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Battista Guarini Il pastor fido IntraText CT - Lettura del testo |
Titiro, Montano.
[Tit.] |
Vagliami il ver, Montano: i' sò che parlo A chi di me più intende, oscuri sempre Sono assai più gli oracoli di quello Ch'altri si crede, e le parole loro Sono come il coltel, che, se tu 'l prendi In quella parte ove per uso humano La man s'adatta, à chi l'adopra è buono; Ma chi 'l prende ove fere, è spesso morte. Ch'Amarillide mia, come argomenti, Sia per alto destin dal cielo eletta A la salute universal d'Arcadia, Chi più deve bramarlo e caro haverlo Di me, che le son padre? Ma, s'i' miro A quel che n'ha l'oracolo predetto, Mal si confanno à la speranza i segni. S'unir li deve Amor, come fia questo, Se fugge l'un? com'esser pon gli stami D'amoroso ritegno odio e disprezzo? Mal si contrasta quel ch'ordina il cielo; E se pur si contrasta, è chiaro segno Che non l'ordina il cielo, à cui, se pure Piacesse ch'Amarillide consorte Fosse di Silvio tuo, più tosto amante Lui fatto havria che cacciator di fere. |
Mon. |
Non vedi tu com'è fanciullo? ancora Non ha fornito il diciottesim'anno. Ben sentirà col tempo anch'egli amore. |
Tit. |
E 'l può sentir di fera e non di Ninfa? |
Mon. |
A giovinetto cor più si conface. |
Tit. |
E non amor, ch'è naturale affetto? |
Mon. |
Ma senza gli anni è natural difetto. |
Tit. |
Sempre e' fiorisce alla stagion più verde. |
Mon. |
Può ben, forse, fiorir, ma senza frutto. |
Tit. |
Col fior, maturo hà sempre il frutto amore. Qui non venn'io nè per garrir, Montano, Nè per contender teco, che nè posso Nè fare il debbo; ma son padre anch'io D'unica e cara e, se mi lece dirlo, Meritevole figlia e, con tua pace, Da molti chiesta e desiata ancora. |
Mon. |
Titiro, ancor che queste nozze in cielo Non iscorgesse alto destìn, le scorge La fede in terra, e 'l violarla fora Un violar de la gran Cintia il nume A cui fù data; e tu sai pur quant'ella È disdegnosa e contra noi sdegnata. Ma, per quel ch'i' ne sento e quanto puote Mente sacerdotal rapita al cielo Spiar là su di que' consigli eterni, Per man del fato è questo nodo ordito; E tutti sortiranno (abbi pur fede) A suo tempo maturi anco i presagi. Più ti vò dir, che questa notte in sogno Veduto hò cosa onde l'antica speme Più che mai nel mio cor si rinnovella. |
Tit. |
Son i sogni alfin sogni, e che vedesti? |
Mon. |
Io credo ben ch'abbi memoria (e quale Sì stupido è tra noi ch'hoggi non l'habbia?) Di quella notte lagrimosa, quando Il tumido Ladon ruppe le sponde, Sì che là dove avean gli augelli il nido, Notaro i pesci, e in un medesmo corso Gli huomini e gli animali E le mandre e gli armenti Trasse l'onda rapace. In quella stessa notte (O dolente memoria) il cor perdei, Anzi quel che del core M'era più caro assai, Bambin tenero in fasce, Unico figlio allora, e da me sempre E vivo e morto unicamente amato. Rapillo il fier torrente Prima che noi potessimo sepolti Nel terror, ne le tenebre, e nel sonno, Provar di dargli alcun soccorso à tempo; Ne pur la culla stessa, in cui giacea, Trovar potemmo, ed hò creduto sempre Che la culla e 'l bambin, così com'era, Una stessa voragine inghiottisse. |
Tit. |
Che altro si può credere? ben parmi D'haver inteso ancora, e da te forse, Di questa tua sciagura, veramente Sciagura memorabile, ed acerba, E puoi ben dir che di duo figli, l'uno Generasti à le selve e l'altro à l'onde. |
Mon. |
