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Cap. 42
Gravissima infermità di Alfonso, e sua ammirabile sofferenza.
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L'anno settantottesimo
di questo secolo, perché carico di travagli fu per Alfonso un anno carico di benedizioni. Che se
fu sistema ordinario di provvidenza, volendo Iddio innalzar taluno a gran
santità, immergerlo, e profondarlo ne' travagli: così preordinando in Alfonso
un - 213 -
gran santo, anche
nelle amarezze, e tra i travagli soffocato lo volle. Correndo l'anno
settantesimoquarto dell'età sua, ed il settimo del Pontificato, a' 23. di
Giugno sorpreso si vide da febbre così leggiera, che stimossi catarrale.
Avanzata nel secondo, e terzo giorno, putrida si credette, e pericolosa.
Visitato da Medici, acqua, ed olio,
lepidamente lor disse. Richiesto cosa intender volesse, rispose; essendo putrida la febbre, e non catarrale,
perché tale, acqua con neve ci bisogna, ed olio santo per la morte.
Il fatto non fu così.
Svanita la febbre, a capo di tre giorni attaccato trovossi, ma fuori di
aspettativa, da una general flussione, e con spasimo della destra coscia.
Battezzandola i medici, stimossi un qualche principio di sciatica, nascente da
umore reumatico. Di fatti tal dolore se li risvegliò nell'osso scio, ma
sopportabile, che di continuo lo travagliava. Avendo libera la testa, e non
avendo febbre, non desisteva dalle solite udienze, né si esentava dalle sue
applicazioni letterarie, e mentali.
Badando ai bisogni
della Diocesi, e non potendo di persona, fe' visitare dal suo Vicario le terre
di Frasso, e di Arpaja col casale di Forchia. "Io seguito a stare
travagliato, così al P. Villani, coi miei dolori interni di quasi mezza vita, e
pare che il dolore fermando si vada sull'osso scio. Sempre sia benedetto Iddio,
che me lo manda. In quest'anno difficilmente potrò uscire per la solita Visita.
Qui si parla di vescicanti, e di bottoni di fuoco".
Ed al medesimo a' 29 di
Luglio: "In quanto alla mia infermità, dopo tanti rimedj, sto nello stesso
modo, e forse più tormentato dalla sciatica. I Medici non hanno quasi più che pensare.
Che perciò ho risoluto lasciar fare a Dio, ed abbracciarmi il mio dolore, per
quanto vuole Iddio".
Ciò non ostante anche
pensava strascinarsi, per visitare alcuni luoghi più principali. "Tra
giorni, così nella medesima lettera, anderò a S. Agata per farvi la visita, e
nella Terra di Durazzano. Così egli pensava, ma gli fallirono i disegni".
Approssimandosi la
festa di Maria Assunta, non facendosi carico del dolore, strascinandosi sulla
Catedra cominciò la novena nella Chiesa dell'Annunziata. Incrudelendo il
dolore, e fermatosi amaramente sull'osso scio, più non fu nello stato di
proseguirla. Ritrovandosi con lui il Sacerdote D. Nicolò Mannucci Missionario
napoletano, la sera de' dodeci fece da quello supplirla. In seguito si avanzò
in modo il dolore, che non trovava verun sito, né di giorno, né di notte. Ciò
non ostante, come se altri patisse, e non lui, anche di continuo zelava in
letto i bisogni della Diocesi, dettava le sue opere, e colla famiglia non
mancava alle solite divozioni.
"Già sono sei
giorni, che non dico Messa, scrisse in Napoli, a' 18. di Agosto, al Sacerdote,
e suo confidente D. Salvatore Tramontana, sto col vessicante alla gambe, e
voglio starci tutta la vita, se così piace - 214 -
a Dio. Pregate il Signore, che mi dia perfetta uniformità". A' 27 li
rescrisse di nuovo: "io seguito a portar la mia Croce nella mia infermità:
domani fanno quindeci giorni di letto, e lunedì sono quindeci giorni che non
dico Messa, e non vedo miglioramento al mio male. Quasi ho perduto lo stomaco,
ma sto contento, perché così vuole Dio".
