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Cap.21
Alfonso disbrigata la S. Visita, si porta in Nocera
per assistere al nostro Capitolo Generale, e ritirato in S. Agata, dà fuori
un'Apologia per la sua Morale.
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Avanzata la primavera,
e respirandosi per la penuria coll'abbondanza de' novelli legumi, ed anche in
seguito di tutto il ricolto, respirò anche Alfonso. Non perdendo tempo, aprì
subito la santa Visita in S. Agata.
Troppo confuse avean le
cose i funesti intrighi della carestia; e tra l'altro avean fatto giuoco le
usure, ed i contratti non leciti. Per tutto riclamò Alfonso; e non lasciò
riparo da darvi, chiamandosi i mercanti, e benestanti, e facendoli carichi de'
proprj doveri.
Sistemate le cose in S.
Agata, e suoi casali, e raccomandando a' Parrochi specialmente il sollievo di
tanti infermi, o convalescenti, e le famiglie più bisognose, s'inoltrò in altri
luoghi della Diocesi. Non così è sollecita una madre per vedersi alle poppe i
suoi pargoletti figli, come lo fu egli anzioso per visitare il suo popolo, e
consolarlo.
Ovunque arrivava, non
era ricevuto, che cogli Osanna di allegrezza, vedendosi tra di loro il comun
padre; ed egli facendo mostra della gran tenerezza che avea per tutti,
consolava specialmente i poveretti con profusa carità, dimostrando con tutti
viscere di Padre.
Tra questo tempo
dovendosi tenere dai nostri in Nocera, a tenor della Regola, il Capitolo
generale, Alfonso venne supplicato a volervi presedere. Gradì l'invito,
ancorché in tal tempo affollato si vedesse da angustie non poche. "Bisogna
che sia prima di Ottobre, scrisse a quattro di Luglio al P. Villani, perché poi
cominciano i freddi, ed allora bisogna che io cominci a raccomandarmi l'Anima,
perché mi vedo troppo indebolito col petto, e sò quello che ho passato in
quest'inverno.
Soggiunge: "Pregate Iddio per me povero vecchio esinanito, che ho da
contrastare, e combattere continuamente in un officio così scabroso e tedioso
di Vescovo, e Vescovo di S. Agata, dove vi si trovano molti mali, e mali
invecchiati.
In questo tempo
pensava, vedendosi oppresso, come potersi sgravare dal peso del Vescovado, e
ritirarsi in Congregazione. Considerando però le sue angustie, e non perdendo
di mira la sua Diocesi, progettò al Papa per l'avanzata età, e gli acciacchi
che aveva, il passaggio in S. Agata di Monsignor Puoti Arcivescovo di Amalfi.
Credeva ottener tutto fidato al progetto che li fu fatto, eleggendosi Vescovo,
di accettare per allora il Vescovado, e poi rinunciarlo se voleva: ma li andò
fallito il disegno. Il Papa mi ha
scritto, così Egli al P. Villani in data - 102 -
de' 25 Settembre,
che io non pensi a lasciare la Diocesi, e vuole che quando sto ammalato, la
governi dal letto, e che questo li basta.
Queste sono quelle lettere, che ora si piangono, che come dissi, buttar le fece
ne comuni, partendo da Arienzo.
Fu in Nocera sul cader
di Settembre. Passando per Nola, si fermò la sera nel Seminario. Non tanto vi
giunse, venne pregato dal Canonico Crisci per un fervorino a' suoi Seminaristi.
Lo sodisfece Alfonso, e per un ora e più animò que' tanti giovanetti a
stringersi con Gesù - Cristo, ed a star lontani dal peccato. Prima di questo non
mancò ossequiare Monsignor Caracciolo. Scambievolmente si consolarono,
sfavellando di cose sante attenenti al bene della Chiesa, e delle proprie
Diocesi. Non men che Alfonso, anche questo sant'uomo era alieno da titoli, e
fasti secolareschi, adottati, come diceva, da certi Vescovi, con poco decoro
anzi con svergogno del proprio stato. Confabolando con Alfonso, mi ha scritto,
disse, un certo Vescovo, dandomi l'eccellenza, ma io non li ho risposto. Avete
fatto bene, rispose Alfonso; e soggiunse: Non capisco donde è uscita questa
porcheria di Eccellenza. Il Concilio di Trento a grazia ci dà il
Reverendissimo: ora si trova introdotto l'Illustrissimo. se volevamo
l'eccellenza, ci potevamo stare in casa nostra. essendoseli presentata,
entrando in Chiesa per visitare il Venerabile, una sedia Vescovile, Egli
ricusandola, si sedè ad uno scanno, e disinvolto disse: Questo è il luogo per
D. Alfonso: volendo dire, che non essendo in Diocesi, non li conveniva
distinzione.
