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P. Antonio Maria Tannoia
Della Vita ed Istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori...

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  • LIBRO II
    • Cap. 17 Altra fabbrica intrapresa da Alfonso nella Casa de' Ciorani, e contraddizione insorta in quella de' Pagani.
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Cap. 17

Altra fabbrica intrapresa da Alfonso nella Casa de' Ciorani, e contraddizione insorta in quella de' Pagani.

 


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Aperta la Casa ne' Ciorani, troppo grande era il numero di Sacerdoti, e Gentiluomini, che vi concorrevano per rivedere tra essi, e Dio le partite della propria coscienza, e sommo era il profitto, che si ricavava.

Non vi era luogo in Diocesi di Salerno, e nelle adiacenti, in cui non si distinguessero colla probità quelle Persone, che la frequentavano, e che poste si erano sotto la direzione di Alfonso. Si ammiravano specialmente tanti Sacerdoti, che da inutili, e forse scandalosi, addivenuti si vedevano ottimi Operari.
Essendo stato di persona ne' Ciorani nel 1743 Monsignor Rossi, successore al Capua nell'Arcivescovado di Salerno, rilevandone il profitto, che tutto giorno si ricavava, non finiva di consolarsene.

Vedendo troppo angusta la Casa, spronò Alfonso, a voler dilatare la fabbrica. Premeva al zelante Arcivescovo l'ingrandimento della Casa, per vedere coltivati in tempo delle Sacre Ordinazioni


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i suoi Chierici, che non eran pochi: tanto più, che vi concorrevano altri delle Diocesi circonvicine.

Premuto Alfonso dal comando dell'Arcivescovo, risolvette voler alzare un altro quarto. Non la sentiva così il Padre Rossi, che n'era il Rettore. Vedendosi sfornito di umano soccorso, non bastavagli  il cuore per metter mano all'opera. Cel replicò Alfonso la prima, e seconda volta: non vedendo principio, un giorno a piè fermo li disse: Noi, Padre mio, non dobbiamo fabbricare, come costumano i Secolari, che prima uniscono il danaro, e poi mettonsi a fabbricare: dobbiamo regolarci tutto l'opposto: prima si deve intraprendere la fabbrica, e dopo aspettar dobbiamo dalla Divina Povvidenza quanto bisogna. Ubbidì il Padre Rossi, animato dalla confidenza di Alfonso, e con altro Capitale non imprende la fabbrica, che con un zecchino ricevuto ad imprestito da un soldato del Barone.

 

Non furono vane le speranze di Alfonso, defraudata restò l'ubbidienza del P. Rossi. Avendo fatto girare in Diocesi Mons. Arcivescovo una sua circolare, al momento si videro delle limosine ben pingui dai Cleri, e dalle Cappelle rispettive, e vi concorse anch'esso l'Arcivescovo colla propria liberalità. Una divota donna, fuori di aspettative, diede in Solofra al P. Sportelli ducati quattrocento. Varie altre limosine non mancarono. Spronavasi ogni uno a coadiuvare Alfonso, vedendosi il gran bene, ch'era per risultarne; anche i Cioranesi, ancorchè poveri, si segnalarono al solito nel trasporto de' materiali, coadiuvando, e facendo a gara in tutto quello che si poteva.

 

Non si restrinse qui la Divina liberalità. Un giorno, che il P. Rossi vedevasi alle strette, vi concorrette la Provvidenza, con modo più particolare.
 Essendosi portato da lui un giovanetto, per esser ammesso tra Fratelli servienti, se non fu accettato, venne speranzato; e nel partire, diedegli involto, per una messa, in uno straccio di pezza certo danaro. Credevansi al più dieci in dodici grana. Partito il Giovane, e sciogliendo la pezza il P. Rossi, ci ritrova in oro con sua ammirazione ducati cento. Cercato il Giovane, non si ritrova, più si vide. Con questo conobbe il P. Rossi di qual valore sia l'ubbidienza, e quanto possa presso Dio lo sperare in lui contro la speranza umana.