In seguito,
travagliandolo anche la febbre, ed infierendo i dolori, dubitava di sua vita.
Essendoseli detto, volersi chiamar da Napoli un qualche professore, "Che
forse, rispose, i Medici di Napoli facessero miracoli, o che questi di qui
studiassero altri libri. Sto bene in mano a Dio, ed a questi medici, che mi
assistono".
Essendosi chiamato per espresso il P. Villani, ed insinuandoli questo volersi
chiamare altro professore da Napoli, anche rispose, che i Medici di Arienzo non
erano da meno di quelli di Napoli. Non l'intesero così i due valenti professori
D. Salvatore di Mauro, e D. Nicolò Ferrara. Avendosi chiamato il P. Villani, ed
il Vicario Rubino. "Noi, dissero, non vogliamo esser responsabili della
vita di Monsignore: Abbiamo bisogno di consiglio. Venuto da Napoli il medico D.
Francesco Dolce, vedendolo Alfonso, zittì, ma se li vide nel volto il
rincrescimento, che provava nel cuore.
In questo stato faceva
tenerezza a tutti i suoi slanciamenti divoti verso Gesù Cristo, e Maria
Santissima. Confidenza somma dimostrava ne' loro meriti, e confusione per non
aver corrisposto alle loro grazie. Stando per cominciar la Messa uno de'
nostri, sel chiama vicino al letto, e con sensi di umiltà, pregate Iddio,
disse, a valermi usar misericordia. Confidava, ma nel tempo istesso temeva i
divini giudizj. Non intres in Judicio cum
servo tuo, sentivasi ripetere, et fac
cum servo tuo secundum misericordiam tuam.
Avendo preso gli ultimi
Sacramenti, a' 26 di Agosto fece Alfonso il suo testamento. Non avrebbe avuto
che testare, se a tempo pervenuto non fossero al suo Economo dai fittuarj della
mensa ducati 423. Questi, volle, si fossero posti nelle mani dell'Arciprete
Romano. Avendoli communicato le Messe, che per se celebrate voleva in Arienzo,
e S. Agata, e designatone porzione a poveri, volle, che due ore prima della sua
morte, tutto il dippiù si distribuisse, a titolo di gratitudine, ai suoi
familiari, e sortita la sua morte, il suo corpo trasportato si fosse nella
Catedrale di S. Agata.
In quest'occasione si
sperimentò per Monsignor Liguori nei Santagatesi quella venerazione, che non ci
fu in simili casi per altri antecessori. Miglia otto vi sono da Arienzo in S.
Agata. Vedendosi il pericolo, vi fu concerto tra li Diocesani, che fatte
l'esequie in Arienzo, il cadavere accompagnato si sarebbe dal Clero in abito
Corale, - 215 -
e dalle
Confraternite con torce accese fino al primo Casale: così il Clero di un Casale
accompagnato l'avrebbe fino all'altro; e nelle vicinanze di S. Agata,
incontrandosi dal Clero Secolare, e Regolare, e dalle Confraternite, proseguiti
si sarebbero i funerali con tutta pompa nella Cattedrale.
Se si ammansì la
febbre, non si addolcirono i dolori. Pertinace e troppo dolorosa fu questa
attridide. Non trovando sito nel letto, trovollo appena sopra una sedia. Ivi
inchiodato con quel travaglio, che idear si può, se la passava di giorno, e di
notte, e non essendo nello stato di potersi muovere, e rivestire, come ritrovavasi
in camicia, e colle sole mutande; così ne stava facendo compassione a tutti.
