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Giorgio Cicogna I ciechi e le stelle IntraText CT - Lettura del testo |
La voce corse in un attimo per l'accampamento, rimbalzò da tenda a tenda, suscitò, riflettendosi e rinfrangendosi di uomo in uomo e di idioma in idioma, le più varie esclamazioni ed i più disparati commenti; e tutti coloro che il sonno o la stanchezza non inchiodava nei sacchi a pelo accorsero nella tenda del capo, dove si diceva che lo strano ospite fosse stato portato.
Uno squallido ocràceo essere, ravvolto in un campionario di cenci multicolori, inzuppati di acqua, giaceva su una stuoia.
Le sentinelle lo avevano veduto passare a nuoto il fiume e dirigersi verso l'accampamento. Poi era caduto come sfinito a cento metri dai fuochi; e lì era stato raccolto; e non apparteneva alla spedizione.
Quando D'Obre, il medico, l'ebbe denudato, apparve un individuo di razza gialla, di media statura, simile in tutto — tranne la magrezza scheletrica — a quei mòngoli che, da Irkutsk a Urga avevamo incontrati a centinaia. Solo la cassa toracica sembrava un po' piccola e la testa un po' grossa rispetto alle proporzioni del corpo. I baffi e la barba erano corti ed incolti, come di chi non si rada da molti giorni; e le mani ossute non portavano segni di fatica; anzi la pelle ne era singolarmente sottile e delicata.
Come mai un indigeno, solo, inerme, senza provviste, aveva potuto aventurarsi fino alle sorgenti dell'Jenissei dove sorgeva il nostro campo? Quindici giornate di cavallo ci separavano dai più vicini villaggi. Il deserto intorno, per un raggio di circa trecento miglia, era assoluto; l'altopiano, impervio e brullo, non permetteva la vita che a patto d'avere tende, cavalli, portatori, bagagli; chi aveva potuto osare spingersi fin lassù?
— Nessuna ferita — disse D'Obre. Forse esaurimento per inanizione. Probabilmente qualche carovana indigena, di mercanti o di predoni, è passata prima di noi, e lo ha abbandonato. Ho sentito dire che un simile trattamento è fatto qualche volta ai ladri o ai traditori.
E riprese a strofinare il corpo del disgraziato con alcool ed olio di canfora.
Ma nessuna carovana ci aveva preceduto; ma nessun ladro o traditore era stato abbandonato.
Il mistero del giallo solitario, anzichè diradarsi, si fece, con la sua guarigione, più fitto. Ogni ipotesi si infrangeva contro due fatti inesplicabili: il primo che gli abiti di cui era stato trovato rivestito non sembravano appartenere ad alcun corredo conosciuto; il secondo che il linguaggio di cui tentava servirsi non solo non rientrava in alcuno dei dialetti della regione, ma — come ebbe a giurare Hao-Ta, la guida dei portatori — non poteva assolutamente essere considerato come cinese; ed Hunkel, il poliglotta della spedizione, dovette escludere qualsiasi parentela col tartaro, il pâlî, e l'indostano.
Pur essendo un idioma apparentemente monosillabico conteneva suoni talmente gutturali da riuscir inimitabili agli stessi indigeni. Quanto agli abiti pareva fossero stati disegnati dal più inveterato consumatore di hascisc tra i sarti di tutto l'Oriente: sciarpe orlate di filo d'oro, veli da baiadera, paramenti da pope, striscie in cui solo con l'abilità del proprietario si sarebbe riusciti a drappeggiarsi.
Per il rimanente Qhuen-lì — così si credette capire suonasse il nome dello sconosciuto — si mostrò individuo normale, docile, intelligentissimo; e, per correttezza e pulizia ebbe a rivelarsi di gran lunga superiore, non dico ai suoi compatrioti, ma a più di qualche europeo della comitiva.
Come accade per tutte le cose di quaggiù, anche questa, sbollita la sorpresa del primo momento, passò in seconda linea. La nostra missione era ardua e faticosa; marce forzate attraverso terreni difficilissimi, soste snervanti sotto le tende quando gli uragani battevano le montagne rendendo impossibile l'avanzata; lunghe fermate quando, stabilito un campo, i vari gruppi si dividevano il molteplice lavoro di esplorazione, ricognizione, rilievo. Hunkel e Kharr, i due tedeschi, studiavano la geologia, la flora e la fauna; Middleton, il capo, con una piccola schiera di geodeti, si occupava delle triangolazioni; Di Santo ed io eravamo addetti ai calcoli astronomici e alla raccolta di dati meteorologici.
Qhuen-lì, messo in un primo tempo a rinforzare la piccola falange dei portatori si mostrò inadatto al compito; non perchè gli mancasse la buona volontà, ma perchè sotto il carico ansava come un asmatico. D'Obre, esaminandolo, gli riscontrò una insufficienza costituzionale dell'apparato respiratorio così interessante dal punto di vista medico, da ripromettersi di riferirne in una apposita Memoria da allegare a quella Fisiologia dell'alta montagna che costituiva la sua occupazione principale durante le soste negli accampamenti. E poichè io ero il comandante in seconda della spedizione non mi fu difficile ottenere da Middleton il permesso di prendere Qhuen-lì con me, come addetto alla persona.
Qhuen-lì! Il piccolo giallastro relitto d'uomo, raccolto estenuato sulla riva dell'Jenissei, era irriconoscibile.
Con quella tunica azzurra di cui lo avevamo vestito, silenzioso come uno spettro, pareva l'immagine dell'impersonalità, l'idea platonica della razza gialla, il noumeno del fenomeno mongolico. Del resto, attento, diligente, pieno di premura e di zelo, la sua attività contrastava stranamente con la freddezza esteriore dell'aspetto. Tra la «persona tragica» e la «persona comica» il suo volto era un anello intermedio di «persona» senz'attributi. Il riso vi sfumava in sorriso, il sorriso vi si stemperava in una luminosità appena percettibile dello sguardo; solo, a tratti, una specie di pallore roseo pareva accendere i lineamenti tranquilli, ma come un'aurora che non vada oltre la promessa del giorno. Il mistero della sua invenzione, il mistero della sua provenienza, il mistero della sua anima, accesero in me una imperiosa volontà di sapere; e mi accinsi a farlo parlare.
