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Cap.35
Ristaura Alfonso molte Chiese: ne fabbrica una nuova;
e decoro esatto per li divini Misterj.
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Non meno de' tempj
animati erano a cuore di Monsignore i Tempj materiali. Che se tra i segni di un
perfetto zelo annoverar devesi il decoro per la Casa di Dio, e Davide se ne
faceva un merito, anche in questo dir dobbiamo essersi segnalato Alfonso.
Mettendo piede in
Diocesi, tra l'altro ebbe egli in mira lo splendore delle Chiese; né desistette
per conseguirne l'intento, da incomodi, e fatica.
L'antica Chiesa di S.
Agnese, una delle parocchiali di Arienzo, era così mal ridotta, che minacciava
ruina, vedendosi colla soffitta caduta, e colle mura aperte in più luoghi. E'
di ragione questa Chiesa di quella Collegiata. Alfonso vedendola mal ridotta,
tanto si adoprò con quei Canonici, che non contentossi vederla riparata, ma
chiamati da Napoli i due soliti architetti D. Pietro, e D. Salvatore Cimafonte,
colla perizia di questi, fe' darle altra forma.
Si abbatterono in buona
parte, perché fradice, le mura superiori; ed essendo bassa, e meschina, fe'
darle altezza, che non aveva, e rifarsi a volta, e non a soffitta. Ebbe il
piacere vederla adorna di finissimo stucco, e con altri abbellimenti, che
troppo bella la rendettero, con soddisfazione sua, e compiacimento ancora di
tutto il Popolo. Di più riaprendosi quella Parrocchia vi fece fare una solenne
Missione.
Anche in Arienzo ritrovavasi
mal ridotta l'altra Parrocchiale di S. Stefano delle Cave, grancìa questa del
pingue Beneficio di S. Angelo a Palomba. Essendo la volta lesionata in più
parti, e facendo acqua da per tutto, anche vedevasi cadente e rovinata.
Avendoci ordinata la perizia, alla scarsa si stimarono necessarj docati
cinquecento. Modo non vi era per tanta spesa. Essendosi venduto a tempo dal
Beneficiato, per docati tremila, e trecento un taglio di selve, Alfonso per
allora sequestrò docati trecento nel primo terzo del pagamento. Riattò la
volta, vi si fece di stucco l'Altare maggiore, tutto il pavimento di riggiuole,
e ci aprì un finestrone per esentarla dall'umido.
Così non meno
dell'accessorio eravi in ruina e malmenato il principale: voglio dire la
medesima Chiesa di Santangelo. Sembrava questa non chiesa, ma spelonca. Avendo
il Beneficiato a cuore la rendita, e non la Chiesa, abbandonata vedevasi, e
quasi cadente; e rovinata sarebbe, perché in campagna, e solitaria, né eravi
chi la curasse.
Anche questa Chiesa prese a petto Alfonso, non curando le lagnanze, anzi le
impertinenze del Beneficiato. Portò tempo il rifacimento di tutte e due le
Chiese; ma tale
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stabilimento
assodò, che proseguito si vide, anche dopo la rinuncia che fece del Vescovado.
Se decorate oggi si veggono queste due Chiese, tutto è dovuto alla
sollecitudine di Monsignore.
In Ducento la Chiesa
Arcipretale, dedicata all'Apostolo S. Andrea, per l'ingorda avarizia, e non
curanza de' Parrochi, non da anni, ma quasi da secoli vedevasi abbandonata.
Così mal ridotta, era prossima a cadere; e non altrimenti vedevansi le case
adjacenti, abitazione dell'Arciprete. Tale inconveniente, unito all'altro
dell'aria cattiva, faceva sì, che quasi sempre n'era lontano chi la reggeva.
Affliggevasi Monsignore, vedendo il materiale così rovinato, e maggiormente
dell'abbandono in cui erano i Figliani. Mezzo non vi era per conseguire quanto
bramava. Essendoli riuscito la rinuncia di quest'Arciprete, stimò non
provvederla di nuovo; e situarci interinamente con docati cinquanta annui un
Economo Curato, ed impiegando il di più nel riparamento delle fabbriche. Avendo
esposto a Monsignor Nunzio questa sua determinazione, col bisogno in cui stava
la Chiesa, tutto fu approvato.
Ristaurò tra poco tempo
la Chiesa, e le case. Con questo tolse ogni pretesto ai futuri Arcipreti, per
non risedervi, e coadjuvate ei vide quelle anime, ed assistite dal proprio
Pastore.
