- 225 -
Cap. 35
Grave imbarazzo in cui si ritrovò Alfonso col P. Abbate,
ed espulsione del medesimo di Congregazione.
- 225 -
Troppo consolato
vedevasi Alfonso per l'ottenuta approvazione Pontificia, e per l'auge in cui
vedevasi la Congregazione, ma un rovescio assai doloroso rattemperò il dolce,
anzi pose in amaro un tanto compiacimento.
Non tanto fu ne'
Ciorani il P. Abbate, che collo spaccio delle sue Erudizioni si guadagnò i
cuori de' Chierici, e molto più i cuori di tutti coll'esemplarità, e
costumatezza. Non sembrava novello, ma veterano di Congregazione. Fecero sì
queste belle disposizioni, che non si ebbe difficoltà, come dissi, affidargli
la Gioventù; e doveva farsi per compiacere i medesimi Chierici, che
ardentemente lo ricercavano. Ognuno credeva essersi fatto un grande acquisto. E
troppo fondate erano le comuni speranze del gran bene, che l'Abate poteva, ed
era per fare. L'uomo era dotto, e costumato, e non bisogna dubitarne.
Questa aperta di studio
ne' Pagani fu molto gloriosa per la Congregazione. La Gioventù fu tutta scelta;
e taluno, che non era di tanto elevato talento, venne lasciato, per la Morale,
nella Casa de' Ciorani. I Chierici erano in numero di dodici, singolari per lo
talento, e più singolari per la virtù.
Colla Filosofia ci
erano gli Elementi della Storia Sacra e Profana, nè mancavaci lo studio delle
lingue. Ogni quindeci giorni, o al più ogni mese ci erano delle conclusioni
nella Cappella di Casa, e c'intervenivano ad argomentare in Filosofia, oltre
varj Preti, Maestri in quelle scienze, anche Scolopi, Carmelitani, Paolotti, Domenicani,
ed altri. L'idea, che si aveva dell'Abbate, ed i talenti, che si ammiravano ne'
nostri, attiravano ognuno a frequentare la nostra Casa.
Queste tante cose consolavano i nostri; ma Alfonso temendo, che l'auge delle
lettere, non fosse di remora allo spirito de' Chierici, insisteva l'Abbate, che
lo studio di Nocera non fosse per pregiudicare lo studio de' Ciorani. Voleva
addottrinati i suoi; ma non volevali svaniti; e colle lettere ci desiderava un
profitto maggiore nella scienza de' Santi.
Furono buoni, anzi
ottimi i principi dell'Abbate, ma non furono tali i progressi. Certi passi tra
gli estremi per lo più sono critici. L'Abbate era uomo di virtù, e non è da
negarsi; ma virtù sistemata - 226 -
a proprio talento; e se sapeva comandare, avvezzo non era ad ubbidire. Non
volendo, doveva dormire; e vegliare; se riposar voleva. Questa mancanza di
libertà facevali peso, e metteva alle strette il di lui spirito.
I primi amori non si
smorzano, nè si cancellano le prime impressioni. Avezzo l'Abbate, per tanti
anni, a' sistemi del proprio Istituto, rattemperato il primo fervore, con noi
non si accomodava, che con suo rincrescimento.
Trattando co' Chierici,
ove riprovava una cosa, ed ove moderata ne voleva un'altra. Certe pratiche di
pietà anche li davano nell'occhio. Baciarsi i piedi de' Soggetti in certi
giorni a tavola; mangiar ginocchioni, o seduto a terra; starne qualche tempo
colle braccia in croce, o incrocicchiar la terra colla lingua prima di
mangiare, o strascinarla per qualche tratto in refettorio, in senso dell'Abbate
erano finzioni, che a nulla servivano.
Queste cose, come
altrove già dissi, erano costumanze volontarie, nate colla Congregazione, e
praticavansi non meno da Alfonso, che dagl'altri vecchi. Tempo prima bensì, che
egli l'Abbate frequentava i Ciorani, le praticava anch'egli, e stimavale non
finzioni, ma di profitto allo spirito.
