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Cap.33
Gravi affronti sofferti da Alfonso dagl'ingiusti
Pretensori de' Beneficj, sua equità, e somma sofferenza coi medesimi.
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Tale, e tanta
imparzialità in Alfonso, e giustizia così esatta ricercata nella collazione de'
Beneficj, gradir non poteasi dagli ingiusti pretensori. Ebbe egli molto che
fare con questi, e molto da soffrire; né mai erasi trovato in angustie così
gravi, ed in cimenti così critici, come in queste occasioni. Uno, che non fa
che cerca, e non comprende quello li conviene, se si fa lecito ogni trasporto,
non si arrossisce averlo fatto.
Quanto più questi erano
Gentiluomini, tanto maggiormente avanzavansi ne' rimprocci, e facevansi anche
lecite le contumelie: Il dirgli in faccia, sei
un ingiusto, non conosci Dio, non hai coscienza, vergognati di essere Vescovo, queste
e simili, in tali occasioni, furono per esso le convenienze più ordinarie.
Ogn'uomo accigliato si farebbe, e risentito. Alfonso né disturbato si vide, né
punto alterato. Tutto ricevette in silenzio. Compativa il trasporto, e non
apriva la bocca, che per benedire chi malmenavalo. Bontà così singolare, se
attirava l'ammirazione de' buoni, di
certo non confondeva i presuntuosi pretensori.
Un Sacerdote avanzato
in età, ma senza verun merito, attrassato peranche dal Vescovo antecessore,
presentossi per esser provisto di un Canonicato. Voglio darvi pane, li disse Monsignore, ma voglio, che vi abilitate per la Confessione. Così dicendo, li diede
un libro della sua morale. Non voleva il Prete sentir questo, ma esser voleva
anteposto a tutti, per li meriti che non aveva. Non posso in coscienza promuovervi, li disse Alfonso, se per lo meno non vi abilitate per la
confessione.
Sdegnato il Prete, si alza, e con un atto sgarbato, quasi lacera il libro, e
buttandocelo sul tavolino, "Va,
disse, a farti benedire tu, e la tua
morale". Così dicendo, voltandoli le spalle, se ne uscì furioso, e
borbottando. Se fe senso in tutti una tanta temerità, nol fece in Monsignore. Questo vuol dire esser Vescovo, disse
placidamente: se il padre non soffre le
impertinenze de' figli, chi le deve sopportare? Restò così placido, come se
mai accaduto li fosse cosa veruna.
Restato addietro un
Sacerdote nella provista di un Canonicato, che pretendeva, e nol meritava,
calunniando Monsignore, ricorrette al Re. L'iniquità ha questo di proprio, che
benché poco spera, temeraria non si dà in dietro. Non essendo ignota al Sovrano
la giustizia, ed imparzialità di Alfonso, la provvidenza fu: Episcopus utatur jure suo. Tra questo
tempo, succedendo un'altra vacanza, Monsignore dimentico - 168 -
dell'ingiuria, ne provvide questo medesimo
ricorrente.
Dispiacque a tutti, e specialmente al P. Caputo questa provvidenza. "Da
qui nascono i ricorsi, disse a Monsignore, e V. S. Illustrissima non avrà mai
pace". "Così è, rispose, ma nella prima vacanza, stimava più degno il
competitore del ricorrente, e nella seconda ho stimato più degno, chi prima mi
aveva accusato".
"Tutto va bene, ripigliò il P. Maestro, ma non si pensa così. Si stima,
che il ricorrere, e caricarti di villanie sia un mezzo proprio, per ottenersi
quello si pretende. Così s'insolentiscono, non fanno conto di voi, e vi mettono
in tante angustie". Poveretti, disse
Alfonso, non sapendo che cercano, si
ajutano come possono, ma io debbo sopportarli, e fare il mio dovere.