Non sapendo il P. Villani come dar luogo alla modestia, adattar li fece di
sopra una leggier tela di sangallo oscuro. In progresso l'attridide, ove prima
aveva la sede nell'osso scio, e per il tratto della gamba, in seguito diffusa
si vide, e con maggior pena in tutte le giunture del corpo.
Tutto soffriva Alfonso
con invitta pazienza; né s'intese mai un oimè dalla sua bocca. In questo stato,
e così deplorabile, inchiodato sopra una sedia, sollecito vedevasi con stupore
d'ognuno, come se nulla patisse, nell'informarli delle cose della Diocesi, e
riparare quei scandali, che non mancavano.
Erano così vive tra
questo travaglio le sue aspirazioni verso un gran Crocefisso, che rimpetto
aveva, che non mancò persona registrarsene. "Signore vi ringrazio,
sentivasi dire, che mi date un saggio de' dolori che soffriste nei nervi quando
vi conficcarono sulla croce = Voglio patire, Gesù mio, come, e quanto vuoi tu:
dammi solo pazienza = Hic ure, hic feca,
hic non parcas ut in aeternum parcas.
Poveri dannati, esclamava talvolta, come senza merito potete soffrire
nell'inferno = Gesù mio, speranza mia, unico rimedio di tutti i mali =
Vedendosi in braccio alla morte, lieto esclamava: O che bel morire abbracciato
colla croce = Invidiando la forte de' poveri, sentivasi dire: Muore più
contento un povero, che ama Dio, che tutti i ricchi del mondo; e vale più
un'ora di patimenti, che tutti i tesori della terra.
Essendo tormentato
dalla veglia, vorrei, disse, prender un poco di sonno, ma Dio non vuole, ed
anch'io voglio stare senza dormire = Guardando il suo saccone, e non potendolo
godere, vale più un pagliaccio, disse un giorno, che tutti i padiglioni di oro,
e di argento".
Non fu questo tutto il
travaglio. Avendo fatto fede l'attidride nelle vertebre del collo, contorseli
sì fattamente la testa, che la fronte con meraviglia di tutti urtava fortemente
nel petto. Guardandosi dinanzi, vedevasi il solo occipite, e di dietro come se
la testa non vi fosse, non vedevansi, che i soli omeri. "Stimar devesi a
miracolo, mi disse il - 216 -
Dottor
Fisico D. Nicolò Ferrara, se strozzato non restò da questo gran male".
Altra cosa ancora aumentò il suo martirio. Essendoseli intorto il capo, ed
inceppato il mento in mezzo al petto, perché ispido, e peloso vi risvegliò una
piaga, quanto dolorosa, altrettanto profonda. Quell'urto nel petto, mi
soggiunsero i medesimi Fisici, impedì o che non restasse strozzato, o che
raggirata non si vedesse la testa nella parte opposta.
Non essendo a veduta
questa piaga, e Monsignore non dimostrandosene risentito, né badavasi da'
familiari, né osservar potevasi da' Medici. Lo scolo marcioso però, colla gran
puzza che dava, posero in causa i Medici. Tentandosi dal Chirurgo alzarli il
mento, si dové alzar mano, perché tant'era violentarlo, quanto strozzarli il
collo. Essendo riuscito a capo di tempo situarlo sopra un sofà, e metterlo in
sito orizzontale, la piaga fu ritrovata così profonda, e così pericolosa, che
poco mancava e facevasi strada nel petto; ma talmente putrida, e marciosa, che
faceva orrore.
Tali furono per
Monsignor Liguori le conseguenze di un attridide. Fissato l'umor maligno, ed
offesi i nervi, benché ristabilito da altri incomodi, a capo di più mesi, restò
tuttavia col collo storto, e col capo ostipo. Così menò i suoi giorni sempre
penando fino alla morte.
Se penosi furono, ed
oltremodo amari questi suoi patimenti, ammirabile, e sopraumana, uopo è dire,
fu la sua pazienza. Non pativa, ma godeva patendo, considerandosi inchiodato
con Cristo sulla medesima Croce.
