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Cap.27
Tenta Alfonso veder riconfermata dal Re l'Opera delle Missioni:
parere del Cappellano Maggiore; e nuovi maneggi per la riunione del P.
Mandarini.
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Non isgomentavano
Alfonso le traversie di Nocera, anzi qual saggio nocchiero, che quanto più
ingrossa la tempesta, tanto maggiormente si adopera per vedere la nave in
porto: così egli quanto più bersagliata vedeva la navicella della sua
Congregazione, altrettanto indurivasi vederla ancorata, e fuor di pericolo.
Osservando, che i contrari colla parte volevano distruggere il tutto, egli
s'impegnò salvare il tutto, per vedere in salvo la parte. Volendosi distrutta
quella Casa, avevasi per base dai Contradittori, che tal Congregazione non vi
era al mondo, non essendo stabilita coll'Autorità Reale. Alfonso per togliere
di mezzo ostacolo così grave, tenta veder confermata l'Opera dal Re, e munita
di suo assenso. Ardua impresa, ma pur volle tentarla.
Essendosi dissimpegnato
dalle Missioni di Puglia e da quelle dell'Archidiocesi di Conza nell'Aprile del
1747, passò nella Casa di Ciorani. Gran motivo ebbe quì di somma consolazione,
vedendo popolato il noviziato di virtuosi giovanetti, e tra questi anche
Sacerdoti eminenti in dottrina, e santità, com'erano il Margotta, ed il
Sacerdote D. Geronimo Ferrara.
In Nocera pianse per
tenerezza, rilevando lo stato, in cui ritrovato aveva quella Casa, e ne rese a
Dio i dovuti ringraziamenti. Si consolò vedendo accorsata la Chiesa di ogni
ceto di persone; stabiliti, con sodisfazione de' Cittadini, i nostri soliti
esercizj, ed eretta una fioritissima Congregazione di cento e più artieri e
bracciali, tra' quali vi erano delle Anime di una non ordinaria perfezione.
Essendo passato in
Napoli nel mese di Giugno, sulle prime fece capo dal Marchese Brancone suo
amico, e Segretario di Stato. Questi, troncandogli la parola in bocca, si
spiegò volerlo Vescovo. Inorridì Alfonso a tal progetto e così inaspettato. Non
ci fu motivo umano o divino, che per renderlo persuaso, non si affacciasse dal
Marchese. Se mi amate, disse Alfonso, non mi parlate di Vescovado. Ho lasciato
casa mia, e fin d'allora esecrai qualunque onore in questo mondo. Amaro fu
il conflitto; ma se non si arrese Alfonso, dovette arrendersi il Marchese; e
diedegli parola di non più angustiarlo.
Avendo a cuore il
negozio della Congregazione, oltre averne impegnato il medesimo Marchese,
impegnò ancora, per aver udienza secreta dal Re, D. Bartolommeo Rossi suo
amico, e Gentiluomo di Camera.
Trattendedosi un giorno
nel Chiostro di S. Caterina, detta a Formello, - 188 -
recitando l'Ufficio, venne avvisato inaspettatamente,
che nella prima ora di quella sera era appuntata l'udienza. Come ritrovavasi
con barba sconcia e con un centone di pezze, che ricoprivalo, così in fretta
portossi a Palazzo.
Ammesso alla presenza
del Re, fece presente co' sensi i più vivi il bisogno delle Anime
coll'interesse dello Stato, e l'Opera, che intrapreso aveva in sollievo di
questi. Rappresentò lo zelo de' suoi Compagni, e la riforma che già vedevasi
nel costume in tante Diocesi, e Provincie. Pose in veduta l'ingnoranza e così
grande, in cui vivevasi ne' villaggi, de' doveri verso Dio, verso l'uomo, e
verso il proprio Principe, colle conseguenze che troppo triste risultavano da
tale ignoranza a danno dello Stato, e delle Anime.
Espose la necessità
dell'Opera. Disse, che questa non poteva sussistere, se non formandosi un Corpo
stabile, e supplicollo, che siccome erasi compiaciuta con quattro dispacci
approvarla in Diocesi di Salerno, di Nocera, di Bovino, e di Conza: così degnar
si volesse riconoscerla in formale Congregazione, sull'andare de' Padri di S.
Vincenzo de Paoli, soggetta in tutto alle ordinazioni sue, e de' Vescovi.
Presentò la Regola, e pose in veduta del savio Monarca il piano dell'Opera.
