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Cap.57
Somma povertà, e stretta Ubbedienza esatta da Alfonso
ne' suoi Congregati.
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Sopra due virtù, come
sopra due basi, stabilì Alfonso tutto l'edificio di sua Congregazione: cioè
Povertà, ed Ubbedienza.
Se queste due virtù,
soleva egli dire, si mantengono in vigore, la Congregazione non è mai per
crollare, e lo spirito, anzichè mancare, si vedrà sempre più accresciuto, ed in
maggior fervore. Quanto sulle prime egli abbozzò intorno a questo nella Città
di Scala, ed indi perfezionò nella Casa de' Ciorani, tanto con suo
compiacimento, confirmato ei vide dalla Sede Apostolica.
Benchè sia padrone ogni
soggetto de' suoi beni patrimoniali, egli bensì proibì a tutti, che
dell'usufrutto di quelli far non si potesse verun uso da chiunque di essi, a
sua propria disposizione, e che lasciato si fosse a beneficio delle proprie
case.
Non permise depositi di proprio dominio; e se permise i livelli, perchè povera
la Congregazione, questi esser dovevano nella piena disposizione de' rispettivi
Superiori. Stabilì ancora, che qualunque denaro pervenuto si vedesse a chiunque
come Congregato, o per limosina, o per benevolenza, o per rispetto delle
proprie fatiche, tutto si dovesse presentare a Superiori, e disporsi da quelli
a loro arbitrio.
Credette con questo aver chiusa la porta all'umana cupidigia; e non avendo il
soggetto libertà di possedere in Congregazione, e disporne ad arbitrio, esente
si vedesse da qualunque inquietudine.
Geloso Alfonso della
santa Povertà voleva, che da' rispettivi Rettori zelata si fosse con
iscrupolosa esattezza; ed affinchè in avvenire introdotto non si vedesse verun
rilasciamento, similmente stabilì, potersi chiunque fosse, e si ritrovasse
manchevole in questo, anche mandarsi via dalla Congregazione; anzi se il
Superior Maggiore permettesse per sua debolezza innovar cosa contro la povertà
da esso stabilita, volle, - 341 -
che pienamente provato, deporre si potesse dalla carica, con restar privo
in perpetuo di voce attiva, e passiva.
Tutto doveva esser povero,
quanto era per bisognare ai soggetti. Proibì l'uso della seta, o capicciola, e
qualunque sorta di vanità, o leggerezza: e così in comune, che in particolare
anche l'uso di qualsivoglia cosa o di oro, o di argento. Volle sottana, e cappa
di semplice saja, e panno ordinario: le calze rotte, e triviali, così le scarpe
all'apostolica, e senz'attillatura. Non permise canne indiane, ma una croccia
boscareccia per bastone, anche senza gorbia, o pomo. Di ferro volle le
forchette a tavola, i piatti, e vetri di minor spesa. Così tutt'altro, che
esser doveva di loro uso.
Povertà volle nelle
stanze. Non permise armarj, o altri comodi, ma un semplice tavolino con fodero
senza chiave. Ordinarie, ed uniformi esser dovevano le tele per loro uso, ma in
mano del guardarobba di casa. Non volle libri di proprio dominio; e portando il
bisogno, prender si dovevano dalla comune libreria. Anche un aco, un filo non
doveva essere in proprietà del soggetto, ed occorrendo, ritrovavasi in luogo
determinato. Semplici pagliacci, come dissi, destinò per letti, proibendo il
materasso: accordò bensì i cuscini di lana, ma questi, e lensuoli di tela
comune. Tutto l'arredo della stanza non erano che tre, o quattro sedie, quattro
imagini in semplice carta, un candeliere di rozza creta, e due, o tre libri
spirituali.
Povera, e senza fasto
volle ancora tutta la Casa. Stabilì le stanze palmi dieci in lunghezza, e
dodici in larghezza; i dormitorj larghi palmi otto; vietò i balconi di ferro al
di fuori; non volle nelle stanze, o corridori suffitta di tela, o di carte
miniate; nè altro, che ispirar potesse ornamento, e vanità.
Sul principio invece di
vetri, si usavano alle finestre delle carte incerate, e ne' finestroni una
semplice telaccia; ma patendo il lume, e non potendosi studiare, permise
quattro vetri nelle stanze, e non più, di un palmo in larghezza.