"Io ammirai, ed
ammiravamo tutti, così il Dottor Mauro, tanta pazienza, e tanta costanza in un
uomo, come se quei trapazzi fossero stati in carne non sua. Se non altro qual
pazienza ci voleva in tollerare presso la bocca, ed in faccia al naso un lezzo
così disgustevole, che esalar vedevasi piaga così marciosa, non curata, né
ripolita, né fasciata.
Avendolo io assistito,
dice il Dottor Ferrara, in tutte le sue penosissime infermità, ed in questa
così dolorosa, posso con tutta verità attestare, che tutto soffrì con somma
pazienza, senza prorompere in qualche lamento, uniformandosi sempre al divino
volere, come se altri, e non lui patisse. In persona di Monsignor Liguori, così
il P. Rafaele da Ruvo, Exprovinciale Alcantarino, ammiravasi una viva imagine
del S. Giobbe. Divenuto una massa di dolori, non ci fu caso, che aprisse la
bocca con un dolce oimè; e posso dire, che non esso, ma un altro patisse in
persona sua. Un alzata di occhi al Cielo, con qualche divota aspirazione, era
tutto il suo sfogo; ma detto con tal placidezza, che consolava, e confondeva
me, e tutti gli altri astanti".
Un primario Chirurgo
napoletano, che ammirato aveva in Arienzo la di lui pazienza, parlando in
Napoli di questa piaga: Se quel - 217 -
travaglio, disse, fosse stato in persona mia, avrei dato nelle smanie, e
che restava ammirato, e fuori di se, come Monsignore con volto ilare, e senza
scomporsi, avevala potuto sopportare, senza prorompere in qualche lamento.
Riposto, ma dopo molto
tempo, e con gran pena sul suo misero letticciuolo, con di sopra un
materazzino, anche star dovette in un sito scomodo, e penoso. A stento
essendoseli adattata la sottana, così vestito, non potendosi spogliare, se ne
stava giorno, e notte sempre nel medesimo sito. "Quello che più facevami
senso, e stupore, mi disse il Vicario Rubino, si è, che in tutto il tempo del
suo reumatismo, e non fu meno di circa cinquanta giorni, sempre immobile si
vide, con invitta pazienza, in un medesimo sito, come un sasso, senza
dimostrare verun tedio, o voglia di esser sollevato, o che di bocca uscito li
fosse un menomo lagno. Come lasciavasi di sera, così nel medesimo sito
ritrovavasi la mattina".
Tra questi patimenti verificavasi
in Alfonso il detto di S. Agostino; cioè, che chi ama, non patisce, e desidera
più travagli. "Stando inchiodato sul suo letticciuolo, così D. Benedetto
Barba Canonico di Avella, mentre da me, e dal Fratello Francesc'Antonio se li
adagiavano le lenzuola del letto, mi avvidi, che aveva sotto il femore destro
la sua lunga corona, e che quanti coralli erano, altrettanti buchi formati vi
avevano. Attribuendolo io a casualità, incaricai il Fratello a volerli togliere
un sì penoso cilizio. Toglietecelo voi, mi rispose il Fratello, facendomi
capire, che non contento il servo di Dio del travaglio, che soffriva, non
sapeva come più straziarsi".
Ammirabile fu ancora la
sua subordinazione ai Medici. Si faccia
l'ubbidienza al Medico, ripeté in varie occasioni, e poi si muoja. Questi
non aprivano la bocca, che vedevansi ubbediti. "Fu sempre ubbidientissimo,
così il Dottor Mauro, in prender qualunque medicamento, quantunque disgustoso.