Restò non poco commosso
il pio cuore del Re Carlo per tali rimostranze. Troppo interessato egli era per
l'onore di Dio, e per lo bene de' suoi vassalli. Avrebbe egli da se accordata
la grazia, se la ragion di stato non avesse dettato altrimenti. Fattosi carico
di tutto, con biglietto di proprio pugno, rimise la Regola colla supplica a Monsig.
Celestino Galiano suo Cappellano Maggiore, che esaminati i rispettivi
interessi, dato avesse il proprio parere.
Non furono tardi a
sapersi questi maneggi dall'ottimo Padre D. Vincenzo Mandarini, già Superiore
della Congregazione del Sacramento. Avendo a cuore la sospirata unione, di
persona portossi ne' Ciorani, offerendosi in nome di tutti i suoi Congregati a
voler abbracciare senza eccezione la sua Regola, e riconoscer lui per
Superiore.
Qualunque fossero le
rimostranze del Mandarini, Alfonso fu sempre restìo a compiacerlo. Stringevagli
il cuore una sì sincera esibizione, ma troppo convincenti erano i riflessi, che
lo determinavano in contrario.
Dubitava, che l'unione
non fosse per giovare a quella Adunanza, e fondatamente temeva pregiudicata la
sua. Chi è avvezzo, diceva, di possedere, e disporre, mal volentieri
potrà vedersi povero, e privo di libertà; e chi oggi, senza il voto di
ubbidienza, ha giocato di propria volontà, dimani se non oggi, si pentirà
essersi soggettato. Son persuaso, gli disse, della risoluzione di tutti, e la credo sincera; ma raffreddato
l'impegno, non si mancherà far ritorno all'antico. La libertà, che piace, si
può insinuare anche ne' miei; e così potrò vedere danneggiato me medesimo ed i
miei, senza giovare nè a voi, nè agli altri.
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Così sentivala Alfonso;
ma non si diede in dietro il Mandarini, Riflettendo, che in Napoli tutto
dipendeva da Monsig: Cappellano sollecito frappose presso di questo la
mediazione di persone autorevoli.
Avendo esaminato
Monsig: Cappellano l'Opera del Mandarini, e l'utilità che coll'unione, poteva
risultarne, non mancò dichiararsi in suo favore. Troppo stretto si vidde
Alfonso. Contradirlo non conveniva, prevedendolo contrario al suo intento; e
compiacendolo, prevedeva confusione, e disordine tra' suoi. Espose, e pose in
veduta i suoi motivi; ma un così voglio
di Monsig. Cappellano scioglieva qualunque dubbio.
Non si arrese Alfonso
ancorchè in somma costernazione. Tuttavolta, dubitando de' proprj lumi, ricorse
all'orazione, protestandosi avanti a Dio di non volere che la gloria sua, ed il
vantaggio dell'Opera. Chi sa Iddio che ne
vuole da questo impegno, e così fermo di Monsig. Cappellano, scrisse ai
Padri Sportelli, e Villani, e noi
dobbiamo far prevalere il volere di Dio ai nostri riflessi. Se Iddio vuole
l'unione, anche noi dobbiamo volerla.
Così passando le cose
vedevasi sollecito Alfonso, per avere in Corte presso il Principe, e presso
Monsig. Cappellano, la meditazione di persone autorevoli. Troppo caro gli costò
questo tentativo. Il Padre de Robertis, che con esso trattenevasi in Napoli, mi
dice, che non mangiava nè dormiva, e che vedevasi nelle ore le più canicolari,
tutto affanno e grondante sudore, battere il selciato di quelle strade, e
passare, senza tregua di respiro, da un palazzo all'altro. Un giorno ritornando
nel fior di mezzodì, divenuto un pezzo di fuoco, dall'udienza del Marchese
Brancone, e non era poco il tragitto da Palazzo alla Parrocchia de' Vergini, mena Gesù Cristo mio, esclamò, che avete ragione di prendervi piacere.
Se Alfonso non badava
ad incommodo, e non lasciava pietra da smuovere, per veder garantita l'Opera di
Dio, l'Inferno anch'esso non lasciava occasione per vederlo scoraggiato.
Non tutti erano uguali
i complimenti. Perchè trattavasi di cosa ecclesiastica, e stabilire nello Stato
una nuova Congregazione, molti o non gli davano udienza, o freddamente lo
ricevevano, e se ammettevasi la prima, di certo era escluso la seconda volta.