Non vedendosi
provveduto un Sacerdote, ebbe lo spirito esporre al Sovrano varie imposture, e rubricare
Alfonso, come ingiusto. Rimesso a lui il ricorso per il discarico, se
giustificò se stesso, non offese, ma scaggionò il ricorrente. Era carico il
Prete di varie mancanze. Essendosi detto a Monsignore di far attirare contro di
quello la Curia, non solo che l'ebbe in orrore, e nol permise, ma riguardò
sempre il Prete con occhio di Padre.
Essendo scaduto un
Canonicato; ed essendo in egual bilancia i meriti di questi con quello di un
altro, credeva ognuno, anzi venneli insinuato voler posporre il ricorrente,
come temerario. Monsignore conoscendo eguali i meriti di tutti e due, antepose
il ricorrente all'altro Sacerdote.
Ancorché falliti si
vedessero i colpi, e niente si conseguisse presso del Sovrano, essendo questo
troppo persuaso della rettitudine di Alfonso, tuttavolta i malcontenti non
lasciavano inquietarlo. Prefisso avevasi Monsignore, dovendo provvedere un
Mansionariato, passarvi un degno Sacerdote, perché anziano e meritevole.
Volendo concorrerci un
Diacono, che studiava e profittava in Napoli, Alfonso si spiegò, ed egli l'ebbe
a grazia, che ammesso l'avrebbe al concorso, ma per farli un requisito, sicuro
di provvederlo in altra occasione. Avendo ottenuta il Diacono l'approvazione,
si diede a pretendere per giustizia il Mansionariato. Vedendosi escluso,
prorompere non lasciò in un mondo d'improperj contro Monsignore.
Temerario, unito col proprio fratello, schiamazza per giustizia presso il
Delegato della Real Giurisdizione, e fa spedirli una lettera. Non si spostò
Alfonso, conferendo il Mansionariato a chi stimava più meritevole. Avendo
esposto al Delegato, che non intendeva far ingiustizia al Diacono, se
posponevalo al competitore, essendo questi Sacerdote, avanzato in età, ed
avendo servito per molti anni da Economo in quella medesima Chiesa, ebbelo il
Delegato per ben fatto; ma non per questo la finì il Diacono, e molto più il
suo fratello, seguitando tutti e due a malmenarlo.
Tutto sopportò Alfonso
con invitta pazienza. Credeva il Diacono, facendosi i conti, non aver più - 169 -
che sperare da Monsignore; anzi ritrovandoli in
Napoli, sfuggiva farli vedere in Diocesi. Monsignore se prima amavalo, perché
di talento: complimentato così, scusava i trasporti, ed amavalo di vantaggio.
Altrove vi farà cosa di più rispetto a questo.
Essendo concorsi per la
Teologale il Parroco di S. Angelo in Mungulariis, ed il Sacerdote D. Domenico
di Cesare, si portò meglio il Parroco. Monsignore, essendo quello più giovane,
e ponderando altri requisiti, che aveva il Sacerdote di Cesare, perché più
vecchio, Confessore, e Maestro in Seminario, preferì questo al Parroco. Offeso
dichiarossi il Parroco, nè mancò insultarlo di persona, anche colla di lui
Morale alla mano, chiamandolo ingiusto, e parziale, e condannandolo di peccato.
Con umiltà Monsignore
non mancò capacitarlo. Avendosi chiamato il Padre, giustificò anche con questo
la propria condotta, compromettendosi aggraziar il figlio nella prima vacanza.
Ebbelo tanto a male il Parroco, che oltre vilipenderlo, e malmenarlo con tutti,
come ingiustamente posposto, lasciò in abbandono anche la Parrocchia. Pregato,
non fu capace di rimettersi. Non lasciò mezzo Monsignore per raddolcirlo, e
guadagnarlo; ed il Parroco punto non curandolo, più non vide né Monsignore, né
la Parrocchia. Tutto soffrì Alfonso. Vedendolo ostinato, si vide in obbligo dar
ricapito alla Parrocchia con un Sostituto.
Succeduta la vacanza di un Canonicato, facendo uso di sua moderazione, non
mancò provederlo. "Se non lo fo Canonico, disse, questo non sarà per
ritirarsi dalla Parrocchia: così si quieta, e provvederemo la Parrocchia di un
nuovo Parroco".