In Mojano la Chiesa
parrocchiale quanto grande lo era, e spaziosa, altrettanto vedevasi, non dico
disadorna, ma talmente avvilita, che anziché casa di Dio, non sembrava che un
fondacaccio. Non essendoci modo per riabbellirla, tanto si adoprò con quel
zelante Parroco D. Tomaso Aceti, e seppe così invogliarne i Figliani, che ora
non sembra più Parrocchia, ma una della Basiliche che ammiransi in Napoli, ed
in Roma.
Abbellita è tutta la
Chiesa di finissimo stucco; gli altari sono tutti di marmo; di marmo il
battistero; le basi de' pilastri anche di marmo; ed il presbiterio non solo è
tale, ma superbo, e di grossa spesa. Tutte le pitture sono di mano maestra; le
suppellettili uniformi alla magnificenza degli Altari; né vi è colà, che non
spiri divozione, e magnificenza. Siccome tutto è frutto della pietà di quel
Paroco, e di quel popolo, così lo è ancora dello zelo, e delle tante
sollecitudini di Monsignor Liguori.
Non fu egli meno
zelante per lo decoro della Cattedrale. In questa bensì non eravi cosa, che
mancasse. Troppo superba ella è, ed effetto è questa della prodigalità del fu
Monsignor Gaeta, uomo interessato per la Casa di Dio. Vedendo cadente, e
maltanuta l'antica, rifecela di pianta a
Alfonso se non altro
stava sollecito, che deteriorata - 180 -
non si vedette in qualunque cosa. Vedendosi patito in più luoghi, e non
curato il tetto, non badando a spesa, chiamò subito i periti, e rinforzollo con
altro legname. Essendo comparsa sotto del Coro, ove corrisponde una cantina,
qualche lesione, frapporre vi fece varj arconi.
Subito che vi giunse,
non essendo consecrata, consecrar le fece nel 1663, chiamandoci da Amalfi
Monsignor Puoti. Solo vi spese circa ducati quattrocento, per abbellire i
pilastri con croci di marmo, e cornocopj di ottone.
Abbiamo cosa di più.
Contiene il Casale di S. Maria a Vico da tremila e più anime, divise in due
parrocchie, ma i due parrochi uniti esercitar dovevano le proprie funzioni in
una medesima Chiesa, non più capace di trecento persone. Mille erano
gl'inconvenienti. Funzioni di Chiesa o non ve n'erano, o erano conculcate.
Anche i PP. Pii
Operarj, avendovi il legato per la Missione, attrassavano di farla per mancanza
di luogo. Compiangendo Alfonso nel suo primo arrivo inconveniente così grave,
entrò subito nella più ardita risoluzione voler formare di pianta una
parrocchia, ma capace a poter contenere tutti i naturali. Pretendevasi dai
parochi, che erette si fossero due distinte parrocchie. Monsignore dubitando,
che fabbricata non si fosse nè l'una, nè l'altra, stabilì erigerne una come per
l'innanzi, ma grande e spaziosa.
Ardua si conosceva
l'impresa; ma ad Alfonso ogni cosa sembrava facile. Avendo tenute varie
sessioni coi due zelanti Parrochi D. Matteo Migliore, e D. Vincenzo Di Mauro, e
col Clero, e Gentiluomini del - 181 -
Casale, animò i due Parrochi a voler rilasciare in beneficio della fabbrica
le decime prediali. Non erano queste da meno di trecento in quattrocento
ducati, restando per la congrua ducati cento per ciascuno, oltre la stola, che
non era poco. Ottenuto il consenso; ed essendosi cooperato in Camera, ottenne
si obbligasse anche il publico per altri annui docati duecento.
Sistemato il tutto, non
vedeva l'ora per mettersi mano alla fabbrica. Avendo chiamato da Napoli gli
anzidetti Architetti, fe metter in disegno una Chiesa magnifica, e spaziosa.
Volevasi bensì dai Parrochi, che prima ammanito si fosse in cassa una
competente somma, e poi dar di piglio all'opera.
"Se si vuole ciò,
disse Alfonso, non si verrà mai a capo; voglio, che s'incominci la fabbrica; se
la Chiesa non s'incomincia, non potrà mai vedersi terminata". Essendosi
destinati otto Economi, cioè quattro secolari, e quattro ecclesiastici, fe dare
di piglio allo scavo delle pedamenta.
Portandosi di persona,
per osservarlo, e sembrandoli il vaso anche angusto per il popolo in tempo di
Missione, con maggior confidenza dilatar fece la pianta. Lieto e non capendo
tra se, per l'opera intrapresa, ponteficalmente vestito, e preceduto dal Clero,
ei medesimo nell'anno 1763 vi buttò colle solite preci, la prima pietra. Vi fu
chi disse vedendolo oltremodo festante: poco ci vuole, e Monsignor vi celebra i
Pontificali, prima di alzarsi la Chiesa.