Benchè tutto spirasse povertà, e miseria, per Alfonso però sembrava scialoso,
avendo egli in mira il petroso di S. Pietro di Alcantara, e non altre fabriche
magnifiche, e spaziose.
Avendo tolto di mezzo
il mio, e tuo, ed esentato il soggetto dall'anzia di possedere, e disporre,
stabilì tra tutti un vivere perfettamente comune, e senza veruna parzialità; e
se amava la Povertà, piucchè questa, amava Alfonso la Vita Comune, se non si
vuol dire, che l'una, e l'altra unita, erano come la gemma più preziosa del
proprio cuore.
"Se manca la
perfetta Comunità, non possono mancare, ei diceva, sollecitudini, ed invidie.
Chi può, e chi non può; ma chi può, di necessità rendesi invidioso a chi meno
può. Quest'è tra Regolari la sorgente di mille inconvenienti. Chi non può,
anche malis artibus - 342 -
non manca procurarsi,
ciò che li bisogna.
Era così geloso per la vita comune, che ove vedesse in taluno de' Superiori
poca sollecitudine per li bisogni de' soggetti, ardeva di santo zelo,
correggeva, e dava di mano a castighi. Carità, e Comunità erano sinonimi in
senso di Alfonso.
Voleva povertà, ma non
miseria tra i suoi, e tale, che offendesse il decoro. Avendo veduto le scarpe
in un Chierico, non atte all'uso, Alfonso non parlò; ma fece tal guardata alle
scarpe, ed al Rettore, che mandollo carico di meraviglia. Partendo un soggetto,
per situarsi in altra Casa, non soffriva vederlo bisognoso, e non provveduto
del necessario. Non sono poche le riprenzioni, ma troppo amare, che per questo
si viddero fatte a Rettori.
"La Carità,
replicava, mantiene la Vita Comune, e la Vita Comune sostiene la Povertà;
mancata la Carità, tutto è rovesciato. Molto più risentivasi, se vedeva qualche
Rettore indulgente con se, e ritenuto con gli altri. "O quanti Superiori,
esclamava, vedremo dannati nel giorno del giudizio, se per loro colpa la
Povertà si è veduta offesa, e la Vita Comune danneggiata, e distrutta.
Benchè Povertà, e Vita
Comune si dassero la mano, com'ei dicea, e si garantissero l'un l'altra, in
seguito riflettè, che patir poteva detrimento la Vita Comune, e non restar
offesa apparentemente la Povertà.
"Qualche
indulgenza ai vecchi, e certe licenze estorte più dalla debolezza, che dalla
volontà de' Superiori, ancorchè sembrano, ei diceva, non offender la povertà,
avendosi il permesso, sono però abusi, che col tempo addivengono leggi, con
grave danno della povertà, e maggiormente della vita comune.
Volendo precludere la strada, ed evitare qualunque rilasciamento, così per
l'una, che per l'altra, stabilì per i Rettori un particolar giuramento, con cui
si obbligassero, non eccettuandosi il Rettore Maggiore, non accordare a verun
soggetto, per qualunque motivo, l'aver denaro come proprio presso di se, e
disporne a talento; e che di quello si dava dalla casa, uscendosi fuori, non
potersene fare altro uso, che per quello che venga somministrato.
Similmente
considerando, che alterar si potrebbe la povertà, e vita comune coi permessi di
cose comestibili da tenersi a lungo tempo nelle stanze, specialmente a soggetti
infermicci, stabilì col medesimo giuramento, che i Rettori locali non potessero
dar licenza a chiunque di tener in camera per proprio uso, dolci, siruppate,
rosolj, ciccolata, tabacco, o altro; e che bisognando somministrar si dovesse
volta per volta ad ognuno da chi ne fosse destinato.
Così volendo andar
incontro a qualche abuso, che i medesimi Rettori introdur potessero per se
stessi, obbligò anche questi non poter tenere in camera per proprio uso le cose
suddette, cioè danaro, e comestibili, e che realmente incorporar - 343 -
dovesse ognuno nella
Comunità qualunque cosa, che diretta venisse, così ad essi, che ad ogn'altro
soggetto.
