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Cap.49
Maggiori travagli ne' quali vide Alfonso la sua
Congregazione.
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Chi si da indietro a
vista di un fosso, non è che non vuol passarlo, ma tal volta si arretra per
prender maggior lena: così i nostri contradittori in Regno non si diedero
addietro, vedendosi Alfonso in Napoli, che per evitar il colpo, ed assalirci
con maggior vigore. Impegnati per ruinarci, ripigliarono gli assalti, ed
attaccano di fronte la Congregazione ed i soggetti.
Mal capendosi la
risoluzione dell'Augusto Re Carlo, che volendoci proibire gli acquisti, disse,
non riconoscere le nostre Case per Comunità, o Collegj, facendosi forti sopra
di questo, formano una reità, che ariete stimavasi da non potersi espugnare. Il
Re, dicevano essi, non vuole Comunità, nè Collegio, e questi formano, in
disprezzo del Sovrano, Collegj, e Comunità. Hanno Superiori Generali, e Locali;
Noviziato, e Maestro di Novizj; Chierici, e Direttori di Studj; hanno regole, e
statuti: cosa manca, replicavano, per una comunità non inferiore a qualunque
delle più cospicue; e cosa manca, che non si opponga ai Sovrani divieti. Oltre
di ciò, hanno dal Papa grazie, e privilegj, anche con discapito dell'Autorità
Reale, e con pregiudizio non poco della Parrocchiale, e Vescovile. Non avendo
la Regola, e sapendola approvata dal Papa, con ordine Sovrano si fan questa
esibire dalla Curia di Benevento.
Ho detto, mal capendosi
la risoluzione dell'Augusto Re Carlo. Questi non proibì, anzi egli medesimo
accordato aveva l'erezione delle Case, e volle si vivesse sotto un capo anche
con regole, e statuti; ma proibendoci gli acquisti, disse non riconoscere le
Case per Comunità, e Collegj.
Avanzando un'altra
supplica, fabbricano sopra di noi altre reità e delitti. In quel tempo tutto
era gesuitismo in bocca di ognuno. Volendosi dai contrarj la nostra
distruzione, rappresentano i nostri anche un ramo di quelli, o quei istessi
cambiato nome. Le Regole che hanno, dicevano, non sono, che un estratto delle
regole gesuitiche. Essendo stato espulso il corpo gesuitico, per la forma delle
loro regole, che sospetto rendevalo, e pericoloso allo Stato, perché l'istesso - 256 -
non debbasi sospettare
di questo corpo, che in sostanza è il medesimo, non differendo neppure nel
nome. Se chiamavasi quella Compagnia di Gesù, questo chiamasi Congregazione del
Redentore; ed altro non vi è di differenza, che i Gesuiti avevano formato
Collegio con legittima autorità, ove questi senza autorità legittima
controvengono diametralmente alle leggi del Sovrano. Con questo si attaccò
anche il costume, né vi fu capo criminale, che addossato non ci fosse, o che
per lo meno non fosse di nostro vitupero, e svantaggio.
Tra i tanti delitti,
fabbricossone un altro, che si credette di maggior peso. Solevano i Rettori
delle Case, volendo compiacere la devozione dei nostri benefattori, accordar
loro la partecipazione delle opere, che da noi si fanno a gloria di Dio, ed in
pro dell'anime. Stimossi dal Maffei così grave questo delitto, che si
spedirono, a proprie spese, subalterni, per aversi nelle diverse provincie,
queste filiazioni. Non è questo dicevano una specchiata prova della Comunità,
che questi ostentano; e non è questo quello, che si fa dalle Religioni le più
cospicue, ed antiche.
Turbine così grande
dava da temere a tutti. Era così certa la vittoria in senso de' contradittori,
che ognuno ci aveva per perduti. Alfonso era vecchio, e cadente, e se davasi
vita alla Congregazione, al più non era, che vivente Alfonso.
Tal millanteria se abbatteva i nostri, non scoraggiava il nostro Vecchio:
"Che dicono le genti, ei ci scrisse, che morto io, finisce tutto. Io dico,
che questa Congregazione non l'ho fatta io, l'ha fatta Dio. Egli l'ha mantenuta
per quarantadue anni, ed egli seguirà a mantenerla. Perché il Re l'ha da
dismettere, quando non vi sono delitti, non porta danno a niuno, è acclamata
da' Vescovi, e rendita non possiede, che faccia ombra al Sovrano? Il Re
Cattolico, ed è quello che più importa, anche dichiara in un Dispaccio,
desiderare, che questa adunanza si mantenga non solo per la vita di Alfonso
Liguori, ma per quanto può durare, purché non manchino le Missioni dal
primitivo fervore. Sicché la nostra permanenza dipende prima da Dio, poi da'
nostri portamenti. Attendiamo perciò a stare uniti con Dio, ad osservare le
nostre Regole, ad esser caritatevoli con tutti, contentarci delle nostre
miserie; e principalmente ad esser umili, perché un poco di superbia ci può
distruggere, come ha distrutti tanti altri".
Non militando tra i
nostri tal confidenza come in Alfonso, temevasi di fatto, vedendosi egli
decrepito, e così ruinato nel corpo, che breve fosse la sua vita; e che egli
morto, mancato il suo credito, morto sarebbe per la Congregazione ogni
sostegno.
Portandosi in Arienzo
il P. Villani, ed altri, in questo anno 1772, ed esponendogli piangendo lo
stato delle cose, lo pregarono, se amava la Congregazione volersi portare - 257 -
in Napoli, per vedersi
sedata una tal tempesta. Troppo chiara si spiegarono, e più chiaro capendo il
mistero, spiegossi Alfonso: "quietatevi lor disse, e non temete, che io
non muojo per ora".