 

Un altro tratto di provvidenza, mai inaspettata, abbiamo in questa congiontura.
Avendosi Alfonso chiamati i Giovanetti Chierici, volle, che per la fabbrica avessero fatto un memoriale a Gesù Sacramentato. Sottoscritto che fu, lo ripose Alfonso nella Sacra Custodia, avvalorando colle sue le preghiere de' Giovanetti.
Non tanto fu presentato il memoriale, che fu ricercato da Napoli pel suo voto, dovendosi fare nella piazza di Portanova l'aggregamento di uno o più Cavalieri. Più di questo non volle sapere Alfonso; e cavalcando alla peggio un somaro,


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parte di fretta per Napoli, e va a smontare nel Sedile. Volendo entrare, uno di quei Alabardieri, che custodivano l'ingresso, credendolo un vagabondo, perchè cencioso, con barba irsuta, e con capelli malconci, ch'entrar volesse per limosina, pronto coll'alabarda intonolli un datti addietro: si ferma, e ne sorride Alfonso; ma accortosene il Cavaliere, che stava di ricevimento, se gli fece subito incontro, ed anzichè complimentarlo come Cavaliere, con ossequio li bacia la mano.
Quanto fu il suo tangente, nol so: so bensì per attestato de' vecchi, che fu esuberante, e con questo si perfezionò la fabbrica. Lepidamente soleva dire Alfonso, che non sarebbe stato per negare il suo voto, ancorchè figlio di un qualche fornaio. Tra un anno, il quarto incominciossi, e videsi perfezionato con tre piani di celle, con cucina di sotto, e spazioso refettorio.

 

Capitò tra questo tempo ne' Ciorani, non so se ansioso di vedere il Figlio, o per invogliarlo della prelatura, il Capitano D. Giuseppe Liguori, ma non entrato in casa, si compunge, osservando la povertà dell'edificio, maggiormente vedendo l'esemplarità de' nostri, il silenzio, che vi regnava, e l'odore di santità, che spirava da per tutto.

Tanto bastò per far idea del sole eterno, e scadervi dal cuore ogni cosa di mondo. Invidia la sorte del Figlio, e più non pensa a Vescovadi: lo abbraccia, lo bacia, e non si sazia di benedirlo. Non fu così breve la sua dimora; e vie più invogliato della condotta de' nostri, e della santità del Figlio, coraggioso risolve, non voler aver più che fare col mondo, ma vivere sotto la condotta del Figlio nello stato di Fratello serviente. Lo disse, ed avrebbero fatto; supplicò piangendo, ed insistette: Alfonso se si compiacque dell'umiltà di suo Padre, lo persuase non esser quella la volontà di Dio, e che Iddio volevalo in mezzo al mondo, per portare in casa sua la croce de' figli, e del proprio stato.

Gli ultimi giorni, per D. Giuseppe Liguori, dopo il ritorno da' Ciorani, furono per esso i giorni più felici. Le preghiere di Alfonso verso un padre così amoroso, non potevano esser vane presso Dio. Non contento vederlo di voto, ed esemplare Cavaliere, lo volle santo, e tale lo vide con suo compiacimento. Giunto in Napoli D. Giuseppe, non visse più da militare, ma da divoto eremita: orazione e lettura di libri santi era tutta la sua occupazione: Chiesa, e casa facevano il suo trattenimento; aprì carteggio col Figlio solo di cose eterne: con esso consigliavasi per tutto quello, che interessavalo nell'Anima, ed Alfonso non mancava illuminarlo, ed invogliarlo sempre più dell'eterno.

In una sua de' 28 Marzo così scrive a suo padre: Io sto bene per grazia di Gesù Cristo, e dimani vado a Salerno a dar gli esercizj al Clero. Avendoli cercato notizia D. Giuseppe di qualche vita di Santo di


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suo profitto, Alfonso li consiglia la Vita di S. Luigi Gonzaga, e di S. Filippo Neri, quella di S. Pasquale, e di S. Pietro d'Alcantara, e per meditazione le Verità eterne del Rosigniuoli, e le Massime eterne del Cataneo.

 

Tra questo tempo si mutarono le stagioni ne' Pagani. Ad una Pimavera così florida, quale godevasi, anzi che succedere l'Estate, anticipato si vide un crudo Inverno. Non poteva il Demonio starsene indifferente per un'opera tutta opposta a' suoi disegni.

