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P. Antonio Maria Tannoia
Della Vita ed Istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori...

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  • Libro 3
    • Cap.43 Alfonso dedica a Clemente XIV. l'Opera Dogmatica: sua afflizione sentendo i suoi contraddetti in Sicilia, e sua confidenza in Dio.
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Cap.43

Alfonso dedica a Clemente XIV. l'Opera Dogmatica: sua afflizione sentendo i suoi contraddetti in Sicilia, e sua confidenza in Dio.

 


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Essendo passato a miglior vita Clemente XIII., anche nel colmo de' suoi gravi  travagli, sollecito vedevasi Alfonso presso Dio, per aversi nella Chiesa un degno Successore. Questo istesso inculcava di continuo a chiunque era a visitarlo; e per la Diocesi ordinò subito la colletta pro eligendo Summo Pontefice. "Dopo Dio, ei diceva, non abbiamo che il Papa. Se non avessimo il Papa, in quale confusione non saressimo. Il Papa solo è quello, che ci manifesta il volere di Dio, e ci mette in pace le coscienze".

Assunto al Ponteficato Clemente XIV. a 19. di Maggio 1796. godette Alfonso, e ne godette estremamente, sentendo sortita l'elezione di un soggetto così dotto, e zelante. Ritrovandosi terminata, tra questi suoi malori, un'Opera Dogmatica, estratta dal Concilio di Trento, contro i pretesi Riformati, dedicolla subito al medesimo Pontefice. "L'esaltazione, ei disse, di Vostra Santità al Soglio di S. Pietro è di godimento comune a tutto il Mondo cattolico; ma non so, se vi sarà stato alcuno, che abbia avuta maggior consolazione di me, in considerare le ottime qualità della Beatitudine Sua, la dottrina, la prudenza, il distacco dalle cose terrene, e soprattutto la pietà, e lo zelo, che Ella ha per la nostra Santa Religione".

Si spiega che altro fine non ha avuto, tessendo quest'Opera, essendo in età di anni settantatré, che maggiormente far conoscere a tutti la verità, e santità de' Dogmi della Chiesa Cattolica, già definiti, contro i pretesi Riformati dal Concilio di Trento.

Fe senso in tutta Napoli, come Alfonso avesse potuto, vedendosi immerso in travagli così gravi, e tra le braccia della morte, applicarsi in cose così rilevanti. Singolare è quest'Opera; e riscotette applauso anche fuori dell'Italia. Se ne compiacque il Papa vedendo il suo gran


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zelo in promuovere, non men tra miscredenti la cognizione della vera Religione, che tra Cattolici il buon costume, e l'attaccamento dovuto alla Santa Fede, che si professa. Compiacendosi il Papa, ringraziollo affettuosamente; ma questo Breve non esiste presso di me.

Combatte Monsignore in questa sua Opera Pietro Soave, o sia Paolo Sarpi, che tanto discreditò col suo veleno questo Concilio. Mette in veduta, e confuta gli errori de' Novatori, risponde alle loro opposizioni, e fa pompa de' Dogmi della Chiesa Cattolica.

"In quest'opera, ci scrisse a 13. Marzo 1769. al P. D. Stefano Longobardi, io parlo solamente delli punti dogmatici di Fede, definiti dal Concilio, e non dei fatti temporali avvenuti in quel tempo, come tratta il Pallavicino. Sicché il mio libro contiene una buona Dogmatica, mentre non solo parlo delle difficoltà, che si fecero nel Concilio; ma in ogni trattato vi aggiungo le dottrine degli altri Autori. Così vi ho aggiunti altri trattati di Teologia a parte, come del modo, con cui opera la Grazia, accennando quasi tutti i sistemi delle scuole sopra la Grazia efficace, e sufficiente.
In fine metto un trattato utilissimo dell'infallibilità della Chiesa, e della Regola della Fede, e della necessità di un Giudice infallibile, ch'è il mezzo più forte per convincere gli Eretici, i quali a tutto trovano che rispondere; ma parlando della Regola della Fede, non hanno che dire; e rispondendo, s'imbrogliano tra loro stessi, e dicono spropositi evidenti. Questo è quello, che io fo vedere nell'Opera.
In fine vi unisco anche due Trattati, o sieno Appendici: uno nel modo come opera la Grazia nella giustificazione del peccatore: l'altra dell'ubbidienza dovuta alle definizioni della Chiesa, che sono le regole della vera Fede".