Reso inteso da'
Chierici il P. Mazzini, che faceva da Prefetto de' studi, amichevolmente lo
avvertì; ma l'Abbate l'ebbe a male. Vi furono ancora delle massime, che
offendevano la morale monastica.
Non voleva, (e faceva
la propria causa) che osservandosi mancamento in taluno, riferito si fosse al
Superiore, che, come Padre, ci dasse del riparo. Voleva egli preceduta la
fraterna correzione; non riflettendo, che riuscendo non proficua, ne nascevano,
riferendosi al Rettore, discarità, e livori.
Per questo ci fu un
attacco forte tra esso, e il Mazzini; e tale, che si venne con S. Tommaso, e
con altri teologi alla mano.
Queste notizie
pervenendo ne' Ciorani, trapassavano il cuore ad Alfonso. Insinuò prudenza al
Mazzini, ed avanzò lettera all'Abbate, facendolo carico del gran male, che la
disparità delle massime produr poteva in uno nascente Istituto.
Vedendo alterati gli umori tra quello e 'l Mazzini, destinò questi di stanza,
non senza suo rincrescimento, nella Casa di Caposele. Non vi fu emenda; anzi
con amarezza di Alfonso, alterò talmente l'Abbate la fantasia de' Chierici, che
divisi si viddero in due opposti partiti.
Uno di questi, e fu il
fervente Diacono D. Tomaso Petrosini, avendosi fatto scrupolo, rappresentò ad
Alfonso il dippiù, che passava in secreto tra l'Abbate, ed altri Chierici di
maggior confidenza. Vedendo Alfonso, anzi che diminuirsi, più avvanzarsi il
male, richiamò l'Abbate ne' Ciorani. Era il mese di Decembre, ed essendoci la
Missione, per gli Ordinandi, imposegli di dare a quelli gli S. Esercizj, e che
più non pensasse a far ritorno ne' Pagani.
Ebbelo a male l'Abbate.
Avendo ripugnato per l'uno, e per l'altro, Alfonso risolutamente gli disse: o questo, o resta in vostro arbitrio il far
ritorno nella - 227 -
vostra Religione. Una notte intera
stiede sossopra l'Abbate: condiscese per gli Esercizj; ma dichiarossi fuori di
Congregazione.
Scompiglio ci fu in Casa.
Predominando in tutti una somma stima per l'Abbate, anche per quello che erasi
adoperato in Roma, e non sapendosi dagli altri i suoi trascorsi, non si
sentiva, che con pena il suo travaglio.
Benchè giovanetto mi
ritrovava anch'io in questa danza. Unito col P. D. Carmine Fiocchi ci demmo a
girare, scusando le di lui intenzioni, o interpretandole in bene, il meglio si
poteva, e condannando i Chierici come mali interpreti.
Entrato in se l'Abbate, non mancò umiliarsi. Questo per appunto cercava
Alfonso, umiliazione nell'Abbate, ed intercessori per esso. Anche i PP.
Villani, e Cafora, che stavano ivi vicino colla Missione, furono ad interporsi.
Credendolo Alfonso rientrato in se stesso; e non volendolo sfiancare presso del
pubblico, unendosi al sentimento di tutti, non ripugnò rimandarlo col medesimo
impiego in Nocera.
Se vi fu tregua, non vi
fu pace. Di nuovo l'Abbate riprese i suoi catechismi, e tra i Chierici chi era
di Paolo, e chi di Apollo.
Alfonso volendo mettere
in salvo, come suol dirsi, la capra e la macchia, venne ad un ripiego.
Richiamando l'Abbate ne' Ciorani, ogni
Religione li disse, ha in Roma un qualche rifugio; e perchè non tentare anche
noi stabilirvi una Casa. Il progetto non dispiacque nè all'Abbate, nè ai
Padri Assistenti, e di consenso si stabilì inviarvi il medesimo Abbate con un
altro Padre. Con questo credeva Alfonso mettere in salvo l'onore dell'Abbate, e
levargli nel tempo istesso i Chierici dalle mani.