Altro mezzo più atto non ebbe alla mano, volendo attaccarla, che l'invidia. La stima del Vescovo, l'applauso de' Gentiluomini, il concorso del popolo nella nostra picciola Chiesa, adombrarono, e fecero entrare in tal gelosia i Parrochi, che pentivansi de' consensi già dati. Con questi unironsi varj Confessori, così Secolari, che Regolari, vedendosi taluni lasciati da varj penitenti. Avendo preso piede l'invidia, questa sola fu capace per alterare gli umori, e scemarsi in essi quell'idea di sommo rispetto, che avevasi per i Missionarj; anzi colla gelosia si unirono in seguito astio, e livore.

 

Ci fu cosa di più. Una furia infernale pose in campo anche l'interesse. Vedendosi una comune venerazione verso i nostri , si diedero a credere i Regolari, che già erano per mancar loro le giornaliere limosine, e questi, e i Preti, che tutti i legati, non che le Messe avventizie, donazioni, ed altro, sarebbero stati de' soli Missionarj.

Frapposto l'interesse tra l'uno, e l'altro Clero, troppo non ci volle per fare entrare in gelosia anche tanti del popolo. Non mancava tra quelli chi aveva, o chi aver poteva un figlio Sacerdote, un fratello, un zio, o un qualche suo nipote.

Considerandosi i Missionarj non più utili, ma come di aggravio alla popolazione, non vi era ridotto, o bottega, che di questo non si parlasse, e non si rilevassero le conseguenze: Che sperar possono per essi i poveri giovani, che vengono appreso, esclamava anche un buon Prete, se questi si fissano in Nocera: questi si vedranno Confessori di Monache: in mano loro si metteranno le Congregazioni: saranno qui come una sciabica, che radunerà in uno tutte le Messe, e i legati.

La guerra fu prima attaccata, che intentata. Persistevano per Alfonso, e lo furono costanti i Gentiluomini, ed anche tanti del Clero; ma altra acqua ci voleva per estinguersi un tanto fuoco. Venticinque tra Parrochi, ed altri Preti, entrarono nella lega. Con questi si videro uniti i Padri Mendicanti, così de' Pagani, come di Nocera: si mancò invitare al ballo i Padri Olivetani, i Cisterciensi, e quei di Montevergine; ma questi l'ebbero in orrore; e tra i cinque Reggimentari de' Pagani, tanto impegnati per questa Fondazione, anche due di essi si dichiararono contra i Nostri.


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Fatto il complotto, per ricorrersi al Sovrano contra Alfonso, e i compagni, non mancò Iddio far conoscere quanto rincrescevali un tale attentato. Fattosi capo da uno de' migliori causidici, prende questi la seconda, e terza volta la penna per distendere i capi; ancorchè più volte intinta, non inghiostro; ne prende un'altra, e neppure: irato di piglio alla terza, e mette in aspetto ciocchè voleva; ma al rivoltare della carta, avendo preso il calamaio, in luogo del polverino, l'imbrattò tutta d'inchiostro.

Entra in se il causidico, e conoscendo misterioso l'accaduto, fattosi di fuoco, fatevi servire da chi volete, disse ai Preti, che per me non voglio averci parte con questi Missionarj: così dicendo fa in pezzi la carta. Questo accidente, niente dissimile da quello di Valente impegnato contra S. Basilio, se fece senso nelle persone cordate, non arrestò la furia de' Preti, e de' Regolari; ma si ottenne da altri quanto si voleva.

 

Sanguinoso fu il ricorso. Espongono al Re, che la città non era, come falsamente se li era rappresentato, destituta di spirituali aiuti: che oltre la Parrocchia ci erano altre nove Chiese di Preti, e quattro Monisteri di Regolari: che si avevano tanti ottimi Religiosi; e tra Preti vi erano predicatori, teologi, e persone laureate; e che non mancavano di continuo delle novene, ottavari, e catechismi. Si avanzano, e dicono, che poche erano le Città, che godevano nel Regno un tal pregio; e che non vi era popolazione nel suo dominio, così coltivata nello spirito, come quella di Nocera.

