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Battista Guarini
Il pastor fido

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SCENA V.

 

Satiro.

 

Come il gelo à le piante, à i fior l'arsura,

La grandine à le spiche, à i semi il verme,

Le reti à i cervi ed agli augelli il visco,

Così nemico à l'uom fù sempre Amore.

E chi fuoco chiamollo, intese molto

La sua natura perfida e malvagia,

Che, se 'l foco si mira, oh come è vago

Ma, se si tocca, ò come è crudo: il mondo

Non ha di lui più spaventevol mostro.

Come fera divora e come ferro

Pugne e trapassa, e come vento vola;

E dove il piede imperioso ferma,

Cede ogni forza, ogni poter dà loco.

Non altrimenti Amor: che, se tu 'l miri

In duo begl'occhi, in una treccia bionda,

O come alletta, e piace; ò come pare

Che gioia spiri, e pace altrui prometta

Ma, se troppo t'accosti e troppo il tenti,

Sì che serper cominci e forza acquisti,

Non ha tigre l'Hircania & non ha Libia

Leon sì fiero e sì pestifero angue,

Che la sua ferità vinca ò pareggi.

Crudo più che l'inferno, e che la morte,

Nemico di pietà, ministro d'ira,

È finalmente Amor privo d'amore.

Ma che parlo di lui? perche l'incolpo?

È forse egli cagion di ciò che 'l mondo,

Amando no, ma vaneggiando, pecca?

O femminil perfidia, à te si rechi

La cagion pur d'ogni amorosa infamia;

Da te sola deriva, e non da lui,

Quanto ha di crudo e di malvagio Amore,

Che 'n sua natura placido e benigno,

Teco ogni sua bontà subito perde.

Tutte le vie di penetrar nel seno

E di passar al cor tosto gli chiudi,

Sol di fuor il lusinghi, e fai suo nido

E tua cura e tua pompa e tuo diletto

La scorza sol d'un miniato volto.

Nè già son l'opre tue gradir con fede

La fede di chi t'ama, e con chi t'ama

Contender ne l'amare, ed in duo petti

Stringer un core e 'n duo voleri un'alma;

Ma tinger d'oro un'insensata chioma,

E d'una parte in mille nodi attorta,

Infrascarne la fronte; indi con l'altra,

Tessuta in rete e 'n quelle frasche involta,

Prender'il cor di mille incauti amanti.

O come è indegna e stomachevol cosa

Il vederti tal'hor con un pennello

Pinger le guance ed occultar le mende

Di natura, e del tempo, e veder come

Il livido pallor fai parer d'ostro,

Le rughe appiani, e 'l bruno imbianchi e togli

Col difetto il difetto, anzi l'accresci

Spesso un filo incrocicchi, e l'un de capi

Co denti afferri, e con la man sinistra

L'altro sostieni, e del corrente nodo

Con la destra fai giro, e l'apri e stringi

Quasi radente forfice, e l'adatti

Su l'inegual lanuginosa fronte,

Indi radi ogni piuma, e svelli insieme

Il mal crescente e temerario pelo

Con tal dolor, ch'è penitenza il fallo:

Ma questo è nulla, ancor che tanto, à l'opre,

Sono i costumi somiglianti e i vezzi.

Qual cosa hai tu, che non sia tutta finta?

S'apri la bocca, menti, e se sospiri,

Son mentiti i sospir; se muovi gli occhi,

È simulato il guardo. In somma ogn'atto,

Ogni sembiante, e ciò che in te si vede

E ciò che non si vede, ò parli ò pensi

O vadi ò miri ò pianga ò rida ò canti,

Tutto è menzogna, e questo ancora è poco.

Ingannar più chi più si fida, e meno

Amar chi più n'è degno, odiar la fede

Più della morte assai, queste son l'arti

Che fan sì crudo, e sì perverso Amore.

Dunque d'ogni suo fallo è tua la colpa,

Anzi pur ella è sol di chi ti crede.

Dunque la colpa è mia, che ti credei

Malvaggia e perfidissima Corisca,

Qui per mio danno sol, cred'io, venuta,

Da le contrade scelerate d'Argo,

Ove lussuria fa l'ultima prova:

Ma sì ben figni e sì sagace e scorta

Sè nel celar altrui l'opre e i pensieri;

Che trà le più pudiche hoggi tèn vai,

Del nome indegno d'honestate altera.

Oh quanti affanni hò sostenuti, oh quante,

Per questa cruda, indignità sofferte

Ben me ne pento, anzi vergogno, impara

Da le mie pene, ò mal'accorto amante:

Non far idolo un volto, ed à me credi:

Donna adorata un nume è de l'inferno.

Di se tutto presume, e del suo volto

Sovra te che l'inchini, e, quasi Dea,

Come cosa mortal ti sdegna e schiva,

Che d'esser tal per suo valor si vanta

Qual tu per tua viltà la fingi ed orni.

Che tanta servitù? che tanti preghi,

Tanti pianti e sospiri? Usin quest'armi

Le femmine e i fanciulli, e i nostri petti

Sien'anche ne l'amar virili, e forti.

Un tempo anch'io credei che sospirando

E piangendo e pregando in cor di donna

Si potesse destar fiamma d'amore.