Chiama quest'Opera il dotto Canonico D. Giuseppe Simioli, Parto della mente, e più del cuore.

Le afflizioni, perché sorelle, non vanno mai disgiunte. Tra i presenti, e sì gravi travagli, altro stavane riserbato per Alfonso, che penetrogli lo spirito. Troppo prospere fin'ora erano passate le cose per li nostri in Sicilia. I Fratelli di S. Maria d'Itra, che per l'addietro negato avevano la loro Chiesa ai PP. Gesuiti, ceduta l'avevano con proprio compiacimento ai nostri. Così fu loro data in uso la ricca libreria di cento, e più mille ducati di valore, opera di Monsignor Lucchesi, e con annuo assegnamento al Bibliotecario.

Oltre la Diocesi di Girgenti, applauditi vedevansi i Missionarj da Monsignor Ventimiglia in quella di Messina; in Cefalù da Monsignor Castelli, e da Monsignor Sanseverino nella sua di Palermo. Si desideravano, (ma perché pochi, non potevansi avere), da' Vescovi di Siracusa, e di Mazzara. Varie fondazioni si progettavano. In Palermo, e fu maneggio de' PP. Filippini, trattavasi di darci la Chiesa dell'Ecce Homo.

Somme premure facevansi a Monsignor Liguori da quei della terra delle Grotte;


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ed in S. Margherita il Principe Cotò erane cos'invogliato, che pose mano alle pedamenta. Monsignor Lucchesi non capiva in sé, vedendo così applaudita questa sua opera, né lasciava mezzi, per vederla perfettamente stabilita.

Questa tanta prosperità, se consolava i nostri, dava da pensare a Monsignor Liguori. "Le Opere di Dio, diceva, se non sono contradette, non sono ben radicate"; e replicò più volte, scrivendo al P. D. Pietro Blasucci: "Godo de' nostri progressi in Sicilia, e ne godo assai; ma provo pena, e mi molto da temere questo continuato applauso". Egli cercava la pioggia, ma Dio mandò la gragnuola.

Stando, come dissi, così travagliato col corpo, Iddio, che volevalo martire nel corpo, e nello spirito, permise che contro i nostri tempesta si suscitasse, ma troppo fiera. L'unico sollievo, che egli sperimentar potea in questo tempo di sua afflizione, era la conversione di tante anime, che da suoi figli si operava in quell'Isola; ma volle Iddio, che anche in questo restasse amareggiato.

Sin dal passato Febraro del 1767. un perfido Giansenista (ma questo fu come un preludio), avevasi fatto merito, accusando i nostri al Consultore della Monarchia D. Diodato Targianni, per uomini di corrotta Morale, seguaci de' Gesuiti, e lassi probabilisti. La macchia era nera; e non si parlava de' Missionarj, che come indegni di un tal carattere.

Fu tale, e così nerboruta la giustificazione de' nostri, che persuaso il Ministro, così si spiega al P. D. Pietro Blasucci, recivendoli a 10. di Aprile "Nutrendo io zelo, e fervore di vendicare il Vangelo dalle ingiurie, e trapazzi, che ha sofferto da uomini, che non ragionano, se non colla guida dell'umana filosofia, e che fin quì hanno insegnato una scienza di cui è desiderabile una profonda ignoranza, mi sono dichiarato contro de' di lei compagni, che descritti mi erano stati, per miserabili califfi. Venendo assicurato del contrario, ne ho provato un piacere indicibile; ed offerisco me stesso in concorrere, che s'istruiscano quei, che han bisogno, e che si presti ajuto a Pastori delle Anime".

Passato a miglior vita Monsignor Lucchesi nell'Ottobre del 1768. il Principe di Campofranco, essendosi dichiarato suo erede ab intestato, pretendeva sostenere, che le annue once cento donate dal Lucchesi, per l'opera delle Missioni, e per alimento ai Nostri, non si dovevano, per esser pervenuto il capitale, non dai frutti del Vescovado, ma per l'eredità di suo zio il General Lucchesi, e che i Missionarj ne anche erano capaci di acquisto. Incamminato, cercava far valere questa sua pretensione, così in Palermo nella Giunta Gesuitica, che in Napoli. Essendosi venuto al sequestro de' frutti, vedevansi i nostri privi di alimenti, e sulle staffe, per esser sloggiati dalla Sicilia.

