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Battista Guarini Il pastor fido IntraText CT - Lettura del testo |
ATTO SECONDO
Ergasto, Mirtillo.
[Erg.] |
O quanti passi hò fatti, al fiume, al poggio, Al prato, al fonte, à la palestra, al corso T'hò lungamente ricercato: al fine Qui pur ti trovo, e ne ringratio il cielo. |
Mir. |
Ond'hai tu nuova, Ergasto, Degna di tanta fretta? hai vita, ò morte? |
Erg. |
Questa non ti darei, ben ch'io l'havessi; E quella spero dar, ben ch'io non l'habbia. Ma tu non ti lasciar sì fieramente Vincer al tuo dolor, vinci te stesso, Se vuoi vincer altrui: vivi, e respira Tal volta: ma, per dirti la cagione Del mio venir à te sì ratto, ascolta. Conosci tu (ma chi non la conosce?) La sorella d'Ormino? è di persona Anzi grande che no; di vista allegra, Di bionda chioma, e colorita alquanto. |
Mir. |
Com'ha nome? Mir. Corisca. Erg. I' la conosco Troppo bene, e con lei alcuna volta Hò favellato ancora. Er. Hor sappi ch'ella Da un tempo in qua (vedi ventura) è fatta, Non so già come ò con che privilegio, De la bella Amarillide compagna, Onde à lei tutto hò l'amor tuo scoperto Segretamente e quel che da lei brami, Holle mostrato, ed ella prontamente M'ha la sua fede in ciò promessa e l'opra. |
Mir. |
Oh mille volte e mille, Se questo è vero, e più d'ogn'altro amante Fortunato Mirtillo Ma del modo T'ha ella detto nulla? Er. A punto nulla, E ti dirò perche, dice Corisca Che non può ben deliberar del modo, Prima ch'alcuna cosa ella non sappia De l'amor tuo più certa, ond'ella possa Meglio spiare e più sicuramente L'animo de la ninfa, e sappia come Reggersi, ò con preghiere ò con inganni, Quel che tentar, quel che lasciar sia buono. Per questo solo i' ti venìa cercando Sì ratto, e sarà ben che tu da capo Tutta la storia del tuo amor mi narri. |
Mir. |
Così à punto farò; ma sappi Ergasto, Che questa rimembranza (Ah, troppo acerba à chi si vive amando Fuori d'ogni speranza) È quasi un'agittar fiaccola al vento, Per cui, quanto l'incendio Sempre s'avanza, tanto A l'agittata fiamma ella si strugge, O scoter pungentissima saetta Altamente confitta; Che, se senti di svellerla, maggiore Fai la piaga e 'l dolore. Ben cosa ti dirò, che chiaramente Farà veder com'è fallace e vana La speme degli amanti e come amore La radice ha soave, il frutto amaro. Ne la bella stagion che 'l dì s'avanza Sovra la notte (hor compie l'anno à punto) Questa leggiadra pellegrina, questo Novo sol di beltade, Venne à far di sua vista, Quasi d'un'altra Primavera, adorno Il mio solo per lei leggiadro allora E fortunato nido, Elide e Pisa, Condotta da la madre In que' solenni dì che del gran Giove I sacrifici e i giochi Si soglion celebrar, famosi tanto, Per farne à suoi begli occhi Spettacolo beato: Ma furon que' begli occhi Spettacolo d'Amore D'ogn'altro assai maggiore. Ond'io, che fin allor fiamma amorosa Non havea più sentita, Oime non così tosto Mirato hebbi quel volto, Che di subito n'arsi, E senza far difesa al primo sguardo Che mi drizzò negli occhi, Sentii correr nel seno Una bellezza imperiosa e dirmi: Dammi il tuo cor Mirtillo. |
Erg. |
Oh quanto può ne' petti nostri Amore Nè ben il può saper se non chi 'l prova. |
Mir. |