Possedendo sviluppatissima l'attitudine, comune ai cinesi, di imparare le lingue, e da quel pronto e volenteroso allievo che egli era, non occorsero molte settimane perchè potessimo intrecciare con lui i primi colloqui. Ma neppure dopo due mesi di sforzi eravamo riusciti a fargli dire una sola sillaba sulle due cose che principalmente desideravamo sapere: chi fosse e donde fosse venuto. Quando le nostre domande s'appuntavano a quei segni, egli rispondeva con un gesto delle due braccia alzate in atto di desolazione, come se il soddisfare la nostra curiosità gli fosse stato proibito sotto pena della vita.
— T'inseguivano? Ti eri perduto? Eri stato abbandonato?
— No, Sir.
— Temi forse qualche cosa? Hai dei nemici? Ti è stato proibito di parlare?
— No, Sir. Troppo difficile per me. Più tardi, Sir.
— Sì, Sir.
— Quando saprai parlare meglio?
Verso la metà d'agosto incominciammo il ripiegamento ad ovest, seguendo un itinerario che attraverso l'alto corso dell'Ob e quello dell'Irtish, doveva portarci a Cashgar prima e poi a Samarcanda. Scorrendo il manoscritto del diario redatto da Di Santo, lo storico della spedizione, trovo segnata con un asterisco la data del ventisei agosto.
Ricordo perfettamente che da alcuni giorni Qhuen-lì, che aveva imparato ormai a parlare correntemente in inglese, si mostrava insolitamente preoccupato, come se avesse avuto qualche cosa da dirmi e non osasse. I suoi occhi, che di solito egli fissava nel mio volto con siderea inespressivita, mi guardavano stranamente. E un mattino, subito dopo la «sveglia» che precedeva una marcia, finalmente parlò:
— Mister Middleton, Sir, sta male.
— Sta male Mister Middleton! — esclamai sorpreso. — Gli è accaduto qualche cosa?
— No, Sir. Male interno, adesso.
Lo guardai stupito. Anche Di Santo, all'insolita uscita di Qhuen-lì, si era alzato dal giaciglio ad ascoltare.
Nella piccola tenda eravamo soli. L'aurora, fuori, arrossava già le cime nevose. Fra poco sarebbe stato dato il segnale di adunata.
— Hai sentito? — dissi al mio compagno.
— Vuoi dire — chiese questi rivolgendosi al mòngolo — che è di cattivo umore?
— Sì, Sir. Molto turbato in animo.
— Ma... e che vuol dire questo? Capita a tutti d'esser di malumore. Middleton effettivamente è poco trattabile in questi giorni. Credo che sia effetto della fatica.
— No, Sir. Mister Middleton ha desiderio di fare cosa troppo difficile, e non potrà.
— Che vuoi dire, Qhuen-lì? Che cosa vuol fare Middleton?
— Io non so, Sir. Io so che questo porta pericolo a braccio destro di Mister Middleton.
E prima che avessimo pensato ad impedirglielo, il misterioso cinese uscì dalla tenda, lieve come un'ombra.
Il braccio destro? Right arm? E quale relazione poteva correre tra il malumore del nostro capo e un arto del suo corpo? E perchè Qhuen-lì aveva sentito il bisogno, egli che non parlava mai se non interrogato, di esprimere quella sua bizzarra opinione?
— Perbacco! — esclamò improvvisamente Di Santo, battendosi la fronte. — Non perdiamo un momento! Il braccio, il braccio destro, nella simbologia del Tao, è la morte in grazia della divinità, la morte data dagli Dei, la morte naturale! Il pericolo al braccio destro vorrà dire che Middleton rischia una morte violenta. Corriamo prima che sia tardi!
Ci coprimmo alla meglio e balzammo fuori. E mentre attraversavamo di corsa lo spazio fra le due tende:
— Qhuen-lì — continuava Di Santo — avrà saputo da qualche indigeno del seguito che Middleton sta per correre un pericolo, e ci avrà voluti avvertire...
— Ma perchè — replicai io — perchè vuoi che abbia aspettato...
La frase mi si agghiacciò sulle labbra.
D'Obre, succintamente ravvolto in una coperta, era sbucato a sua volta dalla sua tenda, seguìto dal servo irlandese di Middleton, certamente corso a chiamarlo. Compresi tutto. Ci precipitammo insieme nel ricovero. Middleton giaceva a terra, insanguinato, pallido come un cadavere. Con la mano sinistra si comprimeva il braccio destro, sfracellato da uno dei pesanti cassoni da campo da cui due portatori l'avevano appena liberato.
Mi volsi costernato, a cercare con gli occhi Di Santo. Dietro di noi, impassibile, Qhuen-lì aspettava con la cassetta della farmacia da campo già aperta dinanzi.
— Qhuen-lì — dissi gravemente quando fummo soli sotto la tenda — qui non c'è posto per stregoni, nè per ciarlatani. O mi dici, e subito, e senza reticenze, come hai fatto a sapere quel che sapevi, oppure io ti faccio parlare con qualche sistema energico. Comprendi?
— Sì, Sir.
— Bene. E allora avanti! Di' quel che sai!
— Io ho già parlato, Sir. Io ho detto che Mister Middleton avrebbe avuto male al suo braccio perchè aveva desiderio di fare una cosa troppo grande.
— Che cosa?
— Lasciare la carovana, Sir! Mister Middleton ha grande ambizione. Io ho veduto nel suo animo molta volontà di comandare. Io credo che egli desidererebbe più grande destino. Allora io ho immaginato che egli pensasse di raggiungere con gli uomini di scorta strade per provincie cinesi.
— Ma, Qhuen-lì — esclamai — quand'anche queste tue balorde supposizioni fossero vere, che cosa c'entra questo con la ferita al braccio?
— Molto, Sir. Sempre quando volontà di una azione è grandissima e possibilità di fare è piccola, accade disgrazia a braccio destro.
— Tu sei un imbroglione! — gridai in preda all'ira. — Tu credi di aver a che fare con degli idioti! Lèvati di qui! Vàttene subito!
Ma Qhuen-li, impassibile, come se non avessi parlato a lui, non si mosse.
— Sì, Sir. Ma io prego di aspettare ancora piccolo tempo. Io ho imparato molte cose che non conoscevo da te, Sir. Ho imparato ferrovia, automobile, phonograph, fotografia, radiotelegrafia. Io non ho mai sentito furore quando non ho capito. Prego altrettanto, Sir.
