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Battista Guarini
Il pastor fido

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SCENA VIII

 

Silvio

 

O Dea, che non sè Dea se non di gente

Vana, oziosa e cieca,

Che con impura mente

E con religion stolta e profana

Ti sacra altari, e Tempi.

Ma che tempii diss'io? più tosto asili

D'opre sozze e nefande,

Per honestar la loro

Empia dishonestate

Col titolo famoso

De la tua deitate.

E tu, sordida dea,

Perche le tue vergogne

Ne le vergogne altrui si veggan meno,

Rallenti lor d'ogni lascivia il freno,

Nemica di ragione,

Macchinatrice sol d'opre furtive,

Corruttela de l'alme,

Calamità de gli huomini e del mondo,

Figlia del mar ben degna

E degnamente nata

Di quel perfido mostro,

Che con aura di speme allettatrice

Prima lusinghi e poi

Movi ne' petti humani

Tante fiere procelle

D'impetuosi e torbidi desiri,

Di pianti e di sospiri,

Che madre di tempeste, e di furore

Devria chiamarti il mondo,

E non madre d'Amore:

Ecco in quanta miseria

Tu hai precipitati

Que' due miseri amanti.

Hor và tu, che ti vanti

D'esser onnipotente,

Và tu, perfida Dea; salva, se puoi,

La vita à quella Ninfa,

Che tu, con tue dolcezze

Avvelenate hai pur condotta à morte.

Oh per me fortunato

Quel dì che ti sacrai l'animo casto,

Cintia, mia sola dea,

Santa mia deità, mio vero nume,

E così nume in terra

De l'anime più belle,

Come lume del cielo

Più bel de l'altre stelle.

Quanto son più lodevoli e sicuri

De cari amici tuoi l'opre e gli studi,

Che non son quei de gli infelici servi

Di Venere impudica

Uccidono i Cinghiali i tuoi devoti;

Ma i devoti di lei miseramente

Son dai Cinghiali uccisi.

O arco, mia possanza e mio diletto;

Strali, invitte mie forze;

Hor venga in prova, venga

Quella vana fantasima d'Amore

Con le sue armi effeminate, venga

Al paragon di voi,

Che ferite, e pungete.

Ma che? troppo t'honoro,

Vil pargoletto imbelle;

E, perche tu m'intenda,

Ad alta voce il dico:

La ferza à gastigarti

Sola mi basta.                      Basta.

Chi sè tu che rispondi?

Eco, ò più tosto Amor, che così d'Eco

Imita il sòno?                      Sono.

A punto i' ti volea; ma dimmi: certo

Sè tu poi desso?                                  Esso.

Il figlio di colei che per Adone

Già si miseramente ardea?                              Dea.

Come ti piace, su di quella dea

Concubina di Marte, che le stelle

Di sua lascivia ammorba

E gli elementi?                    Menti.

Oh, quanto è lieve il cinguettare al vento

Vien' fuori, vien'; nè star ascoso.                    Oso.

Ed io t'hò per vigliacco. Ma di lei

Sè leggittimo figlio

O pur bastardo?                                 Ardo.

O buon nè figlio di Vulcan per questo

Già ti cred'io.                      Dio.

E Dio di che? del core immondo?                  Mondo.

Gnaffe de l'universo?

Quel terribil garzon, di chi ti sprezza

Vindice sì possente,

E sì severo?                          Vero.

E quali son le pene

Ch'à tuoi rubelli e contumaci dai

Cotanto amare?                                 Amare.

E di me, che ti sprezzo, che farai,

Se 'l cor più duro hò di diamante?                                Amante.

Amante me? sè folle

Quando sarà che 'n questo cor pudico

Amor alloggi?                     Oggi.

Dunque sì tosto s'innamora?                           Ora.

E qual sarà colei

Che far potrà ch'hoggi l'adori?                      Dori.

Dorinda forse, ò bambo,

Vuoi dir in tua mozza favella?                        Ella.

Dorinda, ch'odio più che lupo agnella?

Chi farà forza in questo

Al voler mio?                       Io.

E come? e con qual'armi? e con qual arco?

Forse col tuo?                     Col tuo.

Come col mio? vuoi dir quando l'havrai

Con la lascivia tua corrotto?                          Rotto.

E le mie armi rotte

Mi faran guerra? e romperailo tu?                                Tu.

Oh, questo sì mi fa veder affatto

Che tu sè ubbriaco.

Và, dormi va' Ma dimmi:

Dove fien queste maraviglie? qui?                                Quì.

O sciocco ed io mi parto.

Vedi come sè stato hoggi indovino

Pien di vino.                        Divino.

Ma veggio, ò veder parmi,

Colà, posando in quel cespuglio starsi

Un non sò che di bigio,

Ch'a lupo s'assomiglia.

Ben mi par desso, ed è per certo il lupo.

Oh, come è smisurato, ò per me giorno

Destinato à le prede, ò dea cortese,

Che favori son questi? in un dì solo

Trionfar di due fere?

Ma che tardo, mia Dea?

Ecco, nel nome tuo questa saetta

Scelgo per la più rapida e pungente

Di quante n'habbia la faretra mia.

A te la raccomando:

Levala tu, saettatrice eterna,

Di man de la fortuna e ne la fera

Col tuo nume infallibile la drizza,

A cui fò voto di sacrar la spoglia,

E nel tuo nome scocco.

Oh bellissimo colpo,

Colpo caduto à punto

Dove l'occhio e la man l'ha destinato

Deh, havessi il mio dardo,

Per ispedirlo à un tratto,

Prima che mi s'involi e si rinselvi

Ma, non avendo altr'arme,

Il ferirò con quelle de la terra.

Ben rari sono in questa chiostra i sassi,

Ch'a pena un qui ne trovo.

Ma che vo io cercando

Armi, s'armato sono?

Se quest'altro quadrello

Il va à ferir nel vivo; oime che veggio?

Oime Silvio infelice,

Oime che hai tu fatto?

Hai ferito un pastor sotto la scorza

D'un lupo, ò fiero caso oh caso acerbo,

Da viver sempre misero, e dolente

E mi par di conoscerlo, il meschino;

E Linco è seco, che 'l sostene e regge.

Oh funesta saetta oh voto infausto

E tu che la scorgesti,

E tu che l'esaudisti,

Nume di lei più infausto e più funesto

Io dunque reo de l'altrui sangue? io dunque

Cagion de l'altrui morte? io, che fui dianzi

Per la salute altrui

Sì largo sprezzator de la mia vita,

Sprezzator del mio sangue?

Và, getta l'armi e senza gloria vivi,

Profano cacciator, profano arciero

Ma ecco lo infelice,

Di te però men infelice assai.

 


 

 




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