impossibile addivenire alla perizia necroscopica del cadavere, ridotto a una poltiglia nera, esecranda; si constatò tuttavia la separazione del capo dal busto e disotterrata a Castelvetrano, nell'orto delle officine, la carcassa della mala bestia, si rinvenne tra i denti un groviglio di capelli biondi. |
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