Avendo un senso delicatissimo, i vessicanti specialmente erangli penosissimi;
ma non vi fu volta, che avesse ripugnato. Vedevasi Monsignore in ogni tempo,
contesta anch'esso il Dottor Ferrara, subordinato a Medici, non per desiderio
di allungarsi la vita, ma riconoscendo ne' Medici, siccome più volte si spiegò,
la divina volontà". Un giorno tra gli altri, mi disse: Io mo son vecchio, che posso sperare, e che
posso pretendere: obbedisco per fare la volontà vostra, e la volontà di Dio.
Non è , che vedevasi
ilare, e sereno, ma lepido ancora, e gioviale. Visitato dal Dottor Ferrara:
"Voi vi sforzate li disse, mantenermi a forza di pontelle, e di forcine,
ma un giorno situando una di queste, se troppo l'alzate, caderanno tutte le
altre, e ci perderete la fatica". Richiesto dal Paroco D. Tommaso Aceti,
se riposasse la notte, "il giorno discaccio mosche, disse lepidamente, e
la notte piglio - 218 -
granci":
volendo dire, che non riposava né di giorno, né di notte. Ritrovandosi vicino
al letto il Canonico Barba, mentre così penava: "ora sì, li disse, che non
posso passare più innanzi", intendendo colla testa; ed un altro giorno:
"tante volte mi hanno chiamato collo storto, fintantoché ci sono
incappato".
Tra questi delirj di
morte, anche quando stava inchiodato sulla sedia, non mancava colla famiglia ai
soliti esercizj di pietà. Di sera specialmente voleva tutti col Vicario nella
propria stanza: recitavasi il Rosario colle Litanie della Vergine, facevansi
gli atti cristiani, e sodisfacevasi ad altre funzioni. Tutto il giorno però non
passavala, che quasi di continuo in sentir leggere libri divoti, e Vite di
Santi.
Non perdendosi tempo,
facevasi a vicenda questa lettura dal Fratello Francesc'Antonio, e da altri
Preti che l'assistevano.
In questo stato non è
che dimentico si vide de' suoi cari Diocesani. Voleva saper tutto. Consolavasi,
se sentiva qualche traviato ravveduto, ed affliggevasi se di qualche scandaloso
pervenivali notizia. Era pronto al rimedio, e volevane sapere gli effetti.
Lettere vi furono anche a diversi Baroni, implorandone il braccio.
Agonizzando scrisse, e rescrisse a varie Congregazioni in Napoli, per avere in
quell'anno Missionarj per tutta la Diocesi. L'ottenne con sommo suo
compiacimento; ed a 21 Novembre fe capo al P. Villani per un Casale, che
restavane di senza. "Per grazia di Dio, ei disse, ho appuntato le Missioni
per tutta la Diocesi, e già si sono cominciati quattro luoghi, un luogo mi
resta, che non vi va Missione, ed è Lajano, discosto da S. Agata quattro in
cinque miglia: tutti poveri Villani, e gente semplice. Sicché mi bisognano
senza meno due o tre Padri nostri, almeno due che faccino questa Missioncina
dentro Carnovale, o almeno dentro Quaresima, ma più a gusto l'avrei dentro
Carnovale".
Così zelava Alfonso, ancorché oppresso da
dolori, il bene de' suoi Diocesani.
"Quello che più mi
faceva stupire, così il Canonico Barba, che non solo invigilava in questo
stato, e promoveva il bene delle Anime, e la gloria di Gesù - Cristo in
Diocesi, ma facevalo fuori del ristretto. Pervenutagli notizia, che un Vescovo
urtato aveva in alcuni passi irregolari, con pregiudizio della gloria di Dio, e
del bene delle anime", sollecito, in questo stato, dettò una lettera, che
per espresso mandò, rendendolo avvertito del suo trascorso, ed a me rivolto
disse: Eh D. Benedetto mio, siamo
obbligati ajutarci l'un l'altro.
