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Battista Guarini Il pastor fido IntraText CT - Lettura del testo |
ATTO QUINTO
Vranio, Carino.
[Vra.] |
PEr tutto è buona stanza, ov'altri goda, Ed ogni stanza al valent'huomo è patria. |
Car. |
Gli è vero, Uranio, e troppo ben per prova Tel sò dir io, che le paterne case Giovinetto lasciando e d'altro vago Che di pascer armenti, ò fender solco, Or qua or là peregrinando; al fine Torno canuto onde partij già biondo. Pur è soave cosa, à chi del tutto Non è privo di senso, il patrio nido: Che diè natura al nascimento humano, Verso il caro paese, ov'altri è nato, Un non sò che di non inteso affetto, Che sempre vive, e non invecchia mai. Come la calamita, ancor che lunge Il sagace nocchier la porti, errando Or dove nasce, hor dove more il sole, Quell'occulta virtù, con ch'ella mira La tramontana sua non perde mai; Così chi và lontan da la sua patria; Benche molto s'aggiri e spesse volte In peregrina terra ancor s'annidi, Quel naturale amor sempre ritiene, Che pur l'inchina à le natie contrade. O da me più d'ogn'altra amata e cara Più d'ogn'altra, gentil terra d'Arcadia, Che col piè tocco e con la mente inchino: Se ne' confini tuoi, madre gentile, Foss'io giunto à chiusi occhi, anco t'havrei Troppo ben conosciuto, così tosto M'è corso per le vene un certo amico Consentimento incognito, e latente, Sì pien di tenerezza e di diletto, Che l'ha sentito in ogni fibra il sangue. Tu dunque, Uranio mio, se del cammino Mi sè stato compagno e del disagio, Ben è ragion che nel gioire ancora De le dolcezze mie tu m'accompagni. |
Vra. |
Del disagio compagno e non del frutto Stato ti son, che tu sè giunto homai Ne la tua terra, ove posar le stanche Membra potrai e più la stanca mente; Ma io, che giungo peregrino, e tanto Dal mio povero albergo e da la mia Più povera e smarrita famigliuola Dilungato mi son, teco trahendo Per lunga via l'affaticato fianco, Posso ben ristorar l'afflitte membra, Ma non l'afflitta mente, à quel pensando Che m'hò lasciato addietro e quanto ancora D'aspro cammin per riposar m'avanza. Nè sò qual altro in questa età canuta M'havesse se non tu d'Elide tratto, Senza saper de la cagion, che mosso T'habbia à condurmi in sì remota parte. |
Car. |
Tu sai che 'l mio dolcissimo Mirtillo, Che 'l ciel mi diè per figlio, infermo, venne Quì per sanarsi, e già passati sono Duo mesi, e più fors'anco, il mio consiglio, Anzi quel de l'oracolo seguendo; Che sol potea sanarlo il ciel d'Arcadia. Io che veder lontan pegno sì caro Lungamente non posso, à quella stessa Fatal voce ricorsi, à quella chiesi Del bramato ritorno anco consiglio. La qual rispose in cotal guisa à punto: Torna à l'antica patria, ove felice Sarai col tuo dolcissimo Mirtillo; Però ch'ivi à gran cose il ciel sortillo. Ma fuor d'Arcadia il ciò ridir non lice. Tu dunque, ò fedelissimo compagno, Diletto Uranio mio, che meco à parte D'ogni fortuna mia sè stato sempre, Posa le membra pur, c'havrai ben onde Posar anco la mente ogni mia sorte, S'ella pur fia, come l'addita il cielo, Sarà teco comune, indarno fôra Di sua felicità lieto Carino, Se si dolesse Uranio. Vra. Ogni fatica Che sia fatta per te, pur che t'aggradi, Sempre, Carino mio, seco ha il suo premio. Ma qual fù la cagion che fè lasciarti, Se t'è sì caro, il tuo natio paese? |
Car. |