Essendosi portato da un
Cavaliere, che prevaleva in Corte, questi gli fece sentire che non ci era:
passa alla casa dell'altro fratello, e gli succede lo stesso; non altrimenti
gli accadde la medesima mattina, essendosi portato da un Arcivescovo zio de'
medesimi. Di questi complimenti, e ripulse ce ne sarebbe un fascio.
Più saporito è quello, che gli accadde in casa del Principe Jace. A stento dai
servidori se gli diede luogo nell'anticamera. Uscendo la Principessa, lo
conobbe; ma vedendolo così povero, e rattoppato, con disprezzo gli disse, come sei succido: non capisco, rispose
Alfonso; e quella, eh! che sei un
Calabrese; - 190 -
e così
dicendo voltogli le spalle.
Vi furono, non vi ha
dubbio di que', che fecero giustizia al suo carattere, ed alla sua virtù. Il
Principe di Sannicandro, tra gli altri, lo ricevette co' segni di somma stima:
si compromise di sua mediazione, e licenziandosi, non ebbe difficoltà
accompagnarlo per un tratto di scala. In una parola: passavala Alfonso per infamiam et bonam famam, ma sempre
sereno, e con tutta pace.
Tra questo tempo non
mancarono per Alfonso nuovi batticuori, e troppo amari.
Monsig. Cappellano, esaminando meglio le cose, vedevasi tra l'incudine, ed il
martello: voleva compiacere Alfonso, e mancar non voleva al proprio dovere.
Considerando arduo il negozio, a' ventuno di Agosto dichiarossi in contrario
per l'approvazione, e disimpegnato per l'unione col P. Mandarini.
Afflitto restò Alfonso
per questa dichiarazione, ma non iscoraggiato. Unito col Mandarini, avvalorando
le respettive speranze, cercano ottener da Dio quello, che dall'uomo venivagli
negato. Tutti e due a questo effetto applicarono la Messa il giorno
susseguente. Riscontrati i nostri nelle Case di ciò che passava in Napoli,
anch'essi coi loro gemiti penetravano il Cielo: ogni sera l'orazione comune
facevasi col Sacramento esposto; e vedevansi tutti combattere tra la speranza,
ed il timore.
Era interessato per
noi, come se fosse opera sua, il Canonico D. Niccolò Borgia, che fu poi Vescovo
di Aversa, e prima della Cava. Unito Alfonso col Canonico a' dodici di Agosto
fu da D. Marcello Cusano per la mediazione presso Monsig. Cappellano.
Sopratutto fece capo in
Napoli e fuori, a varj Monisteri di Sacre Vergini, ed a molte Anime sante,
affinchè coadiuvato l'avessero presso Iddio. Molte messe si applicarono per
questo affare, e non furono poche le mortificazioni, e le opere penali in
comune, ed in privato in tutta la Congregazione.
Essendo stato col
Mandarini la quarta e quinta volta da Monsig: Cappellano, altrettante volte non
ebbe udienza. Non per questo si disamina Alfonso, nè si dichiara offeso.
Costante nella sua intrapresa, faceva a gara co' disprezzi: questi in
prevenirlo, ed egli nell'incontrarli. Fu di nuovo da Monsig: Cappellano.
Ammesso, tanto disse, e seppe perorare, rilevando il merito dell'Opera, che
Monsignore non potette negare di volerlo favorire.
Avendo in mira Monsig:
Cappellano lo Stato, e l'Opera, non mancò mettere in veduta del Re ciocchè
sentiva in contrario, e quello, che risultar poteva in vantaggio dello Stato, e
della Chiesa.
Per primo accerta, che
la Regola, avendola tutta osservata, conduceva di per se al fine dell'Opera:
poichè vi era tra l'altro di doversi fondare le Case nè Paesi distanti dalle
Città, per essere a portata, i Missionarj di poter istruire la gente ignorante
dispersa per le ville e campagne. In seguito entrando Monsignore ne' sentimenti
politici per ciò che riguarda gli acquisti, - 191 -
e la molteplicità de' Regolari, scrive:
"Dovendo io
umiliare il mio parere alla Maestà Vostra, mi conviene con profondo rispetto
sottoporre alla sua Sovrana comprensione, che riguardo allo Stato, ed al
Pubblico, tanto è fondarsi una nuova Congregazione, quanto il volersi fondare
una nuova Religione. Che i Padri della Missione, per ragion di esempio, sieno
una Congregazione di Preti Regolari, e non una Religione, come sono i
Domenicani, ed i Francescani, questo allo Stato nulla importa, perchè gli uni,
e gli altri si moltiplicano, ed acquistano nuovi beni, i quali passando in manus mortuas, sono fuori di commercio.