Non poteva l'Inferno
desistere dalle sue intraprese. Avendo penetrato l'Abbate il giusto motivo di
tal mossa, non vi fu furia, che non l'agitasse.
Malintenzionato qual'
era, entrò nell'impegno di rovinare i Chierici, e la Congregazione. Mettendo in
cattivo aspetto l'Istituto, progettò a quei del suo partito voler fare in Roma
una nuova Congregazione, con altro profitto, e con altro metodo.
Quattro di sua maggior confidenza, ed erano i migliori che si avevano,
risolvettero voltar le spalle all'Istituto, e seguitare il nuovo Fondatore.
Vedevansi questi da gran tempo invogliati per le Missioni degl'Infedeli; ed
egli ne fece di ognuno un apostolo del Mogol, del Paraguai, o della Cina.
Viveva Alfonso
totalmente ignaro di questo complotto, e disponeva il tutto pel viaggio
dell'Abbate.
Iddio però, che
proteggeva la Congregazione, volle far vedere come assistevalo nel governo.
Doveva l'Abbate partir per Napoli a quindeci di Ottobre. Tutto era all'ordine,
e già andava licenziandosi dagli amici; ed Alfonso ai quattordici chiamò i
Chierici ne' Ciorani, che erano circa dodici in numero. La mattina pervennero
questi in Casa.
Terminata l'orazione
vespertina, Alfonso radunando la consulta, con istupore di ognuno, propose
l'espulsione del P. Abbate. - 228 -
La novità sorprese, ed essendosi tutti fissati nel ripiego di mandarsi in
Roma, tutti furono di sentimento opposto. Vi fu chi disse, che non poteva egli
espellere un Consultor Generale, senza il voto decisivo degl'altri. Facevasi
forte Alfonso colla Regola, che lo vuole consultivo, e non decisivo; ma se gli
ostava, che correr non poteva per li Consultori, perchè non unendo taluno col
Rettore Maggiore, questi se ne sarebbe sbrigato licenziandolo di Congregazione.
Sino alle ventiquattro si fu in un continuo contrasto. Sostenne Alfonso il suo
parere; anzi con lagnanza di qualche prepotenza.
Non si parlò così la
mattina susseguente, come la sera antecedente. Terminata l'orazione comune, i
quattro giovani stravolti dall'Abbate, si presentano ad Alfonso con crocchia
alla mano, e con cappa rovesciata sul braccio, cercando dispensa per i voti già
fatti. Sbalordita la Consulta a tal novità, mutò linguaggio, ammirando ognuno
la di lui condotta, e come Iddio assistevalo.
Audaci i giovani, anzi
senza rispetto, insistono per la dispensa. Alfonso si butta ai loro piedi, e
piangendo, cerca farli carichi dell'inganno; nè vi fu Padre, che per essi non
s'interessasse; ma più temerarii ripetevano: vogliamo partire. Vedendosi l'ostinazione, se li propongono otto
giorni di Esercizj, di poi risolvere. Tutto fu inutile. Invasati, quali erano,
volgono le spalle ad Alfonso, e senza ottener dispensa, dispettosamente
prendono a piedi tutti e quattro la strada di Nocera.
V'è cosa, che fa
risultare maggiormente l'assistenza di Dio in Alfonso. Volendo l'Abbate
coonestare, prevenuto che fosse in Roma, la sua incostanza, formato aveva un
memoriale al Papa, sottoscritto dai medesimi quattro Chierici.
Esponevano questi un mondo di villanie contro Alfonso, e la Congregazione, e i
gravi disordini, che in questa vi regnavano. Dopo qualche tempo che fossovi
giunto, finto avrebbe aver ricevuto un tal memoriale, e contestare cogli amici,
e persone di riguardo il male, che esso asseriva in Congregazione.