Forse nel vivo il ciel pietoso ancora Ristorerà la perdita del morto. Sperar ben si dè sempre. Or tu m'ascolta. Era quell'ora à punto Che, tra la notte e 'l dì, tenebre e lume Col fosco raggio ancor l'alba confonde; Quand'io, pur nel pensiero Di queste nozze avendo Vegghiata una gran parte della notte, Alfin lunga stanchezza Recò negli occhi miei placido sonno, E con quel sonno vision sì certa, Ch'avrei potuto dir dormendo i' veggio Sopra la riva del famoso Alfeo Seder pareami à l'ombra D'un platano frondoso, E con l'hamo tentar ne l'onda i pesci, Ed uscire in quel punto Di mezzo 'l fiume un vecchio ignudo e grave, Tutto stillante il crin, stillante il mento, E con ambe le mani Benignamente porgermi un bambino Ignudo e lagrimoso, Dicendo, ecco 'l tuo figlio; Guarda che non l'ancidi, E, questo detto, tuffarsi ne l'onde. Indi tutto repente Di foschi nembi il ciel turbarsi intorno E minacciarmi orribile procella; Tal ch'io per la paura Strinsi il bambino al seno, Gridando, ah dunque un'hora Mel dona e mel ritoglie?. Ed in quel punto parve Che d'ogn'intorno il ciel si serenasse, E cadesser nel fiume Fulmini inceneriti Ed archi e strali rotti à mille à mille; Indi tremasse il tronco Del Platano e n'uscisse, Formato in voce, spirito sottile Che stridendo dicesse in sua favella: Montano, Arcadia tua sarà ancor bella. E così m'è rimaso Nel cor, ne gli occhi e ne la mente impressa L'imagine gentil di questo sogno, Ch'i' l'hò sempre dinanzi; E sopra tutto il volto Di quel cortese veglio, Che mi par di vederlo. Per questo i' men venìa diritto al Tempio, Quando tu m'incontrasti, Per quivi far col sacrificio santo De la mia vision l'augurio certo. |
Tit. |
Son veramente i sogni De le nostre speranze, Più che de l'avvenir, vane sembianze; Imagini del dì guaste e corrotte Da l'ombra de la notte. |
Mon. |
Non è sempre co' sensi L'anima addormentata; Anzi tanto è più desta, Quanto men traviata Da le fallaci forme Del senso, allor che dorme. |
Tit. |
Insomma, quel che s'habbia il ciel disposto De nostri figli, è troppo incerto à noi; Ma certo è ben che 'l tuo sen fugge e contra La legge di natura amor non sente; E che la mia fin quì l'obbligo solo Ha de la data fè, non la mercede. Nè sò già dir, se senta amor, so bene Ch'a molti il fa sentire, Nè possibil mi par ch'ella nol provi, Se 'l fa provar altrui. Ben mi par di vederla Più de l'usato suo cangiata in vista, Che ridente e festosa Già tutta esser solea. Ma l'invaghir donzella Senza nozze à le nozze, è grave offesa. Come in vago giardin rosa gentile, Che ne le verdi sue tenere spoglie Pur dianzi era rinchiusa; E sotto l'ombra del notturno velo Incolta e sconosciuta Stava posando in sul materno stelo, Al subito apparir del primo raggio Che spunti in Oriente, Si desta e si risente E scopre al sol, che la vagheggia e mira, Il suo vermiglio ed odorato seno, Dov'Ape, susurrando, Ne i mattutini albori Vola suggendo i ruggiadosi humori; Ma, s'alhor non si coglie, Sì che del mezzo dì senta le fiamme, Cade al cader del sole Sì scolorita in su la siepe ombrosa, Ch'a pena si può dir questa fù rosa Così la verginella, Mentre cura materna La custodisce e chiude, Chiude anch'ella il suo petto A l'amoroso affetto; Ma se lascivo sguardo Di cupido amator vien che la miri, E n'oda ella i sospiri, Gli apre subito il core E nel tenero sen riceve amore; E se vergogna il cela O temenza l'affrena, La misera, tacendo, Per soverchio desio tutta si strugge. Così manca beltà, se 'l foco dura, E, perdendo stagion, perde ventura. |
Mon. |
Titiro, fa buon core; Non t'avvilir ne le temenze umane, Che bene inspira il cielo Quel cor che bene spera; Nè può giunger la sù fiacca preghiera. E, s'ognun dè pregare Ove 'l bisogno sia E sperar negli Dei, Quanto più ciò conviene A chi da lor deriva; Son pure i nostri figli Propagini celesti Non spegnerà il suo seme Chi fa crescer l'altrui. Andiam, Titiro, andiamo Unitamente al Tempio, e sacreremo, Tu il capro à Pan ed io Ad Hercole il torello. Chi feconda l'armento, Feconderà ben'anco Colui che con l'armento Feconda i sacri altari. Tu và fido Dameta: Scegli tosto un torello, Di quanti n'habbia la feconda mandra Il più morbido e bello, E per la via del monte assai più breve Fa ch'io l'habbia nel Tempio, ov'io t'attendo. |
Tit. |
E da la greggia mia, caro Dameta, Conduci un'hirco. Da. I farò l'uno, e l'altro. Questo sogno Montano Piaccia à l'alta bontà de i sommi Dei Che fortunato sia quanto tu speri. Sò ben io, sò ben io Quant'esser può del tuo perduto figlio La rimembranza à te felice augurio. |