Se premeva ai nostri
averlo in Capitolo, maggiormente Egli ebbe a cuore di esserci. Le unioni da lui
furono sempre temute, e per quanto poteva, non mancava impedire che vi fossero.
Chi fuori di Capitolo, diceva, non sà che si dire, e non merita esser inteso,
in Capitolo diventa Salomone, e con una palla nera rovinar può mezzo mondo.
Un mese durò il
Capitolo, essendosi di nuovo approvate le costumanze, e tutti gli stabilimenti
antichi. Egli ne fu l'anima. Tutto sortì con consolazione, e sodisfazione di
tutto il Corpo. Ma non tanto fu terminato il congresso, che impaziente Alfonso
fe subito ritorno in S. Agata, avendo a cuore i bisogni della Diocesi.
Troppo fin'ora era egli
stato malmenato per la sua Moral Teologia dal P. Lettore Fra Vincenzo Patuzzi,
soggetto insigne tra Padri Domenicani. Avendo data fuori, ritornato da Roma,
una ben lunga, e sensata Dissertazione, giustificando in faccia al pubblico il
suo sistema morale, si ebbe questa in tal credito presso i dotti, che non esitò
chiamarla nel suo Dizionario Teologico il P. Abbate D. Prospero dell Aquila
Verginiano, Capo d'Opera, ammirandosi in essa, com'ei dice, l'erudizione
teologica nella maniera più chiara, e tutta conforme agl'oracoli de' Canoni.
Ebbe a male questa
Dissertazione il P. Patuzzi, e di nuovo - 103 -
si mise in armi contro Alfonso. Riscontrato dal Remondini, che questi
scrivevagli in contrario, "Godo, rispose Alfonso, che mi scriva contro,
perché così meglio si scivra la verità, ed io non cerco altro che questa".
E in un'altra: "Se mi convincesse, son pronto a rivocarmi".
Non fu confutazione dottrinale l'Opera del Patuzzi, ma un famoso libello sotto
il nome di Adelfo Dofiteo, intitolata; La
Causa del Probalismo richiamata ad esame da Monsignor Liguori, e nuovamente
convinta di falsità. Risposegli Alfonso con una Apologia, quanto dotta,
altrettanto moderata, sostenendo il suo sistema coll'autorità de' Canoni, de'
Padri, e de' più sani Teologi, specialmente di S. Tommaso.
Diffidando de' suoi
lumi, dedicò quest'Opera ed inviolla alla Santità di Clemente XIII.
"Io mi protesto, così Egli, che in tutto quello che ho scritto in questa
materia, altro non ho preteso, né pretendo se non che si discopra la verità di
questa gran controversia, dalla quale dipende buona, o mala direzione delle
coscienze; e siccome negli anni passati mi diede l'onore dedicare la mia
Teologia Morale al Sommo Pontefice Benedetto XIV: così mi prendo l'animo
presentare, ed umiliare a' piedi della Santità Vostra questa mia Operetta, come
appendice dell'Opera sudetta, acciocché si degni darle un'occhiata, correggere,
moderare, e cassare ciocché in essa non è forse conosciuto conforme alle
massime del Vangelo, ed alle regole della Cristiana prudenza".
Se fa spaccio Alfonso
in quest'Opera del suo sapere, anche fa mostra di umiltà, e di sua somma
moderazione.