Boccone così amaro pervenne ad Alfonso, in atto che stava nel colmo de' guai. Fu tocco nel vivo; ma non si sgomentò. "Ho ricevuto


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la vostra lettera funesta, così al P. Blasucci, nell'Ottobre del 1768. Dico male; quello che Dio dispone, niente è funesto. Ci vuol mortificare, sia sempre benedetto. Quello, che vi prego soprattutto si è, non perder la confidenza in Gesù Cristo. Se vi cacciano dalla casa, procurate affittarvene un'altra, quanto basta a capirvi. Non bisogna cedere così presto; ma bisogna persisterci fintanto, che Iddio non vi fa conoscere, che più non vi vuole in Girgenti. Si faranno meno Missioni; ma per vivere, non vi mancherà un poco di pane. Staremo a vedere, che fanno i deputati, quello che farà il nuovo Vescovo, e soprattutto quello, che dispone Iddio. Io tengo, che Iddio non voglia distrutta codesta casa. Seguito a star cionco da capo a piedi. Sto contento, benedico Iddio, e lo ringrazio, che mi pace, e sofferenza".

Così al P. Villani a 21 di Ottobre: "Della casa di Girgenti faccia Iddio; se non ci vuole più colà, sia benedetto. Basta il bene che si è fatto finora".

Vedendo Alfonso anche combattuta, nella sua Teologia morale, l'opera delle Missioni, che ei chiamava l'opera di Gesù - Cristo, avanzò lettera ai Vescovi di Sicilia, giustificando la sua dottrina. Così fe presente il tutto a quell'Uomo savio, e tutto di Dio, il Marchese Fogliani, Vice - Re in Palermo, pregandolo di sua protezione. Così gli uni, che l'altro rescrissero, facendo giustizia al suo merito, e magnificandone la virtù, e la dottrina.

Assunto alla Cattedra di Girgenti Monsignor Lanza, de' Principi di Trabbia, dottissimo, e zelante Teatino, non essendo saldata la prima piaga, ne nacque un'altra, ma più amara. Troppo a cuore avea Monsignore il suo Seminario; ma non mancava in quello chi cercasse sotto ovino ammantato, avendo lo spirito di lupo, corrompere il costume, e la dottrina.

Un Mansionario della Cattedrale, essendo Lettore di sacra Scrittura, facevasi gloria spacciare tra Teologi i Giansenisti, come veri discepoli di S. Agostino. Commentava al non più le Riflessioni Morali del Quesnello sul nuovo Testamento. Diceva, che la Chiesa Romana era contraria a S. Agostino, e che condannando la dottrina di Quesnello, abbia condannato la dottrina di S. Agostino, e de' SS. Padri. Che la Bolla Unigenitus era empia; ed encomiava i Prelati di Francia, che stipolato avevano istrumento di appello dal Papa al futuro Concilio. Avanzavasi, che la Sede Romana era caduta in errore, per opera, come diceva, degli eretici Gesuiti. Così sosteneva con Michele Bajo che sieno peccati tutte le Opere degli Infedeli.
Appena Monsignore ebbe penetrato siffatte bestemmie, che licenziollo dal Seminario, lo sospese dalla Confessione, e proibilli, tra l'altro, ogni accesso al nobile Monistero delle Cistercensi, di dove era Direttore.

 

Aveva Monsignor Lanza una somma stime de' nostri, anche prevenuto dal Principe di Trabbia suo Fratello, che sperimentato n'aveva lo


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zelo, e la dottrina nel proprio Feudo di Muzzomele. Pervenuto in Girgenti, prescelse per Confessore, e suo Teologo, il P. D. Pietro Blasucci. Vedendosi confuso il Mansionario, e decaduto di stima, pensò non altronde esserli venuto il colpo, che dai nostri. Non era il sospetto senza fondamento, ma non fu così.

