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Giorgio Cicogna
I ciechi e le stelle

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L'OVIGDOI

 

«L'orso non era ancora apparso nelle caverne della Lunigiana.

Allo Zenith costellazioni scomparse roteavano sulla Terra che, già fuor d'adolescenza, esprimeva con fecondità impetuosa specie e stirpi. Dal tropico all'equatore, tra le isole Figi e le Marshall, un continente brulicante di vite scioglieva ai venti del sud la chioma delle sue sterminate foreste.

Uomini senz'aratri e senza carri, cavalcatori di bisonti e cacciatori d'aquile, l'abitavano; bruni, massicci, dai denti scintillanti, dai garretti infaticabili. Da poco avevano strappato alla natura il segreto del fuoco. Spuntava, in gemma, sulle loro bocche, la parola.

 

Una notte, uomini e bestie e cose e le campagne e i boschi e i monti, tutto quello che viveva e che vegetava e che stava, tutte le immagini dell'immenso e dell'eterno, tutto fu inghiottito. Scese giù, in profondo, per un'estensione di milioni di chilometri quadrati, tutto il continente; giù per metri, centinaia di metri, miglia, decine di miglia. La madre terra, folle, divorava i suoi figli, uccidendoli, prima di inghiottirli, d'orrore; e nasceva l'Oceano Pacifico.

 

Non morirono tutti. Presso i margini della frattura qualche migliaio di disperati avvinghiati alle zolle ai tronchi ai cespugli, resistette. Udirono il rombo della catastrofe ascendere, via via, verso l'alto, verso la superficie, dov'era rimasta la vita; perdersi quasi nella lontananza, confondersi con l'urlo del mare che sopraggiungeva. Poi la Terra, rovinando, si richiuse sul loro capo; senza cielo tutto parve esser finito. Nella terra fredda e nera, sotto l'oceano ruggente, dieci, venti miglia sotto il fondo, folli di terrore, udirono gli echi spegnersi lontano, ad uno ad uno.

Il silenzio delle tombe scese, gelido, nel gran sepolcro. Sole, nella immensa quiete sotterranea, le grandi ali della morte.

E non morirono.

La suprema virtù della conservazione ebbe ragione della violenza distruggitrice. La rovina di un mondo caduto entro un'immensa falla sotterranea non bastò a spegnerla. Era rimasto, nel volume colmato dal gran sprofondamento, un labirinto di fratture e di caverne. Filtravano fra i blocchi accatastati, fiotti d'aria; colavano fra roccia e roccia acque tenebrose per le bocche assetate e le ferite brucianti. La vita, miracolosamente sospesa nei primi momenti al filo dell'impossibile, osò durare e perpetuarsi. Ma gli uomini ciechi che seppero divorare i più deboli perchè la terra non divorasse tutti, e bere il fango nero senza vederlo, e resistere al peso smisurato delle pietre al di là delle quali era il sole, non seppero allora quale tragedia dovesse scaturire da quella disperata battaglia.

Cento volte sul punto di spegnersi per fame, pascendosi spesso di sè stessa, usando sino agli estremi limiti la risorsa d'adattamento, la razza sciagurata che si sviluppava in quelle tenebre, vittoriosa d'ogni insidia e d'ogni avversità, potè finalmente trovare la via della salvazione: quella del nadir. Scesero giù, secolo per secolo, i sopravvissuti, sempre più dentro e in profondo; fino alla zona delle argille e delle terre molli. I geologi ignorano questi strati, capricciosamente avvicendantisi a duemila miglia dalla superficie; ma nel cuore del mondo, vari e ineguali, serpeggiano e s'insinuano sedimenti meno densi, umidi, tiepidi, conservanti forse i caratteri del pianeta quando la condensazione non era ancora compiuta. Miriadi di esseri sconosciuti brulicano in quelle velme; e furono, per gli sperduti dell'ombra, la vita.

E i millenni fluirono; e gli uomini si trasformarono.

Gli occhi impararono a raccogliere vibrazioni che a noi rivelano stentatamente solo strumenti complicati; l'udito raggiunse una sensibilità sovrumana. Altri sensi lentamente si svilupparono. Facoltà nuove si sovrapposero alle antiche. Nel contatto continuo con la terra le membra si ricopersero di cartilagini; poi di una scorza cornea, più dura ove maggiore era il bisogno. Gli arti divennero arnesi da scavo e da traforo. Lasciata la posizione eretta, gli uomini strisciarono come rettili. Una mostruosa contraffazione della razza umana invadeva lo sterminato volume che il destino aveva ad essa assegnato.