Lo guardai. Non una fibra della sua maschera si muoveva. Sidereo, immobile, assente, pareva un'erma di bronzo, cui i secoli avessero sbiadita pian piano la doratura.
In attesa della guarigione di Middleton si decise di sostare. Pioggie interminabili erano succedute al sereno costante che ci aveva accompagnati per quasi quattro mesi. Tranne il disagio del terreno acquitrinoso, la nostra vita si svolgeva, però, in modo sopportabile.
Hunkel e Kharr si alternavano nella fatica di ricopiare i loro brogliacci, Di Santo ed io riordinavamo le osservazioni fatte, D'Obre, quando non teneva compagnia a Middleton, attendeva alla sua Fisiologia, o usciva in cerca di selvaggina, o veniva a liricheggiare con noi sull'orrida bellezza del paesaggio e sul fascino del deserto.
Qhuen-lì era rientrato nel suo mutismo. Ormai avevamo capito che quando aveva deciso di non parlare, non c'era forza al mondo che potesse smuoverlo, e ci eravamo rassegnati. Ai primi di settembre Kunkel cadde ammalato. Un attacco di bronchite che, in una ben riscaldata stanza di Berlino, probabilmente non avrebbe presentato nessuna gravità, ma che, sugli Altai, in mezzo all'altopiano deserto, non prometteva nulla di buono. E un mattino D'Obre, che aveva lasciato il capezzale di Middleton per quello di Hunkel, uscì dalla tenda scuro in volto e preoccupato.
— Ne avrà per parecchi giorni ancora, se tutto andrà bene. Se tutto andrà male, poi, non so che cosa potrà accadere. La tenda è umida, fredda, malsana. E dai bronchi ai polmoni il passo è già fatto.
Andammo tutti a trovare il malato. Giaceva nel suo sacco, febbricitante. Gli occhi lucidi e la barba incolta gli davano un aspetto di sofferenza che lo squallore della tenda rendeva drammatico.
— Hunkel — disse Di Santo — coraggio. Passerà. Non ci muoveremo finchè non sarete perfettamente ristabilito.
— Nein! — disse il sofferente alzando un poco la testa, e scuotendola mestamente. — Non credo che... guarirò.
Ci sedemmo attorno al suo letto, silenziosi. Da un grande erbario, aperto, ai piedi del giaciglio, uscivano, tra foglio e foglio, gli esemplari rari che con tanto amore e tanta pazienza egli aveva raccolti, sceverati, ordinati e che forse...
— Sir — disse una voce sommessa alle mie spalle — posso guarire Mister Hunkel?
Fui solamente io a volere. Dovetti impegnarmi sul mio onore che Qhuen-lì non avrebbe somministrato all'infermo alcun medicamento, che non l'avrebbe toccato, e non l'avrebbe ipnotizzato. Dovetti usare tutta la mia eloquenza, ricorrere a tutta la mia autorità di comandante in seconda, prendere su di me ogni responsabilità, accalorarmi con D'Obre fin quasi alla disputa. Dovetti tollerare che il collerico spagnuolo (D'Obre era nato a Guadazulceña) uscisse dalla tenda sbatacchiandone il telo che faceva da usciolo dopo aver minacciato di lasciarci alla prima tappa.
Che cosa mi spingeva a tentare la prova? Una curiosità invincibile, una necessità più forte di me, un istinto sicuro, una oscura coscienza di non ingannarmi, oppure la suggestione che innegabilmente esercitava su di me il cinese? Non so. Certo senza rimorsi afferrai il braccio di Qhuen-lì ed entrai con lui sotto la tenda di Hunkel.
Ci accosciammo ai piedi del malato. Poi Qhuen-lì lo chiamò sommessamente per nome.
Hunkel volse il capo, penosamente, guardando con curiosità.
— Mister Hunkel — disse il cinese — Qhuen-lì vi augura un grande buono piacevole viaggio nel regno degli antenati.
— Qhuen-lì — esclamai — sei pazzo?
— Mister Hunkel non può più accompagnarci — rispose il cinese calmo. — Questo piacere per noi è finito. Mister Hunkel preferisce lasciare il mondo.
Vi fu una lunga pausa. Poi Hunkel scosse il capo.
— Nein! — disse. — Vorrei guarire... tornare...
— Come? Mister Hunkel non è contento di morire? Mister Hunkel muore contro sua volontà?
Il febbricitante sgranò gli occhi.
— Qhuen-li... — rispose — ... tu pensi dunque che si viva e si muoia quando si vuole?
— Certamente, Sir.
— Bene — disse — allora... io voglio guarire. Dimmi come debbo fare.
— Mister Hunkel ha un corpo — rispose Qhuen-lì — che è simile ad un carro. Mezzo affondato in un pantano, Sir. Poi ha un'anima simile ad un cavallo; buona ancora per trascinare il carro. Il cavallo cerca di tirare il carro, Sir. Ma non può, perchè Mister Hunkel ha ancora un'altra cosa, e questa cosa non entra nel gioco.
— Ho sentito parlare ancora di questo, Qhuen-lì — rispose Hunkel sorridendo tristemente. — L'altra cosa è lo spirito, il cocchiere che non sa sorreggere e guidare il cavallo; vero?
— Certamente. Ma è molto facile per Qhuen-lì richiamare il cocchiere, a patto che Mister Hunkel...
Non finì la frase. Hao-Ta e quattro giganteschi portatori, irruppero d'improvviso silenziosamente nella tenda; due di essi, afferrandomi alle braccia e torcendomele dietro la schiena, mi misero in un attimo in condizioni di non poter fare il minimo movimento. Quanto a Qhuen-lì, atterrato, premuto coi ginocchi, immobilizzato nello stesso modo, non tentò la più piccola resistenza. Solo Hunkel, libero, si era drizzato a sedere sul suo giaciglio, ansimando.
— Vostra Eccellenza ci perdoni — disse subito Hao-Ta nel suo ibrido inglese — non abbiamo l'intenzione di fare il menomo male nè a Vostra Eccellenza, nè al professore, nè a Qhuen-lì. Ma Vostra Eccellenza non sa che Qhuen-lì è legato da un giuramento solenne a non contribuire con la sua sapienza mai ed in alcun modo alla salute di un uomo bianco. Qhuen-lì può guarire il prof. Hunkel. Se Vostra Eccellenza crede che la vita del prof. Hunkel valga più di quella di Qhuen-lì, può ordinargli di parlare; ma appena avrà conseguito il suo effetto pagherà con la vita l'infrazione del giuramento.