Hor me n'avveggio, errai, che, s'ella il core

Ha di duro macigno, indarno tenti

Che per lagrima molle ò lieve fiato

Di sospir che 'l lusinghi, arda ò sfaville,

Se rigido focil no'l batte ò sferza.

Lascia, lascia le lagrime, e i sospiri,

S'acquisto far de la tua donna vuoi;

E s'ardi pur d'inestinguibil foco,

Nel centro del tuo cor quanto più sai

Chiudi l'affetto, e poi, secondo il tempo

Fà quel ch'Amore e la natura insegna.

Però che la modestia è nel sembiante

Sol virtù de la donna, e però seco

Il trattar con modestia è gran difetto;

Ed ella, che sì ben con altrui l'usa,

Seco usata, l'ha in odio, e vuol che 'n lei

La miri sì, ma non l'adopri il vago.

Con questa legge naturale e dritta,

Se farai per mio senno amerai sempre.

Me non vedrà, nè proverà Corisca

Mai più tenero amante, anzi più tosto

Fiero nemico, e sentirà con armi

Non di femmina più, ma d'huom virile,

Assalirsi e trafiggersi: Due volte

L'hò presa già questa malvagia, e sempre

M'è, (non sò come) da le mani uscita;

Ma, s'ella giunge anco la terza al varco,

Hò ben pensato d'afferrarla in guisa

Che non potrà fuggirmi, à punto suole

Tra queste selve capitar sovente;

Ed io vò pur, come sagace veltro,

Fiutandola per tutto. O qual vendetta

Ne vo far, se la prendo, e quale strazio

Ben le farò veder che tal'hor anco

Chi fù cieco, apre gli occhi, e che gran tempo

De le perfidie sue non si dà vanto

Femmina ingannatrice e senza fede.

CHORO

O nel seno di Giove alta, e possente

Legge scritta, anzi nata;

La cui soave, ed amorosa forza

Verso quel ben che, non inteso, sente

Ogni cosa creata,

Gli animi inchina e la natura sforza.

Nè pur la frale scorza,

Che 'l senso à pena vede, e nasce e more

Al variar de l'hore;

Ma i semi occulti e la cagion interna,

Ch'è d'eterno valor, move, e governa.

E, se gravido è il mondo e tante belle

Sue maraviglie forma;

E se per entro à quanto scalda il Sole,

A l'ampia luna, à le Titanie stelle,

Vive spirto che 'nforma

Col suo maschio valor l'immensa mole;

S'indi l'humana prole

Sorge, e le piante e gli animali han vita;

Se la terra è fiorita

O se canuta ha la rugosa fronte,

Vien dal tuo vivo e sempiterno fonte.

Nè questo pur, ma ciò che vaga spera

Versa sopra i mortali,

Onde quà giù di ria ventura ò lieta

Stella s'addita, or mansueta or fera,

Ond'han le vite frali

Del nascer l'ora e del morir la meta:

Ciò che fà vaga ò queta

Ne' suoi torbidi affetti humana voglia,

E par che doni e toglia

Fortuna, e 'l mondo vuol ch'à lei s'ascriva:

Dall'alto tuo vàlor tutto deriva.

O detto inevitabile e verace,

Se pur è tuo concetto

Che dopo tanti affanni un dì riposi

L'arcada terra ed habbia vita e pace;

Se quel che n'hai predetto

Per bocca degli oracoli famosi,

De' duo fatali sposi,

Pur da te viene, e 'n quello eterno abisso

L'hai stabilito, e fisso;

E se la voce lor non è bugiarda,

Deh chi l'effetto al voler tuo ritarda?

Ecco, d'amore e di pietà nemico,

Garzon aspro, e crudele,

Che vien dal cielo e pur col ciel contende;

Ecco poi chi combatte un cor pudico,

Amante in van fedele,

Che 'l tuo voler con le sue fiamme offende,

E quanto meno attende

Pietà del pianto e del servir mercede,

Tant'ha più foco, e fede;

Ed è pur quella à lui fatal bellezza,

Ch'è destinata à chi la fugge, e sprezza.

Così dunque in se stessa è pur divisa

Quell'eterna possanza?

E così l'un destin con l'altro giostra?

O, non ben forse ancor doma, e conquisa,

Folle humana speranza

Di porre assedio à la superna chiostra,

Rubella al ciel si mostra,

Ed arma, quasi nuovi empi giganti,

Amanti, e non amanti?

Qui si può tanto? e di stellato regno

Trionferan duo ciechi Amore, e Sdegno?

Ma tu che stai sovra le stelle e 'l fato,

E con saver divino

Indi ne reggi, alto motor del cielo,

Mira, ti prego il nostro dubbio stato;

Accorda col destino

Amor, e Sdegno, e con paterno zelo

Tempra la fiamma e 'l gelo:

Chi dè goder, non fugga e non disami;

Chi dè fuggir, non ami.

Deh fa che l'empia e cieca voglia altrui

La promessa pietà non tolga à nui.

Ma chi sa? forse quella,

Che pare inevitabile sciagura,

Sarà lieta ventura.

Oh quanto poco humana mente sale,

Che non s'affisa al sol vista mortale.

 

 

Il fine del Primo Atto


 




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