Musico spirto in giovanil vaghezza D'acquistar fama ov'è più chiaro il grido, Ch'avido anch'io di peregrina gloria, Sdegnai che sola mi lodasse e sola M'udisse Arcadia, la mia terra, quasi Del mio crescente stil termine angusto; E colà venni, ov'è sì chiaro il nome D'Elide e Pisa e fa sì chiaro altrui. Quivi il famoso EGON di lauro adorno Vidi, poi d'ostro e di virtù pur sempre, Sì che Febo sembrava, ond'io devoto Al suo nome sacrai la cetra e 'l core. E 'n quella parte, ove la gloria alberga, Ben mi dovea bastar d'esser homai Giunto à quel segno ov'aspirò il mio core, Se, come il ciel mi feo felice in terra, Così conoscitor, così custode Di mia felicità fatto m'havesse. Come poi per veder Argo, e Micene Lasciassi Elide, e Pisa, e quivi fussi Adorator di deità terrena, Con tutto quel che 'n servitù soffersi, Troppo noiosa historia à te l'udirlo, A me dolente il raccontarlo fora. Ti dirò sol, che perdei l'opra, e 'l frutto. Scrissi, piansi, cantai, arsi, gelai, Corsi, stetti, sostenni, hor tristo hor lieto, Hor alto hor basso, hor vilipeso hor caro, E, come il ferro Delfico, stromento Hor d'impresa sublime, hor d'opra vile, Non temei risco, e non schivai fatica. Tutto fei, nulla fei, per cangiar loco, Stato, vita, pensier, costumi e pelo, Mai non cangiai fortuna, al fin conobbi E sospirai la libertà primiera, E dopo tanti strazi, Argo lasciando E le grandezze di miseria piene, Tornai di Pisa à i riposati alberghi, Dove, mercè di provvidenza eterna, Del mio caro Mirtillo acquisto fei, Consolator d'ogni passata noia. |
Vra. |
Oh mille volte fortunato e mille Chi sà por meta à suoi pensieri, in tanto Che, per vana speranza immoderata, Di moderato ben non perde il frutto. |
Car. |
Ma chi creduto havria di venir meno Tra le grandezze, e 'mpoverir ne l'oro? I' mi pensai che ne' reali alberghi Fossero tanto più le genti umane, Quant'esse han più di tutto quel dovizia Ond'è l'umanità sì nobil fregio; Ma vi trovai tutto 'l contrario, Uranio. Gente di nome e di parlar cortese, Ma d'opre scarsa, e di pietà nemica; Gente placida in vista, e mansueta, Ma più del cupo mar tumida, e fera, Gente sol d'apparenza, in cui se miri Viso di carità, mente d'invidia Poi trovi, e 'n dritto sguardo animo bieco, E minor fede alhor che più lusinga. Quel, ch'altrove è virtù, quivi è difetto: Dir vero, oprar non torto, amar non finto, Pietà sincera, inviolabil fede, E di core e di man vita innocente: Stiman d'animo vil, di basso ingegno, Sciocchezza e vanità degna di riso. L'ingannare, il mentir, la frode, il furto E la rapina di pietà vestita, Crescer col danno, e precipizio altrui E far à sè de l'altrui biasmo honore, Son le virtù di quella gente infida. Non merto, non valor, non riverenza, Nè d'età nè di grado nè di legge, Non freno di vergogna, non rispetto Nè d'amor nè di sangue; non memoria Di ricevuto ben; nè, finalmente, Cosa sì venerabile, ò sì santa O sì giusta esser può, ch'à quella vasta Cupidigia d'onori, à quella ingorda Fame d'havere inviolabil sia. Hor io, ch'incauto e di lor arti ignaro Sempre mi vissi e portai scritto in fronte Il mio pensiero e disvelato il core, Tu puoi pensar s'à non sospetti strali D'invida gente fui scoperto segno. |
Vra. |
Hor chi dirà d'esser felice in terra, Se tanto à la virtù noce l'invidia? |
Car. |
Uranio mio, se da quel dì, che meco Passò la Musa mia d'Elide in Argo, Havessi avuto di cantar talento, Quanta cagion di lagrimar sempr'hebbi, Con sì sublime stil forse cantato Havrei del mio signor l'armi e gli onori, Ch'è non havria de la meonia tromba Da invidiar Achille; e la mia patria, Madre di Cigni sfortunati, andrebbe Già per me cinta del secondo alloro. Ma hoggi è fatta; oh secolo inumano L'arte del poetar troppo infelice. Lieto nido, esca dolce, aura cortese Bramano i Cigni; e non si và in Parnaso Con le cure mordaci. E chi pur garre Sempre col suo destino, e col disagio, Vien roco e perde il canto e la favella. Ma tempo è già di ricercar Mirtillo. Ben che sì nuove e sì cangiate i' trovi, Da quel ch'esser solean, queste contrade, Che 'n esse à pena i' riconosco Arcadia, Con tutto ciò vien lietamente, Uranio. Scorta non manca à peregrin c'hà lingua. Ma forse è ben ch'al più vicino hostello, Poi che sè stanco, à riposar ti resti. |