Non essendo il letto
del dolore solo oggetto di pazienza, per Alfonso, ma anche di amore, penando
perfezzionò, e fe dare alle stampe un gran Libro, che intitolò: Prattica di amare Gesù Cristo. In questo manifesta i sensi
intimi del proprio cuore. Tratta per primo quanto merita Gesù Cristo esser
amato per l'amore dimostratoci nella sua Passione, nell'istituire il Sacramento
dell'Altare: così della gran confidenza, - 219 -
che in lui dobbiamo avere.
Commenta il Charitas patiens est, con quello che segue in S. Paolo; e con
questo individua i caratteri della vera Carità, tendenti tutti a maggiormente
ligarci con Gesù Cristo. Parla del come portarci nelle tentazioni, e del gran
utile, che da queste si ricava: così per sollievo delle anime sante, tratta
ancora delle desolazioni di spirito, e della pace in soffrirle. Sminuzza
similmente tutta la Passione di Gesù - Cristo, secondo la descrivono i sacri
Vangelisti, ed individua altre prattiche di pietà, che anche, non volendo, ci
stringono, e ci obbligano ad amarlo.
"La dottrina, scrive Giulio Lorenzo Selvaggio, la pietà, ed il zelo della
salute delle Anime, si manifesta, in maniera particolare, in quest'Opera. Spira
in ogni parte lo spirito del piissimo autore, dimostrando la necessità, ed
insegnando la vera maniera di amare il nostro Dio, che deve essere l'unico
objetto degli affetti del nostro cuore, a cui debbono riguardare le azioni
tutte del nostro vivere".
Amara fu la
convalescenza, e non fu di giorni, o mesi, ma di un anno, e più. "Io
seguito a star senza febbre, così Egli agli 8. di Ottobre al P. Villani. In
quanto ai dolori sono gli stessi. Mi fanno camminar colle stanfelle, tenuto
però da due, e sono già sei giorni, ma né da questo, né dal carrocciolo mi
pare, che ne ricevo alcun profitto. Le notti quasi tutte chiare. La natura si
risente, ma colla volontà mi pare di star rassegnato alla volontà di Dio.
Raccomandatemi alla Messa, affinché Iddio mi dia perfetta rassegnazione".
Così a due di Novembre
al medesimo Padre: "Io sto nella stessa maniera, che non mi posso muovere,
ma la febbre si affaccia da quando in quando; ora sto netto, e sto per grazia
di Dio allegro, e contento".
Erano i nove di
Novembre, e così scrisse in Venezia al Signor Remondini: "Io li scrissi,
che doveva dare gli Esercizj al Clero di Napoli nel mese di Novembre; ma il
Signore ha voluto, che fin dal principio di Agosto cominciassi un'altra sorte
di esercizj, e durerò a farli tutta questa invernata. Sin d'Agosto sono stato
preso da dolori di nervi per tutta la vita. Non posso più camminare, anzi
neppure muovermi senza dolore. Sto confinato in letto, e ringrazio Iddio, che
mi ha dato questo regaluccio".
Così negli 8 di Dicembre al P. D. Stefano Longobardi Preposito Generale dei Pii
Operarj. "Io seguito a stare nella mia ciunghìa, senza potermi muovere, e
circondato da dolori da tutte le parti". Nel tempo istesso li manda una
corona, e pregalo volerci mettere le Indulgenze di S. Brigida.
Anche tra questi suoi
travagli, ma è cosa, che forse stenterassi a credere, vedevasi interessato per
la S. Chiesa, ed animato di zelo contro i nemici della medesima. Avendo un
letterato Napoletano attaccata con un suo libro in varj punti l'Autorità della
Chiesa, e specialmente l'Immunità, Egli ancorché agonizzante, avendo libera la
mente, non mancò - 220 -
prenderne
la difesa.