Conosciuto il veleno, di per se le riclamarono contro di lui e Maestri, e Seminaristi. Non potendo offender il Vescovo, rivoltò le armi contro i Missionarj. Perché le sue traversie erano in genere di dottrina, nella dottrina anch'esso attaccò i nostri. Ingannando, e tirando altri al suo sentimento, (anche persone di riguardo) con quattordeci commendatizie di questi, portandosi in Palermo nel Febraro del 1769. presentossi, come perseguitato da' Missionarj, nella Real Giunta de' Presidenti, e soprattutto al medesimo Consultore della Monarchia D. Diodato Targianni. Il meno, che eruttò, fu caratterizzare i Missionarj, come fracidi probabilisti in Morale, e Molinisti in Dogmatica.

Querelossi col Viceré come ingiustamente cacciato di Seminario, denigrato nella stima, e perseguitato dai nostri, perché opposto alle dottrine, che questi spacciavano in detrimento delle Anime, e dello Stato. Con apparato così funesto, sostenuto da altri del medesimo partito, lusingando se stesso, cantava il trionfo, prima di dar di mano alla battaglia.

Fu tocco sul vivo Monsignor Lanza vedendo i nostri incolpati di dottrina non sana, ed incolpati di delitti. Sollecito rappresentò al Viceré quanto a torto venivano denigrati; e per l'opposto individuò gli errori del medesimo Sacerdote ben noti, e divulgati colla sua incorrigibilità. Così presso il Viceré, che presso la Suprema Giunta rilevò con attestati di tutti i Parrochi, e Vicarj della Diocesi, anche con altri dei PP. Agostiniani, e Domenicani la sana dottrina, che si professava dai nostri, i frutti copiosi riportati nelle Missioni, e quanto grande anche fosse l'esemplarità del loro vivere.

La calunnia, come si sa, se non tinge, offusca. Chi sentivala male in Palermo, e chi bene, e chi credevala per metà. Confuse le lingue, erano in aspetto così cattive le cose, che già parlavasi di soppressione di Casa, e di sfratto a' Missionarj. Ventilandosi in Girgenti, come prossimo a succedere, tutta la Città si vide in lutto. Persone pie interessate si videro presso Dio. Taluni, affinché tal cosa non succedesse, maceravansi con digiuni in pane ed acqua; e tanti, oltre delle varie limosine a poveri, celebrar fecero quantità di Messe.

In questa diffidenza non era il P. Stefano Drago, uomo d'insigne santità, e più volte Preposito in Palermo della casa dell'Oratorio. Questi, commiserando i nostri, ed animandoli alla sofferenza, "Voi, disse, al nostro P. D. Gaetano Mancusi, nella mattina di Martedì Santo, per le preghiere di Monsignor Liguori, non sarete per perdere la Casa di Girgenti:


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statevi di buon animo, soggiunse, che Iddio cambierà gl'ignominia in gloria; e la vostra Congregazione, dopo le presenti traversie, sarà più onorata, che prima.

Un'anima grande, tra questo tempo, raccomandando a Dio la nostra Congregazione, benché digiuna di queste traversie, vide in ispirito una colonnetta, eretta in piede senza piedistallo, che sembrava cadere ad ogni soffio; e nel tempo istesso un grande incendio, che, attaccandosi a tutte le Case della Congregazione, pareva volerle incenerire. Atterrito a tale spettacolo, le fu detto, che la colonnetta era la casa di Girgenti, ma che era suo pensiero farvi il piedistallo, e renderla ferma: che il fuoco attaccato alle Case della Congregazione, era un'imminente tempesta, che soprastavale. Vide però a poco a poco estinguersi l'incendio, e restar salve le Case: fraposto il piedistallo alla Casa di Girgenti; ed estinto tra Congregati anche il fuoco di una general discordia. Sono varj i rapporti della visione, ed in seguito se ne sperimentarono gli effetti.

Adorò Alfonso, informato di queste peripezie, i profondi divini giudizj, ed altro non inculcò ai nostri, che umiltà, e rispetto per tutti; silenzio, e sofferenza. Volle bensì, che difesa si fosse la verità, ma sempre, come ripetette più volte, senza offesa della perfidia. Al P. Mancusi, che, ragguagliandolo, dimostrvasi afflitto, vedendosi denigrati nel buon nome. "V. R. teme assai, li rescrisse; ed io metto tutta la confidenza in Dio, il quale ci proteggerà come ha protetto la S. Chiesa, che, per tutti i Secoli, è stata perseguitata. Portiamoci bene con Dio, che Iddio ci consolerà in appresso".