Ma nella stirpe il ricordo del gran cataclisma non era spento. L'eco della tragedia remota si ripercoteva di millennio in millennio, senza affievolirsi. Civiltà strane e difformi, coll'affinarsi degli intelletti, si alternarono, rotte da pause sanguinose di guerre e di sventure; e la coscienza del bene perduto, la coscienza d'un cielo e d'una libertà, s'ingigantiva man mano, martellava le generazioni con un suo ritmo cupo ed implacabile, con un desiderio crescente di rivincita e di vendetta. La vita che a tutto s'era adeguata e di tutto, trasformandosi, aveva saputo trionfare, non sapeva e non voleva rinunziare al Sole. La necessità invitta proruppe in un gigantesco assalto alle stelle. I sepolti vollero uscire. Chiusi ad ogni distrazione del di fuori, opachi ad ogni dolcezza della creazione, assorti, perduti in questo sogno sovrumano, la loro volontà, rigida e compatta come la roccia che avevano abitato, si scatenò in un turbine di sforzi, centuplicata dalle sconfitte.

Tentativi assurdi, grandiosi come disegni di arcangeli ribelli, furono operati perchè il muro di migliaia di miglia fosse aperto. Energie incommensurabili, rubate alla terra attraverso i segreti delle sue viscere, furono sprigionate dai minerali e dai metalli e sferrate contro la scorza inesorabile.

I pigmei addentarono il gigante ad eserciti di milioni.

Tutto ciò che di noi si disperde nell'azzurro degli infiniti, si rivolgeva in essi, addensandosi e concentrandosi, in quell'unica idea; ma ogni fatica falliva.

Allora chiesero al loro Dio la vendetta. Su, su, fin dove era possibile giungere, scavarono una immensa caverna. Là, da secoli, senza tregua accumulano una materia molle e glutinosa, che ha in sè la potenza di cento esplosivi. L'accumulano, in montagne incorrotte come di glomi scintillanti, i cupi uomini dell'ombra, pregni di tutto l'odio covato contro la cieca natura che li condannò, in tanti millenni di disperazione. Quando il momento sarà giunto, gli uomini della notte s'aduneranno verso l'antipodo della gran mina. Attenderanno tremando il rombo della liberazione. Poi, rotta la terra, aperto il cratere, si slanceranno, rigurgitando a miriadi, fuor dello squarcio, assetati di vendetta.

 

Spesso, nelle mille officine che preparano la sostanza terribile, piccoli frammenti deflagrano. Corre per la Terra un breve sussulto. Qualche volta le penne dei sismografi ne impazzano. Nei primi esperimenti, molto tempo fa, un incidente di questa natura ebbe le proporzioni di una catastrofe. S'aperse un grande squarcio; vi fu inghiottita l'Atlantide».

 

«Bene pensò appena ebbe finito di rileggere — proprio bene». Forse quell'accenno all'Atlantide era un po' banale, ma l'effetto c'era. Anche quell'idea delle esplosioni, benchè alquanto... apocalittica, poteva correre; il pubblico digerisce anche di peggio, se si sa fare. Soddisfatto, posò la penna, ripose le cartelle nel cassetto, s'alzò, uscì sulla passeggiata scoperta. Quattro colpi doppi erano battuti da un pezzo alla campana di poppa; la mezzanotte era rimasta laggiù, dove la scia più lontana si perdeva nell'ombra della notte. In alto era un formicolìo di stelle; tante che pareva impossibile l'occhio ne potesse discernere soltanto mille, come attesta l'esperienza. Gli sembrava che ne avrebbe potuto contare infinite, e via via che l'occhio si adattava all'oscurità il polverìo luminoso si faceva più fitto. L'immensa costellazione dello Scorpione, incombeva alta con le sue chele smisurate. Ancora quaranta ore di fremiti; poi la nave, finita l'interminabile traversata, avrebbe approdato a Yokoama.

Passeggiò a lungo, a capo scoperto, fantasticando. Ottima, quella idea di ingannare la noia della navigazione scrivendo. Il ritmo del pensiero s'accorda con quello delle eliche; la fantasia va sciolta, la penna corre senza inceppo. In otto giorni, pur concedendo al bridge, all'ozio, al riposo e alla conversazione i loro diritti, aveva buttati giù, quasi senza fatica, sei racconti. Calcolò mentalmente quanto gli avrebbero fruttato; a tenore di contratto la somma uguagliava quasi l'importo del biglietto. Tempo speso bene.