Questo giuramento
a volle si fosse preso da ogni Rettore, entrando
nell'impiego avanti la Comunità, e presente il Capitolo, entrando nell'impiego
il medesimo Rettore Maggiore. Tanto eseguì egli stesso nell'Ottobre del 1755, e
con questo se ne passò poi, come si spera, all'eternità beata.
Questa pensata non fu
sua, ma dell'Eminentissimo Spinelli. Non approvando questi, formando il voto da
mandarsi al Papa per l'approvazione della Regola, la deposizione del Rettore
Maggiore, innovando cosa contro la povertà, perchè litigiosa, e causa di
partiti, propose un tal giuramento, come antemurale per la povertà, e per la
vita comune: utilius videtur sanciri,
così egli, ut Rectores omnes, atque adeo
Rector Major, in suscipiendo munere, jurare debeant, coram universa familia, se
numquam permissuros, qualibet de causa, Congregationis Alumnis, ut possint
arbitrio suo, vel minimum pecuniae erogare, nec rei cujuscumque privatum usum
habere, eam veluti propriam possidendo.
Non convenne col
Cardinale l'Uditore dell'Eminentissimo Bisozzi. Alfonso vedendo, che con questo
giuramento si andava incontro, e che non venivasi al rimedio succeduto il male,
stimò abbracciarlo, e proporlo ai suoi, come provvidenza più sicura, e più
pronta per prevenirsi in Congregazione qualunque rilasciamento.
Riflettendo sempre più
a qualunque cosa, che offender potesse, o la vita comune, o la santa povertà, e
temendo come dissi, che qualche abuso si potesse anche fare dai Confessori di
quello incerto, che da penitenti devesi restituire, disponendone essi a
talento, non lasciò prevenirne l'abuso, e darci del riparo.
Avendo consigliato questo punto non meno coi suoi anziani, che con altri savj
in Napoli, col parere di questi, - 344 -
e coll'autorità de' Dottori, comandò,
che l'incerto restituito, non si disponesse a proprio arbitrio ma posto in mano
de' Superiori, si fosse fatto da questi quell'uso, che meglio si stimasse in
beneficio del prossimo.
Proibì ancora il
riceversi danaro da penitenti, per distribuirsi in limosina a chi meglio da
essi si stimasse, come cosa anche contraria al voto della povertà: "non
convenendo, ei diceva, a chi è ligato con questo voto, qualunque proprietà, nè
l'uso indipendente dalla volontà de' Superiori.
Questo è quello, che
facevali scrupolo, com'egli accenna nella Circolare del 1757, e che stimava
necessario un tal divieto, anche per ovviare ad altri, ma molti inconvenienti.
Monsig. Borgia specialmente riflettendoci anch'egli, se sentirgli, che se in
questo non si dava riparo, i soggetti un giorno da Congregati del Redentore non
si troverebbero di verun'istituto.
Non minor premura ebbe
ancora per la virtù dell'ubbedienza. Stabilì, che i soggetti niente avessero di
propria volontà, ma che tutta risposta la tenessero nelle mani de' respettivi
Superiori. Il voglio, e non voglio avevali per termini esecrandi.
"A che siamo venuti in Congregazione, diceva Alfonso, se non per dar gusto
a Dio, e per fare la di lui Santissima Volontà? Ma come si può cercare il
gusto, e la volontà di Dio, se faremo renitenti in soggettarci alla volontà de'
Superiori, che sono quì in terra i Luogotenenti del medesimo Iddio? Non voleva
nè repliche, nè scuse.
"Non si replica
all'ubbidienza, così in una sua circolare, nè si faccino interpretazioni. Il
mancare in minima cosa all'ubbidienza è difetto grave da castigarsi con gastighi
severi. Usino co' loro Superiori ogni rispetto, così si spiega nella Regola:
con essi non si scusino, nè si difendino, e ne ricevano con umiltà le loro
ammonizioni".
Ammetteva, anzi
voleva, avendosi cosa in contrario, che si esponesse, ma con sommissione, la
difficoltà: ma che fatto l'esposto, senz'altra replica, ognuno soggettato si
fosse a quanto le venisse comandato.
Posizione Originale Nota - Libro II, Cap. LVII, pag.
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