Tutto quanto ho narrato si svolse così rapidamente che credetti d'esser vittima di un'allucinazione. Ma le braccia che mi stringevano erano di carne e d'ossa; ed Hao-Ta, immobile nel mezzo della tenda, mi guardava con uno sguardo la cui fermezza testimoniava una decisione irrevocabile.
— È una cosa molto grave, Hao-Ta. Lasciami il tempo di riflettere.
— Qhuen-lì può sacrificare la sua vita, Sir. La vita di Qhuen-lì non vale quella di Mister Hunkel.
Guardai stupefatto il piccolo enigmatico giallo che offriva con tanta semplicità la sua vita; guardai Hunkel; guardai i nostri impassibili aggressori.
— Decidete subito, Sir! — disse Qhuen-lì. — La malattia cammina. Ancora poco e Qhuen-lì non potrebbe far più nulla per Mister Hunkel, anche se lo volesse.
Vi fu una pausa.
— Volete lasciare che decida Mister Hunkel, Sir? — continuò Qhuen-lì.
— Sì, — mormorai, non sapendo come altrimenti risolvere il tragico dilemma.
Allora vidi il malato stringere i pugni e i denti come in un impeto di collera. Al pallore del suo volto, succedette un rossore di congestione. Nel silenzio si udiva il suo respiro affannoso, come un sibilo.
Quanto tempo passò prima ch'egli riuscisse a formulare la risposta?
Non so. Ricordo soltanto la voce aspra, forte, rauca, che ruppe all'improvviso il silenzio.
— Lasciatelo andare.
Immediatamente Hao-Ta e i suoi uomini ci liberarono. Appena ebbe varcato l'uscio feci per gettarmi dietro di essi, ma il tonfo di Hunkel, ricaduto supino, mi fece accorrere al suo capezzale.
Nel silenzio notturno dell'altopiano, sotto quel gran cielo splendente di settembre, abbacinato dalla falce della luna, mi soffermai quasi ad ascoltare se fra il cielo e la terra passasse davvero l'armonia dei versi che mi cantavano nel pensiero
Tra le ombre lunghe delle tende, simili ad una mandra di favolose creature gibbute, un'altra ombra più sottile s'insinuò, quasi scivolando; come di una stele, come di un'erma; l'ombra del termine marmoreo ed ermetico tra la vita e la favola che m'era sorto accanto d'improvviso.
L'attendevo. Entrammo silenziosi sotto l'arco dell'apertura angusta che divideva il nostro piccolo mondo d'uomini civili, che si radono, sorseggiano il thè, e dattilografano gli appunti di viaggio, dall'universo palpitante d'acque di foreste di stelle.
— Che cosa è stata questa messa in scena, Qhuen-lì, dell'aggressione di stamane? E perchè Hunkel è misteriosamente entrato in convalescenza?
— Gli ho semplicemente indicata la strada, Sir. Mister Hunkel è ora in grado di guarire da solo. Era l'unico sistema.
— Ma quale strada, in nome del cielo? Quale sistema? Che cosa possiamo capire delle tue azioni e virtù taumaturgiche se ti ostini a tacere?
— Se Qhuen-lì fosse un taumaturgo gli sarebbe facile convincervi. Se facesse dei miracoli tutti gli crederebbero, e sarebbe circondato da discepoli, Sir. Ma Qhuen-lì non possiede virtù magiche. Quando vi avrà palesati i suoi modesti segreti, non gli crederete.
— Se dirai cose ragionevoli sarò felice di impararle.
— Voi, forse. Ma gli altri no. Un atteggiamento istintivo nella vostra razza vi impedisce di comprendere ciò che accade intorno e dentro di voi. Da millenni sceverate e distinguete il bello dal brutto, il nobile dal volgare, l'utile dall'inutile. Senza dubbio tali criteri sono necessari al mantenersi della vostra civiltà, ma deformano senza rimedio i vostri giudizi.
— Può darsi. Ma non vedo che cosa c'entri con le tue facoltà terapeutiche.
— Io non sono un medico, Sir. Se uno dei vostri medici mi sentisse, mi considererebbe anzi piuttosto malato che medico. Io vedo chiaro nelle malattie solo perchè vedo chiaro nelle cause che le producono. Le guarisco perchè riesco ad agire su queste cause. Esse sono psichiche. Ogni malattia, ogni affezione, ogni disturbo del corpo ha origine in uno squilibrio psichico. Chi di voi, avvezzi come siete a dividere il «fisico» dal «morale», il «materiale» dallo «spirituale», potrebbe seguire Qhuen-lì su questo terreno?
— Più di quanti tu non creda. Anche in mezzo a noi si pensa che vi sia relazione fra stato d'anima e salute.
— Sì, finché si tratti di relazioni vaghe, generiche, anche voi pensate che il corpo influisca sullo spirito. Ma se Qhuen-lì vi dicesse che avviene proprio il contrario? Se Qhuen-lì vi dicesse che il dito pollice della vostra mano sinistra è in istretta relazione con il vostro particolare modo di comportarvi di fronte a certe determinate sensazioni? Se vi dicesse, meglio ancora, che la callosità del vostro piede è indice infallibile di un ben definito piccolo turbamento nell'armonia delle vostre «facoltà spirituali»?
— Ti tratterei, a dir poco, alla stregua dei chiromanti e degli astrologi. E intanto aggiunsi ridendo — ti pregherei subito di influire sul «ben definito piccolo turbamento» in modo da farmelo sparire.
— I chiromanti sono come fanciulli che si balocchino con un testo sacro — rispose Qhuen-lì, in modo che mi fece suonar nella mente il... «ed esser puote con intenzion da non esser derisa». — Essi sono degli empirici e non sanno quello che fanno. Se invece di cercar nella mano i segni del destino, guardassero le mani per cercar di trarne qualche modesta esperienza, brancolerebbero meno. Tutto ciò che è del corpo riflette, dimostra, simboleggia, se più vi piace, tutto ciò che è dello spirito. Ma per voi la parola spirito risveglia immagini di fantasmi appartenenti ad una sfera trascendente, che sarebbe delitto profanare con l'indagine.
— In realtà per noi, Qhuen-lì, spirito significa contrapposto e quasi antidoto di materia. Noi abbiamo un elevato concetto di queste immaginarie entità spirituali.