Guardò giù nella fosforescenza dell'onda e pensò rabbrividendo alla profondità di quell'acqua cupa su cui la nave correva leggera, rollando appena sull'onda maestosa del Pacifico. La grande fossa nipponica doveva essere prossima, con la sua voragine di diecimila metri. Di laggù, dal fondo, a un occhio che avesse potuto vedere, il grande transatlantico con tutto il suo carico umano di speranze e di vanità, sarebbe apparso come un minuscolo oggetto oblungo e nerastro. Gli vennero in mente i suoi immaginari abitanti degli strati profondi del pianeta, e sorrise. Poesie! Sì, certo, egli poteva ben dirsi un poeta. Non è da tutti, in fondo, creare con l'immaginazione un mondo e popolarlo di esseri; e narrarne le vicende in modo da dare l'illusione della verità.

Questo è proprio creare; fare, «poiéin»; e questa facoltà è una grazia che gli uomini riconoscono e pagano. Mille lire un racconto che gli era costato quattro ore di lavoro; duecentocinquanta lire all'ora; più di quattro lire al minuto; questo era l'equivalente tangibile di quel misterioso processo che è il pensiero, quando questo processo si svolgeva nella sua testa. Purchè duri — pensò; — e, dato un ultimo sguardo al mare, rientrò nella sua cabina, si spogliò, si ficcò in cuccetta e prese ad annotare diligentemente sul taccuino le spese della giornata.

 

La prua del «Lincoln» s'incastrò così profondamente nel fianco squarciato del transatlantico che stagnò nel primo momento la falla come un gigantesco tampone; e una parte dei passeggeri potè trovare uno scampo sulla nave investitrice. Poi il mare separò le due navi; quella ferita, piegando lentamente, cominciò ad affondare; l'altra, con la prua accartocciata e contorta, rimase, sfiatando vapore, a cercar di salvare i naufraghi alla luce dei proiettori convulsi. Ma il transatlantico era colpito a morte; la sua agonia fu breve; undici minuti dopo l'investimento, con una gigantesca capovolta, si inabissò.

 

Ancor desto al momento dell'urto, il «poeta» s'era precipitato sul ponte in pijama; ed il suo primo istinto, intuita la tragedia, era stato quello di gettarsi in una imbarcazione di salvataggio che aveva visto gremirsi, con rapidità sorprendente, di esseri urlanti e gesticolanti, sbucati come per incanto da ogni parte. La riflessione di un momento lo salvò; la sua cabina era in coperta; pensò che avrebbe fatto in tempo a salvare i valori che aveva con sè.

Quando tornò fuori, l'imbarcazione era già rigurgitante e non potè più salirvi; intravide la prora dell'altra nave ancora incastrata nel fasciame, vi si arrampicò; fu raccolto; gli altri, quelli che erano rimasti nella scialuppa, non riuscirono, nella confusione, a dipanar le cime per filarsi giù; e la nave li trascinò con sè.

Ansante, col cuore in tumulto, la gola riarsa, le labbre tumide e bianche, egli vide, dal castello della «Lincoln» la fine della nave che per otto giorni, sicura e superba, lo aveva portato sull'Oceano; la vide come un cetaceo colpito che si rovesci sul dorso, capovolgersi; poi, tra getti di fumo e di vapore, tra bagliori di incendio e stridori d'acqua, e urla di disperati, rapidamente affondare e sparire. Qualche centinaio di puntini neri agitantisi fra le bizzarre sagome di rottami, fu tutto ciò che rimase a galla, sul mare liscio e indifferente.

 

Una grande notizia era corsa di caverna in caverna, laggiù, tra il popolo dei senza Sole; una notizia che meritava di essere ascoltata. Uno, non si sapeva ancora chi, era riuscito a trovare la via dello zenith; e sfidando i pericoli della rarefazione, era salito fino al limite misterioso, fino al termine al di là del quale secondo la leggenda, erano soltanto gli abissi senza fine del vuoto assoluto.

Questa volta non si trattava di una fantasticheria. L'esploratore aveva portato con sè, al ritorno della sua impresa, testimonianze certe; frammenti di corpi ignoti, esemplari di specie animali sconosciute; di più, la descrizione che egli aveva fatto del «vuoto» sembrava accordarsi con le ipotesi più verosimili.