 

Voltato il rovescio della medaglia, si venne, non eccentuandosi Alfonso, alla caratteristica de' Missionarj. Che questi non erano una Congregazione approvata, ma gente di strada, e miseri pretazzoli: che non avendo di che vivere ne' proprj paesi, lo cercavano altrove, togliendo il pane ai Sacerdoti cittadini, ed ai Regolari Mendicanti: che non avendo prebenda i Preti cittadini, vivevano a stento colla limosina delle messe: che mancando queste colla venuta de' Missionarj, e dandosi loro la libertà degli acquisti, era lo stesso, che obbligare i cittadini  o a partire di Nocera, o mendicare alla porta de' medesimi.
Aggiungono, che non erano i Missionarj uomini di gran talento: che, a riserba di qualche popolare sermone, non raggiravasi il lor fare, che nel vedersi intorniati da fanciulli, e donniciuole, ed in cantar divote canzoni, e canzonette. A buon conto Alfonso, ed i suoi, che mesi prima stimavansi tanti Apostoli, descritti si veggono per miseri pretazzoli insufficienti, e non atti al proprio ministero.
Poste tali premesse si cerca al Sovrano, che senz'aversi ragione al beneplacido accordato sopra motivi non veri, si proibisca ne' Pagani l'erezione della nuova Casa, e si obblighino i Missionarj a ritirarsi altrove.

 

Non volendosi il Vescovo in contrario, si tenta di guadagnarlo.


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Resta di gelo, ed inarca le ciglia Monsignore, sentendone i progetti. Volendo far vedere in quale stima aveva i Missionarj (ma questo accese maggior fuoco), ne presceglie uno per suo confessore, ed aprendo la visita, ne porta due per sermocinare al popolo, e coadiuvarlo.

Non si disaminano i Parochi; anzi si risentono, e riclamano in Curie, che i Missionarj, piuttosto che esser di sollievo a' Parochi, con audace temerità usurpavano per se i diritti de' medesimi. Diede all'occhio, che da' nostri regolavasi nello spirito il Seminario, e qualche Congregazione, e che altri Parochi avvalevansi del nostro ministero. Avrebbesi voluto, che ne' giorni festivi nella nostra Chiesa non si fosse predicato, praticate altre funzioni.

Sorrise al tal pretenzione Monsig. Vescovo, ed anzi che proibirlo, comandò al P. Sportelli, che in Chiesa mancato non fosse nel dopo vespero del Sabato l'esposizione del Venerabile ed il Sermone di Maria Santissima, e nelle feste, non essendoci funzione nella Parrocchia, la predica istruttiva, ed altro.

Troppo gravi, fra questo tempo, furono i cimenti, in cui si videro i nostri. Ancorchè tanti ottimi Sacerdoti tra' Preti, i Gentiluomini, e persone cordate tra 'l popolo fossero per noi, non per questo potevano impedire gli attentati. Non compariva un Padre in Città, che monteggiato non fosse.

Ci furono de' sgarbi. Essendosi portato uno di essi per dir messa nella Parrocchia, ci fu chi li strappò l'amitto dalle mani. Miglior partito non potevano avere i Fratelli servienti. Come uno di questi era in piazza, o altrove, vedevasi subito mostrato a dito, e fatto carico di villanie. Zappando nell'orto di casa il Fratello Antonio di Lauro, un uomo del partito, stando fuori della siepe, non mancava malmenarlo di parole. Il virtuoso Fratello zappava, e non davasi per inteso. Quest'istesso pazientare offese quel temerario. Furioso entra nell'orto, e fattoseli sopra, gli tira uno schiaffo. Non si risente il buon Fratello, anzi, postosi ginocchioni, li presenta l'altra guancia. Quest'atto confuse il mal uomo, e più confuso si diede indietro.

 

Anche la notte, ancorchè nel più cupo silenzio, non godevasi pace. Giovanastri birboni aizzati da altri simili, piantandosi sotto le finestre di casa, insultavano i nostri con indegne canzoni, e parolaccie. Altri, affettando il nostro predicare, assordivano il mondo con terzi tuoni, e con sentenze di spavento. L'ira di Dio non fu tardi a risentirsi. Uno di questi, che così canzonava, sorpreso da un tocco apopletico, e non potendosi portare a casa sua, finì di vivere sotto la medesima finestra, ove avevala irritata.

