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P. Antonio Maria Tannoia
Della Vita ed Istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori...

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  • Libro 3
    • Cap.20 Prosieguono li travagli della medesima carestia.
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Cap.20

Prosieguono li travagli della medesima carestia.

 


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Se sul principio furono tali in S. Agata i travagli della penuria, in seguito si ridussero all'estremo. L'avarizia de' benestanti avendo soffocati i granaj in Puglia, che ben provisti ne stavano, anche in Napoli, e ne' luoghi della campagna mancò totalmente il pane, e non si aveva del grano, ancorché a docati dodeci, e quindeci il tomolo.

Riscontrato di questo dal fratello D. Ercole nel mese di Marzo "mi è dispiaciuto, li scrisse, sentire la penuria di cotesta Capitale. Dico il vero, che ne ho gran pena; ma perché Dio vuole così, sia sempre fatta la sua divina volontà. Scrivetemi spesso; specialmente se si trova grano, e dove, ed in che quantità. In somma, soggiunge, stiamo tutti angustiati. Voi costì, e noi quì. Stiamoci rassegnati alla volontà di Dio. Iddio specialmente castiga la Città di Napoli, perché vi sono molti, che non credono a Dio. Volesse Iddio, ed ora si ravvedessero".

 

Avanzata la penuria, mancando il pane anche in S. Agata, e non facendo la fame quartiere a veruno, vedevansi i poveretti, come Egli predetto aveva, dar di piglio alle frondi delle siepi, e satollarsi per la campagna del rifiuto delle bestie, anzi dell'erbe più nocive. vedendo Alfonso posto a partito la vita di tante migliaja di poveri, che vedevansi moribondi, o spirati in mezzo alle strade, anch'esso agonizzava, e non davasi pace. Non avrebbe voluto mangiare per soccorrere i suoi figli.

Tutto il suo vitto in questo tempo non si ridusse che a pane, e minestra. Avendosi chiamato il suo Secretario "D. Felice mio, li disse, vedete che la gente sen muore per la fame, bisogna che


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scarseggiamo tutti, e dovete anche voi, e gli altri pazientare". Questa parte fece ancora col Vicario. Tolse il terzo piatto, e non permise alla Famiglia che minestra, e scarsissimo allesso.

 

Sollecito per il suo Popolo chiama i Capi di tutti i Conventi, che vi erano in Diocesi. Impone a questi, non che pregolli, che anch'essi per soccorrere i poveri, moderato avessero il vitto alla propria Comunità. Insisteva con lettere, e giornalmente informavasi come passava la limosina ne' respettivi Monasteri.

Avendo saputo che un Superiore di un Convento bastantemente comodo passavala troppo scarsa coi poveri, sel fa chiamare, lo rimprovera del suo fare, mettendoli avanti gli occhi la propria crudeltà. Sono io in obbligo, rispose arditamente il Religioso mantenere la propria mia Famiglia, ed il soverchio, e non altro darlo ai poveri.


Questa risposta fu stoccata al cuore di Monsignore. Rialzandosi tutto fuoco dalla sua sedia, con tuono grave, "Sapete voi, li disse, cosa vuol significare mantenere? vuol dire, che devi mangiar tanto, cho non muori, ed il di più sei tenuto ai poveri. Quando ti facesti Monaco, dicesti supplicando, che volevi menar vita povera, e penitente, non già che volevi empirti la pancia e saziarti. Credi tu al Vangelo, o sei un turco? "


Mutò sistema il Religioso, ed i poveri di quel luogo si viddero altrimenti provveduti.

 

In questo tempo di penuria dir dobbiamo essersi veduto in S. Agata in persona di Alfonso il trionfo della carità Cristiana. Riguardando ne' poveri la persona di Gesù - Cristo, se li abbracciava, e rendevali consolati. Vedevasi lieto quando aveva che dare, e distruggevasi in lacrime, vedendo il popolo, che chiedeva soccorso, ed ei non aveva. Tutto era aperto per questi; vi era stanza in palazzo, ove non vedevansi poveretti o rifocillati, o tolti di mano alla morte.

Merita memoria un caso, che non stimo trasandarlo. Una delle sere, essendosi li poveri tutti sodisfatti, il Secretario, nel portarsi a letto, vedendo un uomo disteso sopra una panca della sala, credeva che dormisse. Unito come era col fratello Francesc'Antonio, e col servidore Alessio, vanno per risvegliarlo, e trovano un giovine coll'anima tra i denti, assiderato e senza verun moto. Sorpresi, ne danno parte a Monsignore. Sollecito vi accorse, ed in veduta dello spettacolo perde anch'egli la parola, cerca aceto per rinvenirlo, ed altri liquori; corre alla stanza per un pezzetto di cioccolate, ed a stento, avendo strette le mascelle, del fa intromettere nella bocca.