Non avendo riguardo il
Patuzzi al carattere di Vescovo, nol malmena che come ogn'altro omicciuolo, che
di tal facoltà anche ne ignora i principj. "Non si può credere, dice,
l'abuso che fate alla dottrina di S. Tommaso.... Studiate meglio le quistioni,
per non tirarvi addosso gli scherni degl'intendenti.... Vi mancano le giuste
idee delle cose..... Dovreste arrossirvi".
Vedendosi Alfonso
complimentato con questi e simili saletti, anzi che offendersi, ringrazia il
Patuzzi, opponendo dottrina a dottrina. Il bello sì è, che quello che era
confutazione dottrinale, il Patuzzi caratterizzava la calunnia. "Se tiene,
disse Alfonso, che io l'abbia calunniato a torto, che voglio dire? gliene cerco
perdono. Povero me! dopo essere stato malmenato, sono io divenuto il reo".
Anche diresse questa
sua Apologia a Vescovi, ed Arcivescovi, ed a rispettabili Religiosi Maestri in
tal facoltà. Tutti l'un l'altro siccome fecero eco in encomiare il sistema di
Adelfo, ed il suo zelo mal regolato. "Monsignor mio senza punto adularla,
così Monsignor Coppola Vescovo di Castellammare, e con quella ingenuità che è
propria del nostro carattere, l'assicuro che ho io ammirato, non saprei se più
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sua modestia, che
la sua dottrina. Vegga il Mondo, e vegga ognuno che Ella scrive soltanto,
perché la verità abbia il suo luogo, e non per trionfare su l'altrui scrivere
inconsiderato". "Il modo di
scrivere, (di Patuzzi) così il Padre Longobardi Preposito de' Pii Operaii, ha
stomacato fino i suoi amici, ed aderenti".
Monsignor Gennaro Albertini
Vescovo di Caserta: "Confesso con sincerità, ei dice, che la maniera
impropria (del Patuzzi) nello scrivere mi nauseò. Per contario nella sua
Apologia incontro un'edificante moderazione valevole a caritativamente
mortificare, riprendere, ed ammaestrare. Spero, che anche altri apprenderanno
lo stile dettato dalla modestia, e carità cristiana comandata da Cristo nostro
Signore".
Monsignor Mastrilli
Arcivescovo di Taranto anche così si spiega: Confesso, giusta il mio pensare,
che l'Apologia corrisponde perfettamente alla Dissertazione, e se l'Abate
dell'Aquila ha contradistinto la Dissertazione col titolo di capo d'Opera, Capo
d'Opera chiamo ancor io l'Apologia, non solo perché l'erudizione teologica
morale vi si ammira nella maniera più chiara e conforme agli Oracoli de' Sacri
Canoni....ma molto più Capo d'Opera, dee a senso mio chiamarsi, perché
somministra a Controversisti Cattolici la regola Cristiana, come pratticar
debbasi la carità ne' cimenti delle gare letterarie, e teologiche". Altrimenti non si
spiegano altri Vescovi così del Regno, che di Sicilia, e dello stato
Ecclesiasticoa
Non tanto fu stampata
quest'Apologia, che piena se ne vide tutta l'Italia. Mi scrive Remondini, così
Alfonso al P. Villani, che la mia Apologia
è approvata sommamente da per tutto, avendola sparsa per tutti i luoghi,
e se ne fanno ricerche. Prego V.R. ordinare che i nostri Giovani la leggano,
perché non voglio che stiano in fide
Magistri; e quando ella è contrastata da Rigoristi, che al presente girano,
sappiano che rispondere. Ma temo che i nostri ogn'altra cosa vogliono leggere,
che la mia Apologia; e fra tanto se alcuno oppone qualche cosa, non sanno che
rispondere.
Credeva Alfonso, e credevan
tutti, che capacitato restasse il P. Lettore, ma non fu così. Anche in faccia
ad un un applauso così comune, non diedesi per vinto. Aguzzando la penna, dà
fuori un altro libello impastato di nuove improprietà, e rifriggendo le
medesime cose. Alfonso non spostandosi dalla sua moderazione: "Ricevo, li
rescrisse a' 16. di Gennaro 1764. la sua stimatissima mista di lodi, e
consigli, di ammonizioni, rimproveri, e spaventi. Si restringe in una lettera,
e si scusa, se non risponde a lungo, non permettendo le cure del
Vescovado".