— E che cosa pensate sia il corpo, rispetto allo spirito?
— È una specie di recipiente, che lo contiene e ne riceve la vita.
— E credete che il vostro spirito potrebbe aver altro recipiente, ossia esser contenuto in un corpo diverso?
— Io credo di sì.
— No, Sir. Il corpo non può essere un altro. Il vostro spirito lo ha costruito, per abitarvi, fin da quando voi eravate nel grembo della madre; in una maniera assolutamente propria. Esso si è rivestito di carne nel modo, e nel solo modo, capace di affermare nel mondo la «sua» personalità; la personalità che ora è «vostra», Sir. Perciò la corrispondenza tra «voi» e la figura umana che vi incarna è rigorosa ed assoluta.
— Eh! eh! — interruppi, trionfante. — Questo vorrebbe dire che due uomini perfettamente identici, Qhuen-lì e un suo sosia, dovrebbero pensare sentire e agire nello stesso modo.
— Certamente, Sir, se vi fosse un altro Qhuen-lì che avesse identici a me non soltanto i lineamenti, la statura, l'aspetto, il peso, ma anche il cuore, i polmoni, il cervello e tutti gli altri organi interni.
— Bella scoperta! — esclamai. — Se vi fosse un individuo così fatto, saresti tu.
— Voi l'avete detto, Sir — rispose Qhuen-lì. E fece una pausa, lasciandomi meditare sulla piccola sconfitta.
— Andiamo innanzi, Qhuen-lì. Mi diverto.
— Immaginate, Sir, un popolo poco numeroso, omogeneo, ricchissimo, in cui la spinta del bisogno per tutto ciò che è esigenza di vita non sussista; immaginatelo, per contro, fornito di intelligenza penetrante, desiderio di conoscere illimitato, grande energia. Questo popolo senza leggi, senza classi, senza politica, a che cosa rivolgerà la sua attività? Alla conoscenza, Sir. Ma in mancanza della molla del bisogno, questa conoscenza non somiglierà a quella cui tendete voi, popoli assillati da necessità d'imperio.
— Qhuen-lì — dissi — sembra che tu parli in nome di un tale popolo. Dove è? Quale è? Vieni tu dunque da uno sconosciuto paese di Bengodi ad annunciare qualche tua novella?
— Saprete anche questo, Sir. Ma più tardi. Ora voglio dirvi soltanto che Qhuen-lì può leggere nelle malattie di una persona come in un libro. Ora voglio meravigliarvi dicendovi che non la più piccola alterazione dell'organismo avviene senza che una causa psichica ben determinata l'abbia resa indispensabile. Tutte le malattie provengono da un errore. Voi siete molto lontano dal poterlo ammettere o soltanto comprendere, per la ragione che vi ho spiegata prima, Sir. Voi vi ribellate all'idea che la «nobiltà» dei travagli spirituali possa tradursi nella «miseria» di un'alterazione della carne. Peggio ancora, avete suddivisa questa carne in regioni nobili e regioni spregevoli. Se Qhuen-lì fosse uno degli Dei venerati dagli uomini se ne offenderebbe. Quell'attribuirgli la capacità di creare cose indecenti e spregevoli gli sembrerebbe poco rispettoso e pio. Certo gli uomini finirebbero col convincerlo del contrario, perchè essi sono, specialmente in materia religiosa, argomentatori sottilissimi; ma Qhuen-lì, se fosse Dio, preferirebbe essere accettato come sempre perfetto. Perdonate la disgressione, Sir. Vi ho fatto ridere, or è poco, accennando ad una piccola affezione, molto frequente tra gli uomini ad ordinamento sociale ben definito: l'umilissima callosità di cui i vostri simili si vergognerebbero di occuparsi, come in epoche più remote sdegnavano di occuparsi della pulizia del proprio corpo. Ma se avessi parlato degli occhi, se avessi parlato degli occhi della donna che amate, certamente sareste stato disposto a crederli lo specchio dell'anima.
— Vi sono ripugnanze che non si vincono con la ragione, Qhuen-lì. Nessuno può pensare che un raffreddore, come quello che mi infastidisce ora, e cioè una cosa sgradevole, disgustosa, miserevole, possa aver origine da un «problema psichico». Non c'è nesso, non c'è riferimento, non c'è verosimiglianza, non c'è logica, non c'è senso!
— Il vostro raffreddore mi dice che voi avete voluto attingere, dalla vita, elementi nuovi, e che, al primo contatto, questo apporto vi ha sconcertato.
— Ma non è vero! — ribattei. — Nel mio caso non ho voluto attingere proprio nulla!
— Dimenticate, Sir, che voi attribuite la guarigione di Mister Hunkel a certi occulti poteri che sospettate in me. Voi non ve lo confessate, ma in cuor vostro desiderereste che così fosse. Desiderio di allargare le basi della propria conoscenza e direzione errata producono malattia agli organi del respiro.
— E nei bambini? E nei selvaggi? E negli individui cui certamente — e sono falangi — non si presentano questi tuoi «problemi psichici»?
— Manca ad essi semplicemente la coscienza, Sir. Sapete voi forse perchè siete nato? Pure il desiderio, ch'era in voi, di vivere, è stato così forte da costruire il vostro corpo. Finchè questo corpo è rudimentale l'esistenza delle forze che lo fanno vivere e progredire non può rivelarglisi, perchè non è ancora formata la sede adatta. La coscienza affiora solo nell'adolescenza, perchè soltanto allora il corpo può ospitarla.
— Viceversa ti faccio notare che vi sono individui coscientissimi i quali attraversano crisi psichiche formidabili, senza ammalarsi per questo.
— Oh, Sir, ciò significa semplicemente che quelle crisi sono adatte a favorire l'evoluzione di chi li attraversa. La malattia è frutto di un errore; e se un travaglio spirituale, per quanto forte sia, serve ad aiutare lo sviluppo armonico della personalità, non produce danno al corpo. Qhuen-lì osserva, però, che durante le crisi di cui parlate, Sir, il corpo tende a diminuire il suo nutrimento, e dimagrire.
— Ebbene?
— Inutile cercare altri alimenti spirituali, quando quello che ha provocata la crisi non è ancora elaborato, non ha ancora terminata la sua funzione, Sir.
— Supponiamo che sia vero — risposi. — Come puoi tu risalire dalle infinite malattie che esistono alle loro cause?
