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Francesco Melosio
Orione

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  • ATTO TERZO
    • Scena sesta. Apollo, e Diana
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Scena sesta. Apollo, e Diana

 

Apollo
Già per l'onde Orïon corre veloce
Vié più d'ogni altro, a nuoto.
Io non veduto, e solo
Gli avventerò questo mio dardo alato
Né si saprà chi l'uccisor sia stato.
Ma lasso, è qui Dïana, e se l'aspetta
Svanita è la vendetta.

Diana
Io veggio il Sol, ma non è questo mio,
Voglia il Ciel ch'ei non giunga
Ad accrescer lo sdegno al biondo Dio.

Apollo
Lascerò l'arco, e mi armerò d'inganni.

Diana
Tutto placido in volto a me sen viene.

Apollo
E qual di cura torbida procella
Or t'affanna la mente,
Mia diletta sorella?
Troppo rigida forse
Oggi contro di te la lingua sciolsi,
Quando di te mi dolsi?
Giuro, ch'io n'ho tormento,
E se commessi errore,
Ho per pena d'errore il pentimento.

Diana
Né di te mi querelo,
Benché del tuo candore
Ingiusto accusatore;
doglia alcuna entro il mio petto io celo.

Apollo
Ben di cure noiose il seno hai carco,
Se pender fai dal fianco
Sempre ozïoso l'arco.

Diana
Fera giammai non mi si mostra in selva,
Che con piaga mortale
Non m'inostri di sangue alato strale.

Apollo
Mira, bersaglio appunto,
De l'arco tuo ben degno,
Guizzar per l'onde un mostro;
Deh! l'arco incurva, e colà dove appena
Giunge a spïar lo sguardo,
Giunga a ferirlo un tuo feroce dardo.

Diana
Non lice a me contro squamoso armento,
Di liquido elemento,
Dardi giammai scoccare,
Che son Dea de le selve, e non del mare.

Apollo
Temeraria perciò non ti dimostri.
Gode il suo vasto regno
Veder Nettuno impoverir di mostri.

Diana
Ecco adatto lo strale, e tendo l'arco.

Apollo
Oh che nobil vendetta!

Diana
Or s'avvien, che Nettuno il colpo offenda
Febo l'impose, a Febo la difesa.
Ma qual prodigio è questo?
Quasi il dardo ricusi andarvi a volo
Star non può sovra l'arco, e cade al suolo!

Apollo
Ciò non ti sembri strano,
Che n'è solo cagion, perché di rado
Eserciti la mano.

Diana
Parmi ch'a questo colpo il cor repugni,
Che l'occhio il fugga, e la mia man s'arretri,
Quasi mi dian poco felice segno
Di successi futuri.

Apollo
Oh vanità di auguri!

Diana
Ecco dunque al tuo nome il colpo io sacro.

Apollo
Oh come ratto ei s'è portato al segno:
Giuro, che stral non mai
È da quell'arco uscito
Più di quello a me caro, e più gradito.

Diana
Ahi, troncata è la corda, e rotto l'arco;
L'arco, che di sua mano,
Infrangibile già diemmi Vulcano.

Apollo
Non mancheranno gli archi,
E di più salde tempre;
Ma tu stattene pur d'intorno al lido,
Ch'ogni altra cura t'uscirà dal petto,
Tanto avrai de la preda
Meraviglia, e diletto.

Diana
Ahi, che un freddo timore
Che mi serpeggia in seno
Questa mano tremante
Il mio cor palpitante
Son presagi per me sol di dolore.
Ohimé, che troppo osai.
Ha forse l'empio strale
Qualche Titone offeso?
Egli ha d'uomo sembianza.
Ah, qual m'opprime il core
Improvvisa pietà;
O Cielo! e che farà?
Occhi miei che mirate?
Ah, no, no, v'ingannate.
Chi m'offre ancor vegghiando
spaventose larve?
Orïone mi parve.
Ahi, ch'io tremo a pensarlo;
Ma quanto più s'appressa,
Vié più di lui forma e sembianza acquista.
Oh Dio, s'egli è pur troppo: ahi caso, ahi vista!
Uccidimi dolor, dolore uccidimi.
E tu Parca pietosa
D'una vita immortal il fil recidemi.
Uccidimi dolor, dolore uccidimi.
Ahi, qual furia crudel mi tese l'arco?
Da qual caverna era quel dardo uscito,
Di Stige, o di Cocito?
Ah, non s'incolpi no l'arco, o lo strale,
Ch'uno a terra cadé per non piagarti,
L'altro per duol si franse.
Fu sol vostra la colpa,
Ch'Orïon non scorgeste, occhi infelici.
Distillatevi dunque in mesto pianto,
E di lagrime amare
Versate un mar sul mare.
Oh mia luce gradita,
In apparir sparita!
Poté dunque la Parca iniqua e ria
Scacciar dal seno suo l'anima mia?
Oh di stelle perverse empio rigore;
Che fai, che non m'uccidi, o mio dolore?
Ma non fu già la Parca,
Che il viver suo recise:
Fu solo il Sol che te, mio sole, uccise.
Spietatissimo nume
Tu non mentisti già
Nell'additarmi un mostro,
Che non v'era in beltà
Mostro di lui maggiore.
Che fai, che non m'uccidi, o mio dolore?
Oh sempre avvezze a depredar tesori,
De l'ingordo Oceano onde voraci,
Deh quanto in Ciel possiedo,
Quant'è mio ne le selve, o negli abissi,
Depredate, rapite. Io vel concedo.
Bramo solo da voi,
Che l'estinto mio bene
Entro questo mio sen ritrovi il porto,
Onde crude e spietate
Dove, dove il portate?
Non mi negate, oh Dio, questo conforto:
Se mel toglieste vivo,
Rendetemelo morto.
Ma non ho forse anch'io
Giù tra i Numi d'Averno il luogo mio?
Sì sì, vi lascio, o selve,
A Dio Celeste mole:
Vado a viver tra l'ombre
Con l'ombra del mio Sole.

 




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