Vedendosi acceso il fuoco, e temendo il P. Blasucci restarvi bruciato co' compagni, presentò al Consultore Targianni, per la dottrina di Alfonso, e per li Missionarj, altra Apologia, quanto robusta, altrettanto sincera.

Similmente restò persuaso questa volta il Targianni, anche per quello che seppe altronde: "Di quanto ella mi previene, così rescrivendo a 31 di Marzo 1769, relativo a sospetti, che ha conceputo di aver forse il Sacerdote N. adombrato la buona opinione, che si ha di lei, e suoi compagni, con critiche rappresentanze, le manifesto, che io non ho mai preteso condannare chicchessia, e giudicarlo reo di dottrina cattiva, quanto a me non costasse la malvagità della medesima dottrina. Potrà per tanto esser sicura della mia indifferenza; e se ho parlato a pro di N., ciò è derivato dalla supposizione, che questi perseguitato fosse per sana dottrina. Del resto, nulla a me costando, mi compiacerò sentire evangelizzata la pura dottrina cristiana, secondo le massime del Vangelo, de' Padri, e della Chiesa.

Quest'apologia, se disingannò il Consultore, e gli altri della Monarchia, colpì, non volendo, il Mansionario. Non essendo più guardato


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con quell'occhio di prima, benché confuso, non si disamina. Animato da nuovo astio, presentò un foglio anonimo, ma così pieno di villanate, che faceva orrore. Attaccò di nuovo la dottrina, e l'operare, l'una, e l'altro come contrarj al Vangelo, ed al buon costume. L'accusa perché anonima non fece senso; molto più perché patente era il livore. Informato Alfonso, di nuovo lasciò presso il Viceré Fogliani, e presso i Prelati di Sicilia, giustificare i suoi, e la sua dottrina.

Accertato non aver fatto senso il ricorso, rese delle grazie a Dio; e vedendo sgomentati i suoi., "Vediamo, scrisse, che Gesù Cristo ci protegge con grande amore, contro gli sforzi dell'inferno. Ringraziamo sempre con Maria Santissima, che ha special protezione di noi. Codesta Missione, tengo per certo, che il Signore la protegge, e la proteggerà appresso. Avrei temuto qualche ruina, per lo ricordo cieco, ma torno a dire, vedo che Iddio ci protegge".

Avendo a cuore, che in casa fosse in vigore l'osservanza, e che tra Soggetti si conservasse lo spirito di carità, soggiunge: Raccomando a ciascuno l'osservanza delle Regole, e sopratutto la pace tra di voi. Pensiamo, che siamo circondati da nemici, che ci vogliono distrutti, così in Napoli, che in Girgenti. Se ci porteremo male con Dio, vedremo presto la totale ruina. Prego Dio, che protegga codesta Missione di tanto bene, per codeste anime. Preghiamo, ma rassegniamoci, se Dio vuole, dico meglio, se permette, che si distrugga quest'opera, e volendo, fiat voluntas tua.

Abbiamo altra lettera in data delli 8. di Settembre del medesimo anno 1769. "Io seguito, così egli, a star cionco in letto, senza potermi muovere, e con dolori continui. Ma Dio, per sua misericordia, mi fa stare contento, facendomi intendere, che questa è per me una gran grazia. Io lo ringrazio; ma non lasciate pregare, che mi dia perfetta rassegnazione. Per grazia di Dio la testa mi ajuta, e mi sento bene senza lasciare menoma cosa del governo. In questo mese entro agli anni 73. Non lasciate raccomandarmi a Gesù Cristo ogni mattina, ma con modo speciale alla Messa, per una buona morte, che non sarà lontana".

Ritornando di nuovo agli anfratti di quella Missione, così seguita: "Quest'opera di Girgenti, io l'ho molto a cuore, vedendo il gran bene, che si fa; ma ora la vedo in pericolo di cadere. Questa cosa mi ha tenuto afflitto in tutto il tempo di quest'ultima infermità. Il demonio non la puol vedere; ma noi dobbiamo far tutto, per mantenerla, e poi lasciarla in mano di Dio, che l'ama più di noi".




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