La licenza dunque, di
cui vien supplicata V. M., che le suddette Case possano eriggersi in una
Congregazione governata da un Superiore con proprie Regole, principalmente
importa, che le dette Case mediante il Real Beneplacito di V. M., e l'approvazione
di Sua Santità, divengono Collegi legittimi, senza la qual condizione non
possono ora far acquisto di beni.
Altre difficoltà,
rispetto all'Opera, ed altri più forti dubj si fanno innanzi a Monsig:
Cappellano, non perchè utile non fosse allo Stato, e proficua a' Popoli, che
anzi necessaria la stimava; ma temeva, che intiepidendosi col tempo i
Missionarj, non fosse per sussistere il materiale delle fabbriche, e mancar si
vedesse lo zelo per le Anime, ed il fervore ne' rispettivi individui.
"Non può negarsi, che il P. Liguori co' suoi Compagni, così egli seguita a
dire, non s'impiegano ora utilmente, e con profitto nelle istruzioni de' poveri
Contadini, che sono ne' Villaggi più incolti, e sparsi per le campagne, e che
la vita de' Preti Missionarj non sia assai esemplare; ma tutti i diversi
Ordini, e Congregazioni, Sacra Maestà, di Regolari e di Preti Secolari, anche
nel loro nascere sono stati utili ed esemplarissimi; ma indi a poco tempo,
spento il primo fervore, son divenuti inutili, e di peso grave allo Stato,
senza ricavarsene alcun vantaggio.
L'esperienza del passato, gran maestra dell'avvenire, fa temere che l'istesso
farà per succedere alla nuova Congregazione del P. Liguori, e che, morti i
primi Fondatori, l'opera pia ed utile, alla quale finora si sono impiegati con
lodevole zelo, si anderebbe a dismettere, com'è succeduto in altre simili
Congregazioni, che erette per lo stesso fine dell'istruzione de' Villani per le
Campagne, o de' Fanciulli orfani, ora le loro Case si trovano stabilite nelle
Città, con attendere a tutt'altro, che al fine unico, e principale del loro
Istituto.
Tali sono i sentimenti
in contrario di Monsig. Cappellano. Ma non è, che con questo impugnar volesse
l'Opera di Alfonso, e del Mandarini, che anzi avevala sommamente a cuore.
Troppo patente era il bene, che per ogni dove ne rifiutava; ma volendo
l'intento, e non volendo in tempi così critici, comparir condiscendente avanti - 192 -
al Ministero, ed al
pubblico di Napoli, fiscalizza, e dimostrasi contrario, per avere il Principe,
ed il Senato a sua divozione.
Fissa intanto il
parere, e dice così: "Stante tutto ciò, e trovandosi questo Regno pur troppo pieno di Case Religiose, stimerei,
quando non sembri altrimenti al sublime intendimento della Maestà Vostra, di
non concedersi il Real Beneplacito al P. Liguori, almeno senza molte
limitazioni. Propone al Re, prima di ogni altra cosa, l'unione delle due
Adunanze. Le Case fondate ei dice, sono le seguenti: una nella Terra di Ciorani
nella Diocesi di Salerno, un altra nel luogo detto i Pagani nella Diocesi di
Nocera, la terza nella Terra d'Iliceto nella Diocesi di Bovino, e la quarta in
Caposele in Diocesi di Conza. Oltre queste quattro Case, ve ne sono quattro
altre abitate da simili Preti Missionarj, sotto il titolo del SS. Sacramento,
le quali vorrebbero unirsi a queste del P. Liguori, e formare una sola
Congregazione, sotto il nome del SS. Salvatore.
Similmente mette in
veduta del savio Monarca Monsig: Cappellano il maggiore bene, che risultar
poteva alla Chiesa, ed allo Stato coll'unione delle due Adunanze in una sola
Congregazione: "E ben noto, così prosiegue, al sublime intendimento di
Vostra Maestà, che alcuni popoli di questo Regno son quasi selvaggi, e
commettono in gran numero de' delitti, specialmente omicidi, e latrocini
gravissimi, come nel Cilento ne' confini della Provincia di Salerno, verso la
Calabria, ed in alcune contrade della Calabria, e della Basilicata.