 

Stava Alfonso ne' Ciorani. Come intese il turbine, sollecito accorre in Nocera, ma fu ricevuto tutt'altro da quello degli innanzi. Non ci furono i soliti osanna, ma onorato si vide con termini sconvenevoli non meno al carattere, che alla nascita.
Un giorno tra gli altri ci fu


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persona in casa del Contaldi, che non ebbe ritegno complimentarlo con parole convenevoli neppure ad un villano. Per lo meno ch'esso, e i suoi andavano strappando pane dalle mani de' fanciulli: ch'erano tanti vagabondi, e non gente dabbene, quale si spacciavano: che se tali fossero stati, rimasti si sarebbero nelle proprie case. Ma quanto più Alfonso si abbassava, tanto maggiormente caricavalo colui senza riguardo.

 

Non ebbero luogo i falsi rapporti presso il Sovrano. Troppo era egli informato chi fosse Alfonso, e di qual carata i suoi Alunni. Venendo questo Regno minacciato dalle armi Austriache; ed essendo il Re uscito di Napoli, per accorrere in persona nelle vicinanze di Apruzzo, colto il tempo, non mancarono i malcontenti presentarsi al Cavaliere Fra Michele Regio, già Vicerè di questo Regno, e con altro simile ricorso denigrare il buon nome di Alfonso, e compagni. Avrebbero di certo fatto breccia nel cuore di quell'ottimo Cavaliere, se la Segreteria non era più che persuasa dell'onestà di Alfonso, e della bontà del Re Carlo verso il medesimo.

 

Avendosi contrario il Vescovo, si rivolgono le armi nel medesimo Prelato. Si fa presente al Re, che il Vescovo contro le reali intenzioni erasi abusato di sua autorità: ch'essendosi degnato permettere a' Missionarj l'erezione di una casa a suo beneplacito, il Vescovo di sua autorità avevala stabilita perpetua: che approvato aveva le Regole senza l'assenso della Real Camera, e senza essersi esaminate dal Cappellano Maggiore. Espongono, che, per esser valida la Fondazione, bisognava, per disposizione de' Canoni, la Pontificia approvazione; e che Monsignore illegittimamente usurpato s'aveva ciocchè non li conveniva. Si querelano finalmente, che avendo permessa la Maestà sua una semplice casa, il Vescovo, ed i Missionarj intrapreso avevano un formale Colleggio, con pubblica Chiesa, anche in disprezzo delle reali determinazioni, ed in pregiudizio del Clero, e del pubblico di Nocera.

 

Benchè tutto presagisse vittoria, temendosi in contrario il Contaldi, come appassionato per l'Opera, anche questo fu stravolto, mascherandosi il male col bene. Tanto se gli seppe dire, che pentito del ben fatto, più non sembravali Alfonso quello dell'innanzi. I fini più santi addivennero perversi: che altro non cercava, che adaggiare i compagni, ed impoverir le famiglie: così i Compagni non zelanti dell'onore di Dio, e della salute delle Anime, ma avidi del suo, e di quello degli altri. Stravolto di mente venne ai dissapori; impedì a i Padri i proventi, che maturavano; non più trattava con essi, ancorchè in propria casa; e fece loro sentire, che non istavano più bene ne' Pagani, e molto meno in casa sua.

Stava scottato Alfonso per quello che eragli accaduto in Cajazzo. Vedendo le cose in sì cattivo stato, pensava scuotersi le scarpe, e dare un


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addio ai Pagani.
Non volendo restare in dubbio del volere divino, portandosi in Napoli, per consiglio dagli uomini più savi. Avendo fatto presente quanto ci era al Canonico D. Giulio Torni, ai Padri Pii Operarii, a quei di S. Vincenzo, e ad altri, tutti furono di sentimento, che si sloggiasse da Nocera.
Fu ancora in Castellammare da Monsig. Falcoja. Anche questi, vedendo il gran fuoco, non la sentiva altrimente; ma sorpreso da un lume superiore, avendo fissati gli occhi in una statuetta di S. Michele, è Demonio, disse, è Demonio: tirate avanti, che Iddio, e S. Michele vi proteggeranno. Così stimò ancora Monsig. de Dominicis, e vollero, che difesa si fosse la fondazione come opera di Dio; anzi Monsig. Falcoja consigliò, che Casa, e Chiesa dedicata si fosse al medesimo Arcangelo.




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