— Considero soltanto la sede della malattia, Sir. Per Qhuen-lì il genere di malattia ha secondaria importanza. Gli basta conoscere il posto, il luogo, ove si è sviluppata l'infermità.
— Come? Una frattura, prodotta da cause esterne ha per te lo stesso valore che un'infezione, che fosse sorta nello stesso posto?
— Si tratta di sfumature, Sir. Se voi, per, esempio, aveste avuto un temperamento violentissimo e forze psichiche interne molto rilevanti, lo stesso errato atteggiamento di fronte al nuovo che ha prodotto il vostro raffreddore, avrebbe potuto provocare in voi persino un trauma alle narici; e, se si fosse trattato di cosa meno superficiale, alla faringe, ai bronchi, ai polmoni, via via fino a produrre le più funeste conseguenze. A questi casi più gravi avrebbe corrisposto sempre uno squilibrio tra aspirazioni e possibilità, ma di ordine più elevato.
— Allora la tubercolosi, Qhuen-lì?...
— I problemi di libertà, le incapacità di cambiare l'indirizzo di ideali fondamentali, portano alle più violente malattie polmonari. Dopo forti sconvolgimenti come guerre e rivoluzioni, interi popoli possono esserne travagliati; subire forme endemiche; terribili, ma passeggere, come passeggere sono state cause. Invece i problemi di libertà che sorgono continuamente nei singoli quando hanno raggiunto un certo grado di maturazione, portano ad altre forme; se insolubili, croniche; e questo è il caso della tubercolosi.
— E le malattie che variano con le epoche? Il cancro, per esempio, attualmente così diffuso?
— Il cancro è, come la tubercolosi, una delle forme più progredite dì squilibrio. È la coscienza che tendendo man mano a sovrapporsi alle forze oscure dell'istinto, ma non ancora preparata e sufficientemente sicura, sbaglia indirizzo, e lavora a costruire dove non dovrebbe, dirigendo la propria attività verso mete erronee: il tumore.
— Ma non hai detto che il tumore significa diverse cose a seconda del posto dove si forma?
— E ho forse detto che la coscienza erri sempre nella stessa direzione? Un grande condottiero, un potente spodestato e derelitto, per esempio, difficilmente potrà rassegnarsi ad apprendere dalla vita nuove cose; il suo sogno troncato gli farà groppo nel punto della elaborazione; che giova più nutrirsi quando non si può convertire questo nutrimento in azione secondo i propri disegni? E l'organismo lavorerà a vuoto: cancro allo stomaco, Sir.
— Con ugual fondamento, Qhuen-lì, — protestai sentendomi a poco a poco mancare il terreno sotto i piedi, — potevi dire: desiderio insoddisfatto; malattia della libertà; tubercolosi polmonare, o che so io.
— Sì, in un contemplativo, Sir. Ma ho detto un condottiero, un potente. Il condottiero è essenzialmente una macchina per rifare. È organizzato in modo da trarre tutto il profitto che gli è possibile da ogni singolo fatto, per agire». Metaforicamente egli maciulla e trita gli avvenimenti per rielaborarli secondo il suo piano, il suo «demone». Non è così, Sir?
— È così, Qhuen-lì; ma queste tue sono parole.
— Trovatemi un altro modo per esprimere dei pensieri.
— Le parole hanno valore solo se una logica le sostiene.
— La logica vi apparirà man mano che vi completerò il quadro. Solo quando vi avrò spiegato, fra molto tempo, secondo un unico criterio, tutti i fatti del mondo, potrete constatare che la mia logica è completa: si chiude come un cerchio.
— Quali fatti oltre questi di cui parliamo?
— Ma tutti, Sir. Voi mi avete spiegato come è organizzato il mondo, me ne avete narrata la storia. Per «storia» ho notato che voi intendete il succedersi degli ordinamenti politici, o poco più.
— C'è la storia delle arti, dei costumi, del pensiero...
— Poco, ancora poco! Per Qhuen-lì è più interessante sapere che milioni di uomini bevono oggi la stessa bevanda, thé o caffé, per capire più che leggendo un libro di storia. L'umanità tende a mettersi su una base standard di cultura. Non è così?
— Sì ma... la relazione?
— Molta relazione. Quando la vita intellettuale era scarsa, la bevanda preferita era il vino. Vino, sole, sangue: nutrimento per le forze fisiche. Oggi si tende a dare più importanza alla testa che alle braccia. L'uso del thé e del caffé ne è un segno chiarissimo, Sir.
— E il fumo, Qhuen-lì? È una moda?
— Desiderio di libertà. Molto diffuso, oggi. Non parlo di libertà politica. Libertà di coscienza, di arbitrio, di giudizio. Occorrendo, per raggiungerla, aumentare lo sforzo dell'impulso evolutivo, l'aria non basta ai polmoni; e l'uomo cerca qualche cosa che gli dia l'impressione di respirare più ampio. Il fumo è questo qualche cosa.
— Veleno per l'uomo di ieri e forse per quello di domani. Oggi è necessario. Tutto è necessario, quel che è.
— Anche il chewing-gum?
— Desiderio di addentare e masticare qualche cosa? Indice di un bisogno continuo di assimilazione, di una tendenza a servirsi di qualunque cosa a proprio profitto ed incremento. Non sono forse i popoli giovani, ardenti di entusiasmi, assetati di potenza, che masticano la gomma?
— Non conosco l'America. Ma a quel che ho sentito è un paese in crescenza; con febbre.
— Insomma, secondo te tutto è naturale, semplice, ovvio e liscio come l'olio.
— Tutto va nel migliore dei modi affinchè il mondo intero cammini verso le sue mète. Naturalmente siccome esso è abitato da uomini a gradi di maturità enormemente diversi fra di loro, questo non può essere compreso da tutti. Posso ritirarmi Sir?
— Non prima di avermi detto perchè hai avuto bisogno di immaginare quella féerie per guarire Hunkel.