Scrivendo al P. Villani
in data degli 11. di Ottobre. "I dolori, disse, sieguono e sono della
medesima maniera: fiat voluntas tua. Aspetto con premura il libro N., e
mandatemelo presto per strada di Napoli. Dico presto". Ed in un'altra:
"Se avete cosa di buono circa l'Immunità Personale, anche mandatemela; e
se dentro del libro (era quello dell'Autore rimandato in dietro) vi fosse una
mia carta, ove notato avea più cose del medesimo libro, anche
mandatemela". Conservo io, benché sbozzati, questi suoi manoscritti. Era
già per limarli, ma concorrendovi alcune prudenziali circostanze, così
configurato dal medesimo P. Villani, non perfezionolli.
Se sollecito vedevasi
per i bisogni della Chiesa, e della Diocesi, lo era ancora per quelli della sua
Congregazione. Lettere non attrassò di risposta alle tante, che li capitavano
specialmente dalla Casa di Sicilia, e da quella dello Stato. Non solo non
penava, ma godeva vedersi riscontrato delle tante opere, che si avevano per le
mani. Saper voleva la condotta de' Soggetti, ripesandone le azioni nelle
bilance del Santuario.
Prevenendolo il P.
Villani per l'espulsione di uno di questi, volle saper tutto. Esaminandone le
mancanze, e non ritrovandole di peso, rescrissegli a due di Novembre: affin di discacciare
un Soggetto bisogna, che siano delitti certi, e tali, che non meritano
compassione, ne danno speranza di emenda. Similmente avendo fatto io premura
per l'espulsione di un fratello Laico, mi rispose: dopo il ricevimento per
novizio, vi vogliono cause gravi per mandarne un Soggetto; e dopo l'oblazione
gravissime, unite coll'incorrigibilità, altrimenti è peccato mortale il volersi
licenziare taluni di questi.
Considerando in questo
tempo della convalescenza, lo trapazzo che celebrando facevasi da Sacerdoti in
Diocesi, e fuori, delle sacre Cerimonie, diede alle stampe un Opuscolo delle
Cerimonie della Messa, diviso in due parti. Sminuzza e tratta con maggior
chiarezza nella prima le rubriche tutte, che osservar si debbono, e quello che
nella Messa fa sconciezza: così ove vi è peccato grave, ed ove no. Incarica
nella seconda parte l'Apparecchio, e Ringraziamento, che esige un sì Augusto
Mistero.
Tra questo medesimo
tempo, mentre stava per dar fuori quest'Operetta, pervenneli una velenosa
Dissertazione, uscita in Napoli, su l'Onorario delle Messe. L'Autore volendo
abolire le Messe, ed il ceto Ecclesiastico, sforzavasi in far vedere i grandi
disordini, come ei diceva, e i peccati di simonia, sacrilegi, e scandali, che
nascono dal prendersi i Sacerdoti l'Onorario, coll'obbligo di applicare
particolarmente la Messa, per chi lo somministra. Tutto era veleno oltramontano
in questa Dissertazione.
Conchiudeva l'Autore, che l'unico
mezzo, per metter fine a tanti abusi, e sacrilegi, altro non era, che abolirsi le
Messe prezzolate, com'ei le chiama, e riprendersi l'uso de' secoli antichi; - 221 -
cioè di celebrarsi dal
Vescovo, assistendoci il Popolo, una sola Messa, o da un Sacerdote da esso
destinato, con rinnovarsi le Obblazioni per lo sostentamento del Sacerdote, e
per li bisogni de' poveri, e della Chiesa. Monsignore armandosi di zelo, diede
fuori a 15 di dicembre nel medesimo anno 1768 una dotta Dissertazione,
confutando con dottrine Cattoliche il veleno, che dall'Anonimo vomitavasi a
danno della Chiesa, e delle Anime. Unisce questa Dissertazione all'Opuscolo
anzidetto, e ne forma una terza parte.
Ammira in quest'Opera Giulio Lorenzo
Selvaggi, non solo la dottrina, ma il solito spirito di pietà di Monsignore, ed
il suo attaccamento alla Religione.
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