Anch'esso Alfonso
concorse non poco a questa spesa, e dir dobbiamo aver preso a conto suo tutta
la fabbrica. Ducati dieci aveva, e tutti l'esibì per un'opera di docati
quindeci mila e più: vale a dire, che ci pose la sua confidenza.
Animato il Popolo dalla
magnanimità del suo cuore, concorse anch'esso colle spontanee oblazioni. Anche
i due Parrochi D. Matteo Migliore, e D. Vincenzo di Mauro concorrendo colla di
lui confidenza, si segnarono singolarmente nella pietà, e nel disinteresse. Li
scrissero tra l'altro, che si contentavano, che restasse per essi tanto di
emolumento, quanto bastar poteva a mantener di vitto, e vestito un semplice
servitore.
Contento Alfonso per
quest'opera, semprecchè ritrovavasi in Airola, non mancava portarvisi, ed
animar vieppiù il popolo colla presenza, e colla predicazione.
Torbidi in seguito non
ci mancarono. Non poteva il demonio starsene indifferente, trattandosi di un
opera di gloria di Dio, e che tutta risultava in bene delle anime. Tra l'altro,
raffreddato il Popolo, ed essendo uscita la proibizione delle decime,
ricorrendo questo nel Sacro Consiglio, protestossi non voler più contribuire.
Non si disamina Alfonso; ma fatto presente il tutto al Presidente del
Consiglio, il suo amico D. Baldassarre Cito, ottenne, che si continuassero le
decime; e che perfezionata la fabbrica, si sarebbe data altra provvidenza. Così
superò - 182 -
mille altri
intoppi, e fe petto in ogni tempo a tutti gli sforzi infernali.
Docati dieci pose
Monsignore, mi disse, il Parroco D.Matteo Migliore, ma di sollecitudine, e di
favori ottenuti esibì migliaja, e migliaja. A conto suo andavano in Napoli
Avvocati, e Procuratori; col suo manteneva regalati i mezzani, che favorivano
per l'opera. Che non fece, e che non
ottenne dal Presidente del Consiglio, e dai due Consiglieri D. Gio: Pallante, e
D. Salvatore Caruso, Commissario delle cause? Egli spesava in Palazzo i due
architetti coi servitori e cavalli, per limosina ottenne rilasciati dai
medesimi da quattro in cinquecento ducati, rata degli accessi e delle misure.
Con questo coraggio
Alfonso intraprese, e portò a fine, come dissi, una fabbrica di docati quindici
mila, e più; e lasciando la Diocesi, altro non restava, per vedersi perfezionata,
che lo stucco, ed il solo pavimento.
Col materiale delle
fabbriche ebbe a cuore, come dissi, anche l'interno decoro delle Chiese, e
tutta quella proprietà, che esige in se una Casa dedicata a Dio. Gli Altari
specialmente ben provveduti volevali di suppellettili, se non altro, decenti.
"Non ancora, diceva, ho veduto un Parroco far uso a tavola di una
salvietta sporca, e consumata. Tutto è nettezza per essi; solo con Gesù -
Cristo tutto è lordura". Molto più avrebbe ricercato, se a i suoi desiderj
corrisposto avesssero i Rettori, e le rendite delle Chiese.
Armonia, e non
confusione; pausa, e non strapazzo ricercava nel canto. Quanto godeva di un
canto sodo, e divoto, altrettanto detestava nelle Chiese un canto non proprio,
e teatrale. Ritrovandosi in certa festività in S. Maria a Vico, un Diacono, che
in Napoli era stato in Conservatorio, credendo farli piacere, incominciò una
litania figurata. In sentirla Monsignore fecela subito spezzare: Quì, disse, non stiamo al teatro. Questo canto anzicché divozione, genera
dissipazione. Così disse, e fecela seguitare a tuono gregoriano.
Vedendo il grave trapazzo, che facevasi delle sacre
Rubriche, da' Preti Diocesani, nel sacrificio della Messa, e che per ogni dove
facevasi da tanti altri, per giovare a tutti, compose un Trattato su questa
materia, e diedelo fuori tra questo tempo.
Nella prima Parte tratta delle Cerimonie da praticarsi nel celebrare; nella
seconda della riverenza, con cui devesi celebrare, dell'apparecchio che vi
necessita, e del dovuto rendimento di grazie; e tratta nella terza degli abusi
de' Preti, che caricansi di Messe, e del grave peccato, che vi è non potendosi
a tempo sodisfare. Rispose ancora al Libro Anonimo che girava, e condannava
l'Onorario delle Messe.
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Posizione
Originale Nota - Libro 3, cap. 35, pag. 179
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