— Il prof. Hunkel soffriva da tempo di non poter dedicarsi ai suoi studi prediletti. Come geologo della spedizione si era stancato. Egli preferisce il suo istituto e la sua cattedra. È venuto qui per ambizione; perchè un rifiuto lo avrebbe danneggiato. Non prevedeva che ne avrebbe molto sofferto. E la crisi è avvenuta. Il prof. Hunkel, convintosi a poco a poco d'esser stato tradito dalla sorte, era incapace di sopportare più oltre le costrizioni di questa vita. Problema di libertà, Sir. Insofferenza della propria condizione, non materiale (altrimenti sarebbe stato colto da semplici dolori), ma morale; mancanza di entusiasmo, insufficienza di impulso a superare il momentaneo disagio. Ho dovuto metterlo di fronte ad un problema molto più grave. La sua coscienza ha deciso come volevo. Con lo sforzo fatto per rassegnarsi a morire, si è rimesso sulla via buona. Basta un leggero mutamento di indirizzo per produrre grandi effetti. Ora il prof. Hunkel vuole vivere; prima il suo desiderio era puramente cerebrale. Posso ritirarmi? Buona notte, Sir.
Due anni erano trascorsi. La spedizione, assolto il suo compito, s'era sciolta a Londra; i membri s'erano dispersi; di tutta l'immensa congerie di fatti, audacie, sofferenze, trepidazioni, commozioni, che aveva formato giorno per giorno durante tanti mesi la nostra vita nel deserto più orridamente bello del mondo, non rimanevano più che poche libbre di carta stampata; relazioni, monografie, la descrizione ufficiale del viaggio (due sterline, in brochure, con prefazione del Sottosegretario all'Istruzione) e un cumulo di memorie, queste ultime incomunicabili ed incommerciabili, che formavano l'orgoglio ed il privilegio di noi appartenenti alla spedizione, cui era rimasto nell'animo, più che una serie di ricordi, come una grande aurora boreale di immagini e di nostalgie, e per cui il mondo di coloro «che non c'erano stati» pareva un insieme di uomini, sì, ma con qualche cosa di meno, qualche cosa che li confinava in una sfera ineluttabilmente diversa.
Era uscito quel mattino, per fare delle compere. S'era così presto occidentalizzato, l'ottimo Qhuen-lì, che ormai il solo colore del suo pigmento, e l'architettura mongolica del volto erano rimasti a testimoniare la razza. Qhuen-lì, il cencio umano raccolto presso le sorgenti dell'Jenissei, era ora mio segretario. Il mio posto di direttore della «Rivista internazionale d'astrofisica» mi permetteva di tenere ben due segretari; uno tecnico ed uno per l'amministrazione; e Qhuen-lì aveva quest'ultimo incarico; nè potevo desiderare individuo più coscienzioso e scrupoloso. Di tutte le mie preghiere e pressioni perchè egli uscisse dall'ombra in cui desiderava ad ogni costo restare egli non aveva mai voluto tener conto. Ero riuscito a fargli riunire in un volumetto tutta la sua dottrina sulla natura umana e sui suoi tralignamenti. Ma quando s'era trattato di darla alle stampe nè il solleticarlo nel suo orgoglio, nè l'adescarlo con la promessa di guadagno erano valsi a nulla.
— Qhuen-lì è ricchissimo, Sir, — rispondeva — perchè Qhuen-lì non ha bisogno di nulla. Qhuen-lì desidera soltanto osservare, e questo suo posto presso la «Rivista» è eccellente; Qhuen-lì non vuole niente altro per sè; e quanto al dare agli altri qualche cosa, non gli è possibile. Il mondo non è maturo abbastanza.
— Avanti.
— C'è una lettera. L'hanno portata or ora alla portineria.
L'indirizzo era dattilografato. Stracciai con indifferenza la busta e mi balzarono agli occhi i caratteri minuti e legati di Qhuen-lì.
«Qhuen-lì deve lasciarvi, Sir. Il periodo che egli aveva assegnato alla sua permanenza tra gli uomini della vostra società è compiuto. Qhuen-lì ritorna là di dove era venuto.
«Salutate per me tutti i membri dell'indimenticabile missione coi quali ho avuto l'onore di vivere in un periodo tanto interessante e ringraziateli per me. Ringraziate anche il dottor D'Obre e assicuratelo che non l'ho mai disprezzato in cuor mio. Egli è soldato di una milizia cui sono riserbate grandissime vittorie e conquiste, coll'andar dei secoli. Se Qhuen-lì fosse venuto fra voi trecento anni più tardi non avrebbe forse meravigliato più nessuno; anzi sarebbe rimasto meravigliato egli stesso.
«È ciò che Qhuen-lì cercherà di fare, Sir. Sarà molto addolorato di non ritrovare più il suo buon padrone e compagno che lo ha così affettuosamente curato e aiutato; ma non è in potere di Qhuen-lì prolungargli la vita fino al suo ritorno. In cambio del bene ricevuto Qhuen-lì non può lasciarvi che il suo libretto, chiedendo di impegnarvi a non stamparlo mai. Se vorrete dirne qualche cosa potete farlo, Sir; a patto che lo facciate in forma tale che chi vuol ritrarne giovamento e meditare quelle verità, possa farlo; e chi non vuole possa credere che abbiate dato sfogo soltanto all'estro della vostra fantasia.
«Ora dovrei dirvi chi io sia, Sir, e come e perchè sia apparso alla vostra spedizione in quelle circostanze che vi parvero misteriose e alle quali il libro del rapporto ufficiale dedica mezzo capitolo con molta bontà. Nessuna delle ipotesi che avete fatte corrisponde al vero; io non appartengo ad alcuna tribù mongolica, nè sono stato abbandonato come predone.
«Vengo da una lontanissima civiltà, Sir, di cui i vostri savi ignorano l'esistenza confondendola con altre civiltà distanti molti secoli. Vengo da una civiltà cinese anteriore di circa quarantasei secoli — se ho ben calcolato — a quella civiltà cinese intorno al 3000 a. Cr. di cui parlano i vostri testi. In quel tempo fioriva un popolo di cui io sono l'ultima fronda. Voi non potete comprendere che cosa significhi vivere come ho fatto io, per tre anni fra uomini di ottantasette secoli più evoluti. È come trovarsi su un altro mondo, Sir. Qhuen-lì ha dovuto avere molta forza d'animo per resistere. Si è sentito staccato, isolato, spaventosamente solo anche fra gli amici e i buoni benefattori come voi. Miracolosamente l'unico frutto della civiltà a cui io appartengo era stato proprio quello che permette all'uomo di potere sopra sè stesso quello che voi, malgrado la vostra civiltà enormemente superiore, non potete. Al mio tempo la vita era racchiusa entro termini angusti. Il nostro paese non era vasto più di qualche centinaio dei vostri chilometri. Ma nessuno pensava di uscire da questi confini perchè mancava l'impulso. Voi mi avete tante volte chiesto, Sir, perchè io respirassi così debolmente; la nostra razza aveva piccoli polmoni, Sir. Essa non si rivolgeva verso il mondo esteriore, ma verso quello interiore. Se foste vissuto fra di noi vi sareste meravigliato di vedere gli uomini quasi sempre apparentemente inattivi. Le attività del nostro popolo erano rivolte verso gli abissi dello spirito da cui voi rifuggite impauriti. Le posizioni che noi espugnammo, voi le cingete d'assedio. Arriverete dove noi siamo giunti, arricchendovi per via di una infinità di segreti che noi ignorammo sempre. Insieme al problema dell'uomo risolverete il problema del mondo e forse di tutto il vostro universo. Camminate attraverso spaventevoli errori, ma è il solo modo di camminare sui pianeti il cui asse è inclinato e alterna estati ed inverni.