Mira ciò che sà fare anco ne' petti Più semplici e più molli Amore industre. Io fo del mio pensiero una mia cara Sorella consapevole, compagna De la mia cruda ninfa Que' pochi dì ch'Elide l'ebbe e Pisa. Da questa sola, come Amor m'insegna, Fedel consiglio ed amoroso aiuto Nel mio bisogno i prendo. Ella de le sue gonne femminili Vagamente m'adorna E d'innestato crin cinge le tempie; Poi le 'ntreccia e le 'nfiora, E l'arco e la faretra Al fianco mi sospende; E m'insegna à mentir parole e sguardi, E sembianti nel volto, in cui non era Di lanugine ancora Pur un vestigio solo. E, quando hora ne fue, Seco là mi condusse, ove solea La bella ninfa diportarsi, e dove Trovammo alcune nobili, e leggiadre Vergini di Megara, E di sangue, e d'amor, si come intesi, A la mia Dea congiunte. Tra queste ella si stava Sì come suol tra le violette umìli Nobilissima rosa; E, poi che 'n quella guisa State furono alquanto, Senz'altro far di più diletto ò cura, Levossi una donzella Di quelle di Megara, e così disse: Dunque in tempo di giochi E di palme sì chiare e sì famose, Starem noi neghitose? Dunque non habbiam noi Armi da far tra noi finte contese Così ben come gl'huomini? Sorelle, Se 'l mio consiglio di seguir v'aggrada, Proviam hoggi tra noi così da scherzo Noi le nostr'armi, come Contra gli huomini, all'hor che ne fie tempo, L'userem da dovero. Bacianne, e si contenda Tra noi di baci; e quella, che d'ogn'altra Baciatrice più scaltra, Li saprà dar più saporiti, e cari, N'avrà per sua vittoria Questa bella ghirlanda Risero tutte à la proposta e tutte Subito s'accordaro, E si sfidavan molte, e molte ancora, Senza che dato lor fosse alcun segno, Facean guerra confusa. Il che veggendo allor la Megarese, Ordinò prima la tenzone e poi Disse de' nostri baci Meritamente sia giudice quella Che la bocca ha più bella Tutte concordemente Elesser la bellissima Amarilli; Ed ella, i suoi begli occhi Dolcemente chinando, Di modesto rossor tutta si tinse, E mostrò ben che non men bella è dentro, Di quel che sia di fuori; O fosse che 'l bel volto Havesse invidia à l'honorata bocca E s'adornasse anch'egli De la purpurea sua pomposa vesta, Quasi volesse dir, son bello anch'io |
Erg. |
Oh come à tempo ti cangiasti in ninfa, Avventuroso, e quasi De le dolcezze tue presago amante |
Mir. |
Già si sedeva all'amoroso ufficio La bellissima giudice, e secondo L'ordine e l'uso di Megara, andava Ciascheduna per sorte A far de la sua bocca e de' suoi baci Prova con quel bellissimo e divino Paragon di dolcezza, Quella bocca beata, Quella bocca gentil, che può ben dirsi Conca d'Indo odorata Di perle orientali e pellegrine; E la parte che chiude Ed apre il bel tesoro, Con dolcissimo mel purpura mista. Così potess'io dirti, Ergasto mio, L'ineffabil dolcezza Ch'i' sentij nel baciarla Ma tu da questo prendine argomento, Che non la può ridir la bocca stessa Che l'ha provata. Accogli pur insieme Quant'hanno in sè di dolce O le canne di Cipro ò i favi d'Hibla; Tutto è nulla rispetto A la soavità ch'indi gustai. |
Erg. |
Oh furto avventuroso, oh dolci baci |
Mir. |
Dolci sì, ma non grati, Perche mancava lor la miglior parte De l'intero diletto: Davagli Amor, non gli rendeva Amore. |
Erg. |
Ma dimmi: e come ti sentisti allora Che di bacciar à te cadde la sorte? |
Mir. |
Su queste labbra, Ergasto, Tutta sen venne à l'hor l'anima mia; E la mia vita, chiusa In così breve spazio, Non era altro che un bacio, Onde restar le membra, Quasi senza vigor tremanti e fioche. E quando i' fui vicino Al folgorante sguardo, Come quel che sapea Che pur inganno era quell'atto, e furto, Temei la maestà di quel bel viso. Ma, da un sereno suo vago sorriso Assicurato poi, Pur oltre mi sospinsi. Amor si stava, Ergasto, Com'ape suol, ne le due fresche rose Di quelle labbra ascoso. E mentre ella si stette Con la baciata bocca, Al baciar de la mia, Immobile, e ristretta, La dolcezza del mèl sola gustai. Ma, poi ch'anch'ella mi s'offerse e porse L'una e l'altra dolcissima sua rosa, (Fosse ò sua gentilezza ò mia ventura, So ben che non fù Amore), E sonar quelle labbra E s'incontraro i nostri baci (oh caro E prezioso mio dolce tesoro, T'hò perduto, e non moro?), Allora sentij de l'amorosa pecchia La spina pungentissima soave Passarmi il cor, che forse Mi fù renduto à l'hora Per poterlo ferire. Io, poi ch'a morte mi sentij ferito, Come suol disperato, Poco mancò che l'homicide labbra Non mordessi, e segnassi; Ma mi ritenne, oime, l'aura adorata Che, quasi spirto d'anima divina, Risvegliò la modestia E quel furore estinse. |