Una spedizione in grande stile fu presto organizzata. Benchè si trattasse di affrontare le fatiche di un'ascensione di qualche mese, irta di difficoltà e di pericoli, lungo spaventevoli strapiombi e gole inesplorate, i volontari che si offrirono furono innumerevoli. Una pagina decisiva per la storia degli abitanti delle tenebre stava per essere voltata; l'enigma che aveva tormentate tante generazioni stava per essere risolto; si sarebbe finalmente saputo che cosa riempisse quel tanto discusso «al di là» di cui sino allora si era saputo soltanto «che nulla escludeva la sua esistenza».

Quegli uomini sotterranei non erano l'orda quasi demoniaca che il poeta aveva immaginato; nè presentavano tali differenze organiche da non poter essere riconosciuti per nostri simili. Essi non meditavano «assalti alle stelle», nè preparavano esplosivi per far saltare il coperchio della loro prigione; e della scomparsa dall'Atlantide erano innocenti.

Erano poveri uomini come noi di stirpe terrestre, rinchiusi da dodici millenni nelle viscere della terra. Prima dei tempi ormai dimenticati della catastrofe, la loro razza aveva abitato gli altipiani dell'America meridionale; ora, dopo tanta prigionia, viveva sotto il gran corpo del Pacifico, molte miglia più giù delle più profonde fosse, e il suo regno, arcipelago di innumerevoli caverne, esteso in tre dimensioni, scendeva fino a lambire quasi gli strati caldi su cui si perde la crosta del pianeta.

In quel regno la pressione dell'aria, cui un ciclo di trasformazioni restituiva senza tregua l'ossigeno incessantemente combinantesi, dal giorno dello sprofondamento, era andata via via lentamente crescendo. Nello sterminato labirinto di cavità sotterranee, per secoli, quasi insensibilmente, una legge misteriosa pareva aver fatto confluire altra aria; ancora aria; e la densità del fluido era diventata così grande, che un essere terrestre, trasportato in esso, vi sarebbe imploso come un uovo in fondo al l'oceano.

Ma gli abitanti di quel mondo, gradatamente adattandosi, s'erano permeati piano piano di quella pressione sin nei più minuscoli vasi, sin nei più piccoli interstizi fra cellula e cellula; di generazione in generazione gli organismi si erano andati adattando allo schiacciamento; come nei pesci abissali in cui gli organi più delicati possono resistere alla pressione esterna perchè nulla contengono che non partecipi di essa, così anche nei loro corpi la struttura interna s'era modificata, adeguata alla necessità, resa capace di assicurare il normale svolgersi di vita. Vivendo inoltre in un ambiente in cui l'aria aveva ormai un peso specifico di poco inferiore a quello del loro corpo, essi avevano quasi perduto il grave attributo del peso; e potevano fluttuare nel loro regno con una lievità che era smorzata soltanto dalla densità del mezzo. La stessa sorte che li aveva condannati, essi fatti per vivere in superficie, ad un mondo tridimensionale, offriva, quasi pietosa, un compenso in questa facoltà di spostarsi verticalmente, che derivava dalla perdita del peso. Ascendere lungo una parete a picco, calarsi in una voragine, passare da un lato all'altro di un crepaccio, era per essi altrettanto facile come per un nuotatore spostarsi nell'acqua; identiche anzi a quelle che noi proviamo nuotando sommersi, erano tutte le loro sensazioni relative allo spostamento; e identica la fatica; insensibili alla pressione ormai perfettamente equilibrata, essi erano in tutto e per tutto creature abissali natanti in un oceano gassoso, in una tenebra rotta solo da bagliori di fosforescenze e da qualche raro affiorar di riflessi provenienti dal fondo di qualche baratro.

In quell'ombra, se la facoltà di percepire i colori s'andava a poco a poco perdendo, s'era in compenso prodigiosamente sviluppato il tatto. Nei punti dell'epidermide in cui esso era più ottuso, superava la sottilità di percezione del più delicato dei nostri polpastrelli; e all'estremità degli arti s'era fatto così perfetto da poter raccogliere la gamma più grave delle vibrazioni sonore che correvano per l'aria; e in quel mondo denso e massiccio, i suoni trovavano il loro elemento; correvano, si riflettevano, si rifrangevano in mille echi, si sfrangiavano in mille mormorii.

Tale era il dantesco regno dei confinati; e tali erano i suoi abitatori; poveri uomini del resto, come noi, tra cui erano fiorite civiltà, scoppiate guerre e rivolgimenti, vissuti pensatori e profeti; poveri uomini ciascuno chiuso, come noi, nel mallo della sua piccola vita, ciascuno, come noi, anelante e a un tempo pauroso d'uscirne; e come nella nostra aiuola al richiamo di qualche affascinante avventura, così tra essi alla notizia della grande impresa migliaia di cuori avevano palpitato, offrendosi. La sorte scelse i privilegiati; e una piccola carovana di studiosi, guidata dal solitario esploratore che primo aveva osato, incominciò lentamente l'ascesa.