«La nostra civiltà datava da circa sei secoli; essa risaliva dunque a circa 7600 anni prima di quel vostro Messia che credo sia stato il più straordinario essere apparso sinora sulla terra, Sir. Noi non avevamo religione perchè non abbiamo mai sentito il bisogno di attribuire ragioni provvisorie a quello che non intendevamo.
«Non avevamo ordinamenti sociali. La malvagità era sconosciuta. Nessuno pensava che il male fosse male. Molte cose si facevano che le vostre leggi condannerebbero ma noi non ci accorgevamo di far del male. Per farmi comprendere da voi vi dirò che noi eravamo osservatori della vita. Ci interessava assai di più sapere che fare, conoscere che far conoscere. Così era il nostro popolo, Sir, nè io so che cosa ne sia accaduto e quanto sia durato. Certo è scomparso da tanto tempo e così completamente che non è rimasta alcuna traccia. Qhuen-lì è rimasto solo, Sir, assolutamente e totalmente solo. Egli si era seppellito poco lungi da dove voi lo avete trovato, una sera ch'egli non può dimenticare. Molti uomini erano venuti ad assistere alla sua catalessi che avrebbe dovuto durare tanti millenni. Egli non era solo. Era con lui un altro della stessa razza, un giovane, quasi un ragazzo, che aveva voluto anch'egli sottoporsi al grande esperimento. Sono discesi insieme in due tombe provvisorie, e nel letargo che è durato tanto a lungo.
«Quando Qhuen-lì si è destato, Sir, ha cercato il suo compagno. La tomba era vuota, scoperchiata, e l'apertura corrosa. Da molto tempo il suo compagno doveva essere uscito. Perciò Qhuen-lì è rimasto solo; ed è mosso solo e inerme verso la vita, verso il campo che aveva intraveduto e dove è stato salvato.
«Ora Qhuen-lì ritorna alla sua tomba, Sir. Non può resistere in questo vostro mondo. Tenterà di riprendere la catalessi da solo. Se gli riuscirà risorgerà fra trecent'anni. Forse allora potrà trovare l'evoluzione degli uomini più avanzata, potrà trovare un ambiente che gli permetta di vivere ancora senza troppo soffrire. Qhuen-lì ha circa ottomila novecento anni, di cui trentacinque vissuti. Addio, Sir.
«Vi mando l'estremo mio saluto, l'estremo mio ringraziamento. Che lo spirito del mondo vi sorregga e vi aiuti e vi dia felicità per il bene che mi avete fatto e forza per il male che siete condannato a soffrire fra i vostri uguali!
«Qhuen-lì».
Ed eccoci a Irkutsk, con un apparecchio della «Luft Hansa», Hunkel ed io, come trasognati, come pazzi. Che cosa ci agitava tanto fortemente? Perchè quel morboso interessamento per la sorte di Qhuen-lì? Io non so. Io so che sia a me che al tedesco, cui avevo partecipato telegraficamente la notizia della scomparsa di Qhuen-lì, e che m'aveva fatto trovare a Thempelhof il bel trimotore, il rintracciamento di Qhuen-lì si presentava come una necessità assoluta, un imperativo che non ammetteva transizioni. Sembravamo spinti da una forza misteriosa e prepotente. Raggiungere Qhuen-lì, fermarlo, impedirgli di mettere in atto il suo progetto; almeno farlo parlare, almeno carpigli, prima della scomparsa, i segreti che non aveva rivelati ancora. Una civiltà da mettere in luce! Un mondo ignorato da svelare, una missione di civiltà da compiere! E Qhuen-lì era già ripartito, Qhuen-lì camminava già lungo la via di Urga. Per due giorni preziosi perduti a Berlino in trattative, ecco che Qhuen-lì ci sfuggiva, ecco che forse non l'avremmo raggiunto...
Lo ritrovammo.
Trovammo una tomba di pietra, semplice, coperta da una sottile lastra di marmo che certo egli aveva tirato da solo sulla propria testa, per ricoprirsi. La tomba era in fondo ad un dedalo di caverne. Erano occorsi giorni e giorni di perlustrazioni per rintracciarla al lume di torcie che rendevano l'aria irrespirabile; e cento volte avevamo sussultato, tratti in inganno da qualche stipite roccioso, da qualche lastrone, da qualche ombra in quell'ombra.
Accanto alla sua era un'altra tomba, come egli aveva detto scoperchiata, vuota. Nel silenzio greve di tutti i millenni che parevano pesare nella caverna, alzammo il coperchio. Qhuen-lì giaceva nella sua teca, immobile, rigido, ormai immerso nel letargo che aveva annunciato.
Soltanto dopo molto tempo mi accorsi che la tomba vuota, l'altra, portava, graffiti nel vivo della pietra, alcuni caratteri.
Osservammo lungamente. Poi Hunkel si drizzò, fissandomi in faccia con due occhi dilatati:
— Cinese! Cinese! Questo è cinese antico! Ed è il nome del compagno, dell'altro, svegliatosi tanti anni prima.
— Ma chi? Ma chi?
Hunkel gridò il nome; e sotto la volta della caverna, nello sbigottimento che seguì la rivelazione, parve aleggiare l'ombra del grande Ospite; parve, il giovinetto Li-Pe-Jang della leggenda, nato dopo ottantun anni di concezione, sorgere dal sepolcro e muovere, come venticinque secoli addietro, verso il mondo; già illuminato, già pronto al gran cammino, già Lao-Tsè.