Erg. |
O modestia, molestia Degli amanti importuna |
Mir. |
Già fornito il su' arringo havea ciascuna E con sospension d'animo grande La sentenza attendea, Quando la leggiadrissima Amarilli, Giudicando i miei baci Più di quelli d'ogn'altro saporiti, Di propria man con quella Ghirlandetta gentil, che fù serbata Premio al vincitor, il crin mi cinse. Ma lasso aprica piaggia Così non arse mai sotto la rabbia Del can celeste allor, che latra, e morde, Come ardea il cor mio Tutto alhor di dolcezza e di desio, E più che mai ne la vittoria vinto. Pur mi riscossi tanto, Che la ghirlanda trattami di capo A lei porsi, dicendo: Questa à te si convien, questa à te tocca, Che festi i baci miei Dolci ne la tua bocca. Ed ella, umanamente Presala, al suo bel crin ne feo corona; E d'un'altra, che prima Cingea le tempie à lei, cinse le mie. Ed è questa ch'io porto, E porterò fin al sepolcro sempre, Arida come vedi, Per la dolce memoria di quel giorno, Ma molto più per segno De la perduta mia morta speranza. |
Erg. |
Degno sè di pietà più che d'invidia, Mirtillo, anzi pur Tantalo novello, Che nel gioco d'Amor chi fa da scherzo, Tormenta da dovero. Troppe care Ti costar le tue gioie; e del tuo furto E il piacer e 'l gastigo insieme avesti. Ma s'accorse ella mai di questo inganno? |
Mir. |
Ciò non so dirti, Ergasto. So ben ch'ella, in quei giorni Ch'Elide fù de la sua vista degno, Mi fù sempre cortese Di quel soave ed amoroso sguardo: Ma il mio crudo destino La 'nvolò sì repente, Che me ne avvidi appena; ond'io, lasciando Quanto già di più caro haver solea, Tratto da la virtù di que' begli occhi, Quì, dove il padre mio Doppo tant'anni ancor, come t'è noto, Serba l'antico suo povero albergo, Me'n venni, e viddi, ah misero già corso A sempiterno occaso Quell'amoroso mio giorno sereno, Che cominciò da sì beata aurora. Al mio primo apparir, subito sdegno Lampeggiò nel bel viso; Poi chinò gli occhi e girò il piede altrove. Misero, alhor i' dissi, Questi son ben de la mia morte i segni. Havea sentita acerbamente intanto La non prevista, e subita partita Il mio tenero padre, E dal dolore oppresso, Ne cadde infermo, assai vicino à morte; Ond'io costretto fui Di ritornar à le paterne case. Fù il mio ritorno, ahi lasso Salute al padre, infermitate al figlio, Che, d'amorosa febbre Ardendo, in pochi dì languido venni. E da l'uscir che fe' di Tauro il sole Fin à l'entrar di Capricorno sempre In cotal guisa stetti; E sarei certo ancora, Se non havesse il mio pietoso padre Opportuno consiglio A l'oracolo chiesto, il qual rispose Che sol potea sanarmi il ciel d'Arcadia. Così tornaimi, Ergasto, A riveder colei Che mi sanò del corpo, (Oh voce degli oracoli fallace) Per farmi l'alma eternamente inferma. |
Erg. |
Strano caso nel vero Tu mi narri, Mirtillo, e non può dirsi Che di molta pietà non ne sij degno. Ma solo una salute Al disperato è 'l disperar salute. E tempo è già ch'io vada à far di quanto M'hai detto consapevole Corisca; Tu vanne al fonte e là m'attendi, dove Teco sarò quanto più tosto anch'io. |
Mir. |
Vanne felicemente Il ciel ti dia Di cotesta pietà quella mercede Che dar non ti poss'io cortese Ergasto. |