Così con sua consolazione ritornato si vide quel povero giovine da morte a vita.

 

Questo caso risvegliò in Monsignore maggior tenerezza per li poveri. Ordina che si abbiano alla mano liquori, ed altre cose spiritose; e che essendoci in Città poveretti esinaniti, rifocillati si fossero del medesimo vitto che per se apparecchiavasi, e per li suoi familiari.


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Se per li poveri in ogni tempo non vi era portiera, in questo della penuria vedevasi Alfonso alla porta de' poveri. Portandosi in giro per le case, provvedeva i tanti miserabili di medicamenti, e di vitto. Essendosi raccomandato per dolci alle monache in Napoli o penitenti, o parenti, soccorreva per se, e per mezzo di altri le persone inferme. Sollevati vedevansi i poveri, e più sollevato anch'esso, vedendo i poveri sazi di pane.

 

Non avendo più che vendere in sollievo de' poveri, pensava esitare anche l'argento de' passati Vescovi, che conservavasi nella Cattedrale; cioè pastorale, bacile, bocale, e bugia, com'anche la gioja di valore, che affibbia nel petto il piviale.
Come facciamo, li dissero i Canonici, non volendoli dare un aperta negativa, dovendo voi tenere i Pontificali? Mi servirò, rispose Alfonso, del bacile, e bocale di creta. Forse l'argento è precettato? Vedendosi resistito, con suo rammarico pregò che almeno si fosse pignorato, e neppure fu compiaciuto. Questa seconda negativa penetrogli maggiormente il cuore. Non potendo urtare, non essendo cosa sua, vedevasi da solo a solo cogli occhi grondanti di lacrime andar freneticando per le stanze del palazzo.

 In queste angustie invidiava egli i Vescovi ricchi, perché avevano maggior mezzo per soccorrere i miserabili. Non sono io, disse un giorno, di tanto merito presso Dio, come S. Tommaso da Villanova, che ritrovar possa ripieni di grano i miei granaj.

 

Non è che la sola Città di S. Agata vedevasi in queste strettezze. Tutta la Diocesi cercava pane, e faceva capo da Monsignore; anzi vi concorreva gente da' convicini casali e paesi. Vedevansi i migliori Gentiluomini, e tante persone benestanti e denarose, che anche aveano pane da poter vivere. A tutti porgeva mano Alfonso, ma non poteva soddisfar tutti.

Mi attestano i Parrochi che non vi fu paese, che non avesse avuto in quantità grano, e legumi, ed anche danaro per li comuni bisogni. Solo in Arpaja mandò in una volta tomola nove di fave, come mi dice il Parroco D. Pasquale Leffo.

Perché come Vescovo era Barone del Feudo di Bagnolo, accerchiato vedevasi da quei naturali, anzi minacciato. Avendo avuto di soppiatto da Napoli quantità di grano a docati sei il tomolo, provvedeva giornalmente con competente quantità di pane quelle tante famiglie.

 

Se amare e dolorose furono in S. Agata le premesse nell'anno sessantatrè, più triste furono le conseguenze. In altri gravi travagli, ed angustie ei si vide, che troppo li oppressero lo spirito. Qualunque fossero le sue sollecitudini non era da tanto, che soccorrer poteva, e farsi incontro ai bisogni di ognuno.

A venti di Febrajo dell'anno susseguente, avanzata la penuria, S. Agata si vide tutta in rivolta. La plebe, che non ammette ragione, dichiarossi tutta a danno di D. Domenico Cervo,


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che in quel tempo era Sindaco. Erasi munito il poveretto nella propria casa; ma il popolo, volendolo assassinare, si diede a fracassare il portone con accette alla mano.


Riuscì al Cervo rifuggiarsi nel palazzo vescovile. Sapendosi dai tumultuanti, che ivi erasi rifuggiato, perduto ogni riguardo per Alfonso, assaliscono e circondano il palazzo; e fattisi dentro cercano il Sindaco per farlo a pezzi. Alfonso fattosi incontro si offerisce vittima al comun furore: abbraccia, e stringesi al petto ognuno, e tutto lacrime scusa il Sindaco il meglio che poteva.

Vita per vita, gridava la moltitudine.

Alfonso volendo raddolcire lo sdegno, e confidando nella provvidenza di Dio, dispartisce tutta la farina, e tutto il pane, che riserbato teneva per li poveri più bisognosi. Corre nel Seminario, e distribuisce ancora tutto il pane, e tutta la provista, che vi era per que' giovanetti. Cessò la mossa, ma non si vide fuori di affanni. "Quì stiamo in gran timore per la carestia, scrisse a' 21 di Febrajo al suo fratello D. Ercole. L'altro ieri successe una sollevazione molto spaventosa, e Domenica ne temiamo un'altra.