Or se in detti luoghi,
ei dice, si fondasse nella Campagna, o ne' Villaggi qualche Casa di questi buoni Preti, stimerei, per fin
che in essi si conserva il presente spirito, che potesse essere di qualche
vantaggio, per rendere quegli abitanti più umani, ed impedire i tanti atroci
omicidi, che tutto giorno si commettono.
Finalmente entra a fare
Monsignore un piano di tutta l'Opera, e rappresenta al Re, potersi accordare ad
Alfonso il suo Real Beneplacito, ma con queste condizioni, e non altrimenti.
"Che i Missionarj non debbano stabilirsi in altro luogo del Regno, senza
prima ottenersene il permesso della Maestà Vostra; che, traviando dal loro
Istituto, e non osservando esattamente l'Opera pia dell'istruzione de'
villaggi, de' contadini, e pastori, possa la Congregazione essere soppressa ipso facto da Vostra Maestà, e da' suoi
Serenissimi Successori, senza esserci bisogno di ottenere licenza o permissione
del Papa: che dandosi un tal caso, i beni, che possono avere acquistati,
possono impiegarsi da V. M., e da' suoi Serenissimi Successori, in opere
pubbliche, e pie, che loro più piaceranno: che non possano accettare eredità, o
donazioni causa mortis, quando il
Testatore abbia parenti poveri fino al quarto grado inclusivo de jure Ecclesiastico; e che ciascuna
delle loro case, - 193 -
non
possa fare maggiori acquisti, che di tanti beni di qualunque natura, e specie
essi sieno, che costituiscono tutto insieme l'annua rendita di ducati mille, ed
anche meno, come più piacerà alla Maestà Vostra.
Esso medesimo Monsig:
Cappellano, anche stimava arduo un tal piano: "E' vero, soggiunge, che in
Roma s'incontreranno forse delle difficoltà ad ammettere alcuna delle suddette
condizioni, ma essendosi in limine
Fundationis, credo, che le difficoltà non sarebbero insuperabili, e
lasciarsi una tal cura all'istesso P. Liguori.
Monsig. Galiano in
questo suo parere garantiva non solo, come dissi, l'unione delle Case di
Alfonso colle Case del Mandarini, e l'erezione delle due Adunanze in una sola
Congregazione; ma conoscendo il pregio dell'Opera, stimava, che anzi propagar
si dovesse in altri luoghi del Regno. "Volendosi introdurre questi buoni
Preti, ei dice al Re, nel Cilento, ed in altri luoghi, dove possono essere più
utili, senza che si facciano nuove Fondazioni, potrà ciò conseguirsi mediante
la soppressione de' Conventini inutili, che si ritrovano in tal luoghi: cosa
non difficile ad ottenersi, quando venga appoggiata dalla Sovrana protezione di
V. M.: maggiormente, che anche i Vescovi vi daranno tutta la buona mano.
Così pensava Monsig.
Galiano; e questi furono i suoi sensi umiliati al Re a' ventidue di Agosto
1747. Non s'intese così nel Consiglio di Stato. Qualunque fossero state le
condizioni apposte nel suo piano da Monsig. Cappellano, non sodisfecero i
Senatori.
Si encomiò l'Opera di
Alfonso, si rilevò il frutto operato colle sante Missioni, e quanto fossero
queste vantaggiose allo Stato; ma riflettendosi, che ove scemar si volessero i
Regolari, come si pretendeva, vie più caricavasi lo Stato di un altro corpo
d'individui, non si volle nè ammettere, nè accordare la progettata unione.
Le condizioni, che proponeva Monsig. Cappellano neppure soddisfacevano; ed il
Re non volendo urtare anch'esso, con quelle date riserbe, in novità tali, che
offeso avessero il Papa, volle a ventitre di Agosto, che soprasseduto si fosse,
e che persistettero le cose nello stato primiero.
Non prima de'
venticinque seppe Alfonso dal Marchese Brancone la risoluzione del Re. Calando
la testa, e restringendosi nelle spalle adora la volontà di Dio nella volontà
del Sovrano. Altro non disse: fiat voluntas tua. L'intese bensì così al vivo,
che la notte seguente, come mi accertò il P. de Robertis, non prese sonno.
Anche al Re rincrebbe
la negativa; e volendolo rincorare disse al Marchese Brancone il giorno avanti:
dite al P. D. Alfonso, che stia sicuro di
mia protezione: che seguiti a promuovere col medesimo zelo l'opera di Dio, e
dello Stato; e veda in che altro posso compiacerlo, che lo farò. Con questa
negativa, se restò afflitto Alfonso, non restò conturbato.