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"Mi dice, così Egli, meravigliarsi, che io dimostrando far buona vita
(meglio avrebbe detto, che inganno il Mondo ), tenga una dottrina poco sana.
Padre mio, io giudico, e vedo tutto l'opposto. Vedo che la mia vita non è nè
buona, nè esemplare, ma piena di difetti. All'incontro tengo che il mio sistema
sia sanissimo, e certo. Così dicendo seguito a sciogliere con nerbo di sode
dottrine le opposizioni, che li vengon fatte, specialmente con S. Tommaso, e
coi medesimi fautori del sistema opposto".
Tra l'altro l'onora il
P. Patuzzi, dicendo, che anche i Calvinisti sostengono essere più sicuro il
salvarsi nella loro setta, negando la necessità delle opere buone: così voi
altri dite essere più facile il salvarsi nel vostro sistema negando la
necessità di seguir le opinioni più tute.
"Obligato, rescrisse Alfonso, all'onore che la Paternità sua mi sa di
assomigliare la mia risposta ad una bestemmia di Calvino. E' forse
quest'opinione di Calvino moralmente certa? Non solo non è certa, ma neppure è
probabile; anzi è certamente falsa, e contraria a quel che insegna la Chiesa
Cattolica. Che ha che fare il tenere in materia di fede un'opinione certamente
erronea, col tenere in materia di costume una sentenza moralmente certa?"
Avendoli toccato Adelfo l'orrore de' divini giudizj: "Confesso, dice
Alfonso, che non sono santo, ma un povero peccatore, che veramente tremo del
conto, che ho da rendere a Dio per la mia mala corrispondenza a tante sue
misericordie: ma non tremo per la sentenza che ho difesa. Io sto sicuro e
certo, che per questa sentenza non posso dannarmi, mentre la tengo per
incontrastabile, e tale la terrò fintanto che Vostra Paternità, o altri non mi
faccia conoscere il contrario.
Conchiuse la sua
Lettera il P. Patuzzi ammonendo Alfonso:
"Giacché V. Paternità, così Egli, mi consiglia a riflettere, se forte io
mi troverò reo avanti a Dio, per aver voluto sostenere questa mia sentenza
benigna, mi permetta che anch'io, prima di finir la mia, la preghi (giacché
amministra continuamente a tanti il Sacramento della Penitenza) a considerare,
se forse dovrà Ella tener conto a Dio più stretto di me, in aver seguita la
sentenza rigida, con illaqueare, ed astringere le coscienze de' suoi penitenti,
a tener per certamente illecito ciò, che non era tale: con che sarà stata causa
di far commettere molti peccati formali, che avanti a Dio non eran tali, e con
ciò aver causata la dannazione di molti.
Persuaso restò ognuno
con questo fare del P. Patuzzi, che tutto era spirito di partito, ed impegno
mal regolato; e furon tutti di sentimento, che più non se le dasse retta.
"Se esso
risponde, scrisse Monsignor Sabbatino Vescovo dell'Aquila, lasciatelo gridare.
Credo però, che non - 106 -
risponderà.
Voglion vincer la causa con sofismi, ed ingiurie". "Quando che il suo oppositore non si
acquieti, così Monsignor Coppola Vescovo di Castellamare, fa bene, Monsignor
mio, a non darsi più per inteso, poiché potrebbe stimare, ch'egli è invasato
dallo spirito di partito, per cui non sarebbe sperabile, che uscisse una volta
dalle tante sue tenebre". Monsignor di Taranto, omettendo altri: "Mi
consolo, li scrisse, leggere nell'Apologia la risoluzione di non voler più
rispondere all'altrui repliche, animate piuttosto (direbbero altri, come sento)
dallo spirito di partito, che dall'impegno della verità".
Vinto restò, ma non convinto il P. Patuzzi; così
finirono le contese tra Esso e Monsignore.
Ciò sia detto per tutto il dippiù, che dir si potrebbe
in rapporto alle tante controversie morali, che Alfonso soffrì, rimettendomi a
quello potrà dirne chi ne tratterà di proposito.
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Posizione
Originale Nota - Libro 3, cap. 21, pag. 104
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