 

Non ancora ei respirava per lo passato travaglio, che ne successe un altro. Fatta intesa la Corte in Napoli del sollevamento sortito in S. Agata, e temendosi di peggio, vi distaccò sessanta soldati di Cavalleria. Questi non intimorirono, ma aizzarono maggiormente il popolo.

Moltiplicata la gente, di vantaggio mancava l'annona; e questo istesso fomentava un'altra mossa. Considerando Alfonso le conseguenze non mangiava, né dormiva. In tutte le ore conferiva coll'Officialità, affinché i Soldati non fossero stati di modestia a veruno, e nel tempo istesso si maneggiò in Napoli per lo richiamo della soldatesca. Chiama i Capi popolari, raccomanda la quiete, compatendo la comune afflizione. Avendo procurato altro grano e legumi, soccorreva tutti, per quanto poteva, con pane e con danaro; né si vide in pace se non partiti i soldati, ed il popolo acquietato.


"In questi giorni passati, così a 21 Febraro al medesimo D. Ercole, Dio in quale confusione sono stato, che per più giorni mi han levato il sonno.

 

Tra queste emergenze non solo ajutavasi colla limosina, ma suppliva ancora coll'orazione. Assistendolo co' suoi lumi lo spirito di Dio, preveder li faceva i travagli, e darvi del riparo anche ne' luoghi lontani.

In Arienzo specialmente evitò, profetizzando, il massimo de' travagli per D. Ciro Lettieri, che n'era Capoeletto. Avendo ritrovato giungendo in S. Agata tutto sconvolto l'Archivio, per riordinarlo chiamato si aveva il Tesoriere di quella Collegiata D. Fabbrizio Lettieri fratello di esso D. Ciro.

Richiesto questi che tempo vi necessitava, per lo meno, disse, una quindecina di giorni. Alfonso ancorché così preoccupato, non erano passati otto giorni, che chiamandosi di Sabbato il Tesoriere, dimanda a che stassero le scritture. Non , rispose il Tesoriere, se mi


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bastano altri otto giorni. , ripigliò Alfonso, voglio, che stasera vi portiate in Arienzo, perché ci bisognate, ed avete che fare; e sul punto avvisa i familiari per apprestarseli un comodo. Ammirato restò il Tesoriere per sì fatta licenziata, non sapendo il perché. Partì; ma mal sodisfatto di Monsignore.

La mattina di Domenica ritrovandosi in Arienzo, sentendo la campana a parlamento, curioso vi si porta, e nel giungervi ritrova il popolo, per la mancanza del pane, tutto in armi, e tumultuante contra di D. Ciro di lui fratello. Conobbe allora il Tesoriere il bisogno, che Alfonso dicevali di sua persona. Se esso mancava, il fratello sarebbe stato assassinato. Con ritrovarsi nel conflitto, salvollo nel Convento de' PP. Agostiniani; e da Frate vestito, postolo in fuga, libero lo rese dalle mani de' tumultuanti, e non erano da meno di quattro in cinque mila.

 

Non finì in S. Agata cogli anzidetti anfratti la dolente istoria dell'anno sessantaquattro. Amaro e troppo disgustoso per Alfonso fu questo calice, e restavaci porzione di feccia non ancor tranguggiata.

Informato il Tribunale di Montefusco del passato tumulto, vi destinò in ricerca de' capi tumultuanti il Fiscale D. Niccola Vuolo. Vennero rubricati dai Subalterni, ma erano innocenti, da trenta capi di casa, ed in seguito citati tutti in Montefusco. I Governanti della Città, considerando rovinate tante famiglie, dolenti fecero capo dal comun Padre. Gelò Alfonso in sentirne il rapporto; e prevedendo le conseguenze, ne pianse.


Ritrovavasi allora Preside in Montefusco il Marchese di Monteverde. Non perdendo tempo li rappresenta Alfonso l'innocenza di quei poveretti, e prega esentarli da quel travaglio. Furono così efficaci le sue rimostranze, e tal credito egli aveva presso il Tribunale, che più non se ne parlò delle asserite criminalità.

Così riparò ancora altri guai in altri luoghi della Diocesi. Né fu poco il sollievo di tanti e tanti doppiamente afflitti e dalla fame, e dalle reità addossate. Patì la Diocesi di S. Agata, non v'ha dubbio, ma non soffrì gran cosa in paragone delle altre. Ove i tanti luoghi non mangiavasi il pane, che a grana dieci, e dodici il rotolo, in S. Agata si aveva a grana sei e mezzo, benché compravasi il grano a docati sette il tomolo.




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