 

Qualche cosa di indefinibile, un giorno, avvertì i quattro superstiti che un cambiamento stava per prodursi nella zona lungo la quale, affranti di stanchezza, assiderati, ansimanti per la rarefazione dell'aria, stavano ascendendo ancora, con la disperata ostinazione della volontà che non vuol cedere. L'ultima vittima, pietosamente ancorata ad un roccione, era rimasta laggiù, mezzo miglio più in basso, fulminata da un'embolìa; alla penultima aveva fallito il cuore; otto altri s'erano perduti lungo la tremenda via, spezzati dalle fatiche, dalle privazioni, da quella terribile embolìa in agguato ad ogni svolta, ad ogni ripiano, ad ogni metro di quota guadagnata. A mano a mano che la meta si avvicinava, la salita diventava più faticosa; il corpo perdeva lena e scioltezza; anche il leggero aumento di peso — pochi grammi ogni cento metri — diventava un aggravio insostenibile; per poco che l'esplorazione si fosse prolungata, anche i quattro sopravvissuti avrebbero dovuto cedere e fermarsi, o perire. Ma il freddo, quel freddo strano, umido, penetrante, si mutò a un tratto in una specie di vento zenitale, che scendeva giù a folate; una luminosità bluastra, che i nostri occhi avrebbero appena percepita, ma che ai loro avvezzi alle tenebre, parve un chiarore d'aurora, balenò attraverso le fessure di una rocciaia; un senso inesprimibile di liberazione scosse come un brivido i corpi esausti; e in un ultimo sforzo, come naufraghi che s'abbranchino alla proda, i quattro uomini della profondità riuscirono ad emergere.

Il cielo.

 

Il cielo. Quello era il cielo, l'Ovigdòi della leggenda, l'ossessionante chimera di innumerevoli generazioni, il sogno che avevano sognato i padri dei padri remoti, il luogo favoloso ove si radunavano le anime dei buoni dopo la morte.

Il cielo sterminato, uguale a sè stesso in ogni punto, senza roccie e senza burroni, senza suoni e senza fremiti; il regno della luce e della pace, l'infinito visibile e percepibile; vuoto che sovrasta il pieno, nulla che si dilata sulla materia.

Quello era il cielo, spazio senza forma e senza dimensioni, lago d'aria immobile sull'immenso tavolato del mondo; e la superficie di quel mondo, estendendosi senza confine all'intorno, era il termine fra la roccia e l'aria, fra la materia e il fluido, fra il regno della vita e il deserto dell'inabitato.

Dimenticata ogni pena, i quattro piccoli uomini sbarravano intorno gli occhi, assetati di quella luce che pareva ad essi immensa, agitando le dita a raccogliere attraverso il tatto prodigioso, i messaggi di quello spazio in cui si sentivano tuffati come in un bagno di felicità. Come anguste, tetre, buie, apparivano ora al confronto di quell'immensità azzurrina ed uguale, le più ampie caverne del loro mondo sotterraneo! Come ineffabile la sensazione di gioiosa libertà, che si accompagnava alla contemplazione di quell'infinito!

Saziata che fu la prima fame degli occhi, cauti, quasi timorosi di profanare la solennità augusta dello spettacolo, mossero i primi passi in quel deserto che il piede umano calcava per la prima volta. Tutto pareva nuovo, meraviglioso, indescrivibile; anche la compattezza morbida di quel suolo, anche la sagoma sgraziata di uno strano piccolo essere irto di punte che si scostò, guatando quasi con ira; anche la risonanza strana che accompagnò le prime parole scambiate sotto la fascia del cielo.

— Il povero Ander aveva ragione mormorò uno dei quattro — L'Ovigdòi è aria e la superficie del mondo è piana.

— Che purezza di luce! — disse un altro — E più si guarda verso Zenith più essa si fa splendente.

Uno sguardo dei nostri non avrebbe ravvisato che un barlume appena percettibile; ma i quattro esploratori proruppero concordi in attonite esclamazioni di meraviglia.

— Chi lo illumina? — disse una voce dopo una lunga pausa.