Il Demonio per
l'opposto non poteva lasciarlo in pace.
La mattina de'
ventisette, dicendo Messa nella Chiesa de' Padri Gerolimini, non mancò
assalirlo, e metterlo sossopra. Prima della consegrazione, come ei disse, se
gli fece presente, che, coll'esclusiva del Re, non più sussisteva la
Congregazione; e che sapendosi tal negativa da' suoi Contradittori,
pregiudicata restava la Casa di Nocera, e con quella anche le altre.
Incalzando la
tentazione, ed arretrando Iddio la sua luce a vent'ore a piede, e grondante
sudore si porta in fretta dal Marchese Brancone, volendolo far carico di questo
ideato travaglio, prima di stendersi il dispaccio. Non essendosi aperta la sala
perchè troppo presto, lasso qual era si pose a sedere Alfonso nel mezzo della
scala, in unione della gentaglia.
Avendolo veduto il Marchese
da un balcone, restò confuso per tant'abbiezione: sul punto ordina, che
s'intrometta da lui, ed impone al Cameriere, che quante volte giungesse, ed in
qualunque ora, introdotto ce l'avesse.
Si rasserenò Alfonso,
avendogli detto il Marchese, che essendoci i particolari dispacci, tanto
bastava per la sussistenza delle Case, e della Congregazione. Il caso, soggiunse, non è così disperato, come vi credete: non mancherà alla pietà del
Principe un qualche ripiego, meglio esaminate le cose, per render più stabile
la vostra Congregazione.
Avendo veduto il
Marchese agitato Alfonso più che non conveniva, fattosi superiore: non vedete, gli disse, che con questo diffidare, date a vedere,
che ci è terra per lo mezzo.
Conobbe Alfonso la
tentazione, si confuse, e rasserenato di mente, si uniformò a quanto Iddio era
per disporre, nè più ebbe luogo in lui una tale agitazione. Così passarono, ma
resi inutili, i tentativi, anzi gli ultimi sforzi del P. Mandarini, per vedere
unita la sua colla nostra Congregazione. Alfonso bensì non s'ingannava
nell'essere opposto di sentimento. Chiaramente fece conoscere Iddio, e
manifestossi colla volontà del Sovrano, che non voleva una, ma due distinte
Congregazioni, come tuttavia sussistono con vantaggio della Chiesa, e dello
Stato.
Un altro tentativo fece
Alfonso per la sua Congregazione, che anche restò fallito.
Avendo conosciuto la propensione del piissimo Monarca per l'opera, e la somma
degnazione, che avea per esso, si fece animo di fargli presente la povertà sua,
e de' Compagni. Espose, che non volendo in tempo di Missione, nè convenendo
aggravare il pubblico ancorchè per il semplice vitto, vedevasi costretto tante
volte attrassar l'opera sua anche a' Paesi bisognosi.
Questa povertà commosse
il cuore del Re. Volendo coadiuvar le Missioni, e sollevare i Missionarj, disse
al Marchese Brancone: la domanda è troppo
giusta. Vedete come potersegli dare qualche sussidio: questi poveretti faticano
senza mercede; ma se non hanno da vivere, come potranno faticare, e tirare
avanti le Missioni.
Richiesto Alfonso dal
Marchese, che pensasse anch'esso, come - 195 -
potersegli agevolare la
grazia; consigliato dal Canonico Borgia, propose il sopravvanzo dalle Cappelle
di Castel di Sangro in Abruzzo. Il Re, sentendo il progetto, disse: Sì, queste Cappelle sono ricche, e scarse di
pesi; perchè non impiegarsi per questa Opera così utile il dippiù, che avvanza?
A' ventisei dello
stesso Mese si dispacciò al Tribunale Misto, che facevasi cosa grata al Re, se
si coadiuvasse il P. D. Alfonso in un
Opera , che tanto interessava la Maestà Sua per lo bene de' suoi Vassalli.
Tanto fece il Re; ma non ebbero effetto le sue piissime intenzioni. Si riferì
dal Tribunale Misto, che non eravi sopravvanzo, e che i pesi erano tali, che
assorbivano le rendite delle Cappelle.
Non sarebbe stato così, se gli Amministratori fossero
stati meno stretti di petto, e meglio intenzionati.
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