Così presentandosi al
Papa, non solo ottenere per gli quattro Chierici la dispensa de' Voti, ma
credeva esser consigliato dal medesimo Pontefice a volersi ritirare nel suo
Istituto. Tal'era il concerto fatto; ma restò ingannata da se stessa la propria
malizia. I Chierici non potendo soffrire la coscienza, che tumultuava, ed
aspettar da Roma la dispensa de' Voti, ancorchè penetrato non avessero la
determinazione di Alfonso, impazienti si smascherarono, ne stiedero a quello,
che coll'Abbate erasi concertato.
Quest'anche è poco.
Altra pruova ci fu, coll'iniquità dell'Abbate, contestò la sceleragine de'
Chierici. Di per tempo, per espresso, la medesima mattina Alfonso ordinato
aveva al P. Fiocchi, ch'era Rettore in Nocera, di far sentire all'Abbate, ovunque si trovasse, non esser più della
Congregazione.
Erasi egli portato per
licenziarsi da Monsignor - 229 -
Volpe.
Avendolo il P. Fiocchi incontrato in piazza, ivi medesimo li fè presente il
decreto. Non avendo avuto lo spirito di far ritorno in casa, e ripigliarsi le
sue carte, si rinvenne nel tiratojo del suo tavolino il memoriale anzidetto.
Tanto dispose la Provvidenza; e tutto fu estro di spirito quell'ovunque si trovasse. Non si sarebbe
avuto nelle mani il memoriale, se l'Abbate non veniva licenziato fuori di casa.
Tali furono le
conseguenze di un soggetto applaudito, ma non grato con Alfonso, e colla
Congregazione.
Invasato dal demonio,
un altro attentato operò in Napoli, niente dissimile dal nostro. Nel Collegio
della Sacra Famiglia, detto i Cinesi, viveva un giovane Sacerdote, Fratello di
uno dei quattro Chierici. Sospirando questo, con un'ardenza tutta particolare,
la Missione della Cina, era la gioia del P. Fatigati.
Avendolo l'Abbate visitato, unito col Fratello, e cogli altri tre Chierici, e
facendo vedere già stabilita in Roma la sua nuova Congregazione, e destinati
dal Papa i quattro giovani, che con se aveva, missionarii agl'Infedeli, e
coronato ognuno colla laurea del martirio, più non ci volle per vedersi
spostato quest'altro giovanetto, e dichiararsi di lui seguace. Solo partì per
Roma il P. Abbate; e così sedotti restarono abbandonati i cinque giovanetti,
senza che neppure di là li avesse degnati di un rigo.
Questi tanti successi
fecero senso in tutti, anche ne' Religiosi del medesimo Ordine. essendo stato a
condolersi con Alfonso uno di que' rispettabili Religiosi, di presente
degnissimo ex generale di quell'Ordine.
Alfonso non si querelò
per l'accaduto, ma placidamente li disse:
Ora ha fatto piangere a noi, verrà giorno, che farà piangere voi. Non fu
vano il vaticinio. A capo di anni rovesciò l'Abbate l'economia di quell'Ordine.
Dismembrò le Badie di Regno da quelle dello Stato Ponteficio: si fe dichiarare
dal Regnante Pontefice Abbate perpetuo della Badia di Roma, e perpetuo
Commissario generale di tutte le Badie dello Stato, con altri gravi disgusti di
queste Badie di Regno, e di quelle ancora.
Tanto nell'Ottobre 1751
succedè in Nocera, e Ciorani. La vinse Iddio, e non l'Inferno. Alfonso tutto
attribuì alla gloriosa Madre S. Teresa sua special protettrice, essendosi
sviluppata una tal machina, e così funesta per la Congregazione, nelli primi, e
secondi Vesperi della Santa.
D'allora in poi S. Teresa si ebbe da tutti per special
protettrice, e per essa una maggior divozione da tutti i Congregati.
|