Negò il possesso
Monsignore ad un Sacerdote, per un Beneficio padronato; nè poteva in coscienza,
venendo informato, che per la nomina, promesso aveva certa somma ad una
persona, ch'era povera, e ne aveva il dritto. Corrivato il fratello secolare
del Prete, portandosi da Monsignore, non mancò caricarlo di villanie, e
maldicenze. Non contento di questo, volendo ricorrere al Re, stavalo
rubbricando con tredici capi di accusa. Tutto era falso.
Avendo avuto Monsignore da persona amica copia
del ricorso, che già erasi formato, ne restò mortificato. Facendone confidenza
al Padre Maestro Caputo, Non capisco, li
disse, il perché abbia fatto questo
ricorso. Tutto è falso, come vedete.
"Quanti sono i ricorrenti, ripigliò il P. Caputo"; Uno, disse Monsignore; e quello,
"mi meraviglio! Dovrebbero essere cento, che dovrebbero ricorrere ogni
giorno, e farsi cento ricorsi da ognuno. Chi nol vede, che colla vostra bontà
rendete tutti insolenti: voi accollate, ed ognuno se ne abusa". Il ricorso
bensì, non fu presentato in Napoli, avendosi meglio fatti i conti il
calunniatore; ed i nominatori al Beneficio, scoperta la trappola del Prete,
concorsero tutti in altro soggetto.
Riferendomi questo
fatto il P. Caputo, mi scrisse, che cosa di - 170 -
vantaggio in quest'occasione, rilevato aveva in
Monsignore, è forse ignota tra di noi.
"Rilevai, così Egli, tutta l'economia Evangelica, che Monsignore in simili
rincontri praticar soleva pel proprio profitto. Insistendo io, vedendo tante
volte bersagliata l'innocenza, esser necessario, per esempio degli altri,
presso il Sovrano, un giusto risentimento; La
legge di Dio, mi disse, voi la
sapete. E' vero, risposi, che Iddio comanda, che si debba far del bene a
chi ci fa male; ma Iddio istesso anche comanda, che dai sudditi rispettar si
debbano i proprj Superiori. Lasciarli impuniti, è lo stesso, che volerli
rendere audaci. Troncandomi il discorso,
finiamola, disse, e veniamo a quello
che importa. Se questo ricorso mi vien mandato, dovendo io giustificarmi,
dovrei imbrodar me stesso, con dire che tutto è falso.
Rifletteva, e
contorcevasi. Vedendosi alle strette, aprendomi il cuore, mi disse; Io ho proposito fare quello che è meglio, e
questo è quello, che voglio fare. Ripigliando io, Monsignor mio, dissi, per
D. Alfonso Liguori, come persona privata, non ardisco deciderlo, se rinunciar
potete o nò alla propria riputazione, V. S. Illustrissima è Maestro in Israele,
ed io venero i vostri pensieri; ma come Vescovo siete in obbligo giustificarvi,
e questo è il meglio. Per giustizia siete tenuto sostener la dignità del
carattere, e conservarla in quel decoro, che Gesù Cristo comanda.
Non mi contrastò, zittì, ma non lo viddi convinto. Anche altri, sò, che più
volte gli avevan insinuato lo stesso. Egli però stimò sempre il meglio,
vedendosi attaccato nella persona, pazientare, tacere, e non giustificarsi.
Questo far il meglio, si è da me sempre osservato in varie occasioni, non
sapendo, che avevane voto".
Quest'istesso
confermommi in sostanza, anche scrivendomi l'Arcidiacono Rainone. "Non
affliggevasi Monsignore per le falsità, che se li addossavano avanti al Re,
quanto vedevasi angustiato, se giustificar doveva se stesso, e metter in veduta
la propria innocenza".
Così regolavasi Alfonso, o per dir meglio, con questo
principio vendicavasi de' torti ricevuti, cioè beneficando i suoi offensori, e
discolpando la loro perfidia.
Centinaja vi sarebbero di questi esempj, ma di nuovo
ne parlerò in parte, anche in altro luogo.
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