— Forse splende di per sè; di una luce fredda, ad ogni modo. Probabilmente in qualunque posto della superficie del mondo la luce sembra più intensa allo Zenith.

— A meno che nello spazio non siano disseminate sorgenti luminose, e noi siamo capitati proprio sotto una di esse.

— Si può parlare di «sorgenti luminose» in uno spazio uguale ed uniformemente vuoto? Mi sembra assurdo. Ma lo vedremo presto del resto. Potete alzarvi ancora?

Provarono. Fosse il breve riposo, o fossero le mutate condizioni di spirito, tutti e quattro con pochi e parchi movimenti ascesero senza troppo sforzo. Via via che salivano, l'orizzonte si ampliava; la terra appariva come una distesa uniforme, sfumante intorno nel grigiore perlaceo della lontananza. A un centinaio di metri d'altezza si fermarono, adagiandosi in quel vuoto dolce e morbido che li sosteneva. Un leggero prevalere del peso li traeva giù insieme, lentamente; ma ad essi, avvezzi alla quasi assoluta immobilità in cui rimanevano quando si abbandonavano inerti laggiù nel loro denso mondo, pareva di cadere velocemente; e ne li avvertiva il fluire dell'aria lungo la sensibile epidermide.

— Cadiamo; la rarefazione è estrema qui — disse uno. — Non so se si potrebbe vivere a lungo, in questo vuoto.

— Per conto mio, posso morire contento — rispose il pioniere, quegli che primo aveva scoperto la via e lungo quella li aveva guidati. — Abbiamo visto quello che nessuno ha mai veduto. Ci siamo affacciati all'Ovigdòi, all'infinito, al paradiso da cui è discesa la nostra razza quando Dio l'ha scacciata in punizione dei suoi peccati. Ora Egli, nella sua infinita misericordia ci ha concesso di rivedere il suo regno; ci ha chiamato per i primi a partecipare dei suoi doni inesauribili. La punizione del nostro popolo è finita. Rendiamo grazie a Lui che ha voluto sceglierci come strumenti dei suoi misteriosi disegni.

Vi fu un lungo silenzio. L'uomo che aveva parlato così, la faccia levata al cielo, le braccia lungo il corpo, leggermente aperte, gli occhi socchiusi, si lasciava andare lentamente in una specie di estasi; nessuno volle turbare quel silenzio; i quattro cuori, sopraffatti dall'onda della commozione, battevano forte. Ma fu per poco. Una macchia lassù in alto, fosca, oblunga, nerastra, era apparsa improvvisamente nella zona più chiara del cielo; e scendeva. Lo avvertirono subito, al tatto, dallo spostamento d'aria che la sua caduta provocava; poi la videro ingrandire a poco a poco, avvicinarsi, delinearsi.

— Là, là — proruppe, con un urlo, il pioniere. — Nè ebbe tempo di meravigliarsi, in quel momento, di un fatto abbastanza strano; che cioè il suo grido s'era inesplicatamente ripercosso tre, quattro, cinque volte, in quel cielo vuoto; come riflesso dalle pareti di una cavità. Grandi e strani pensieri traversavano la sua mente; pensieri in cui all'immagine del corpo scendente dal cielo si associavano quelle di un Dio, di una rivelazione, di un segno prodigioso dell'Ovigdòi.

Grandi e strani pensieri di cose inimmaginabili, eterne ed infinite, tra i quali non poteva trovar posto, in quel momento, il sospetto che quel cielo non fosse l'Ovigdòi ma una sua pallida immagine; che quel vuoto non fosse l'universo che sovrasta il piano della materia, ma soltanto una gran bolla d'aria, costretta dal peso derivantele dalla gran compressione, al fondo della maggior fossa del Pacifico; immenso lago d'aria sopra cui gravava uno strato di novemila metri di acqua; che al di sopra di quel lago gassoso potesse incurvarsi la volta azzurra di un oceano, con onde, frangenti, tempeste capovolte; che infine quel corpo oblungo, fosco, nerastro, fosse la testimonianza di un altro mondo, il mondo sopra cui s'incurva il vero ovigdòi, il mondo dell'aria libera, della superficie vera, degli uomini che il gran cataclisma non aveva condannato alla tenebra.

Neppure poteva sospettare che con lo scafo fosco, oblungo e nerastro del transatlantico squarciato, sarebbe disceso, a ricongiungersi con gli esseri dell'abisso, il poeta che li aveva fantasticati, se il pensiero di salvare il portafoglio non l'avesse risospinto verso nuova vita e nuovi contratti; per buona sorte di noi lettori.




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