Questi maggiormente stringendolo, replicatamente lor disse: non temete per la
Congregazione, e siate sicuri che io ho tempo per morire. La tempesta
quantunque grande, e tali venti spirassero, che già vedevasi la nostra picciola
navicella in procinto di sommergersi, Alfonso, affidato avendo in Dio la sua
ancora placidamente ne dormiva.
Sforzavasi intanto il
Maffei, coadjuvato dal Sarnelli, ottener l'intento; ma giocar non potea la carta,
come voleva. Prevenuto essendo di sua indole il Marchese di Marco presso il Re,
e'l Presidente D. Baldassare Cito in Camera Reale, consapevoli tutti e due
delle trappole, e de' suoi trasporti contro il Venerabile Fra Antonio Lucci
Vescovo di Bovino, essendo stati di persona in Bovino, ed Iliceto, non
conseguiva quanto pretendeva. Mutando gioco, lasciò la Segreteria
Ecclesiastica, e fè capo in quella di Stato. Affardellando di nuovo quanto
prima aveva detto, asserisce immensi acquisti, già fatti dai nostri così in
Regno, che nello Stato Beneventano, ma coperti avanti al Re sotto gli equivoci,
e mentali restrizioni.
Fe senso questo carico al Marchese Tanucci; ed
essendo per chiamarsi la causa in Camera Reale, ordinò con suo Real Dispaccio
al Duca di Turitto, Avvocato Fiscale delle Corona, che con efficacia fatto
avesse nella Regal Camera le sue parti, e darne conto dell'esito alla Maestà
del Sovrano: sull'intelligenza che i Missionarj non potessero possedere.
Aspetto troppo funesto
presero le accuse nella Segreteria di Stato; sì perché il Marchese Tanucci
guardava con altr'occhio Maffei, supponendoci zelo, e non livore; sì perché
questi profondendo danaro, tutta l'officialità era per esso. Il Cavalier
Fernandez, tra gli altri, che ne percepiva migliaja, spalleggiavalo in modo,
che non difficoltava girar di persona, ed andar informando il Ministero.
Avanzati i maneggi, con altro dispaccio vennero incaricati il Commissario di
Campagna Biaggio Sanseverino, e 'l Duca di Turitto Avvocato Fiscale, che dovendosi
per noi decider cosa in Camera Reale, fatto avessero anch'essi, con tutto zelo,
le parti, e convenivano, e resa informata la Maestà del Sovrano.
Rapporti tali,
essendosi fatti a Monsignore, non si vide scoraggiato. Portiamoci bene con Dio, disse,
che Iddio ci ajuterà, perché Iddio può più di tutti gli uomini. Ajutiamci
coll'orazione. L'innocenza, e la preghiera sono onnipotenti presso Dio.
Insinuò per tutte le Case delle preci in comune, e non eravi lettera a suoi
divoti, in cui non inculcasse delle preghiere. Tra tutto però aveva a cuore,
che tra i nostri regnata vi fosse la carità Cristiana, e che con impegno
osservate si fossero le nostre Regole.
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Altro travaglio eravi
anche tra questo tempo in Palermo. Qualche respiro di pace si godette dopo le
prime mosse, che vi furono dei contradittori. Siccome la bonaccia, dopo la
tempesta, rallegra il marinaro, così i nostri, respirando anch'essi, diedero
parte ad Alfonso della pace, che godevasi, e del bene, che si operava. Inteso
lo fecero specialmente di una fruttuosissima missione di esercizj fatta in
casa. Alfonso che temette sempre più la calma, di quello, che spaventar può la
tempesta,
"Mi consolo molto,
rescrisse fino dai 30. di Aprile del 1771., mi consolo degl'Esercizj fatti in
Casa; mi consolo, ma da una parte queste consolazioni mi fanno timore. Diceva
S. Teresa, che le persecuzioni sono segni, che chi semina fa frutto. Voi state
senza persecuzioni: ma qui ne stiamo ben provveduti; benché il Signore ci
ajuta". Vedevasi così stroppio in questo tempo, e così travagliato, che
firmando questa lettera, si soscrive: Fratello
Alfonso Maria Cionco.
Troppo non durò la
quiete in Sicilia. Ancorché giustizia si fosse fatta da que' savj Senatori
della Monarchia al merito, e dottrina di Alfonso, e protettore de' nostri
dichiarato si fosse il Marchese Fogliani Viceré in quell'Isola, e fossero per
noi anche Vescovi, ed Arcivescovi, encomiando la dottrina, e l'operare,
tuttavolta i Contraddittori non contenti d'averci denigrati in Palermo, avendo
preso maggior lena, non solo di nuovo fecero capo in Palermo, accumulando
calunnie, e refriggendo già le passate, ma si avanzarono anche in Napoli.
Rappresentano al Re i
Missionarj infetti di dottrine malsane, Molinisti, e fracidi probabilisti:
gente rapace, che andava in cerca di danaro, e non di anime; perniciosi allo
Stato, ed alla Chiesa; e che non avendo Reale permesso, temerarj stabiliti si
erano con casa in Girgenti, e fastosi trattenevansi in Sicilia. Soprattutto
cercava il Cannella la protezione Reale, contestando venir perseguitato dai
Missionarj per la sana dottrina, ch'egli possedeva, e per opporsi alla loro
tutta contraria al Vangelo, ed ai sentimenti della Chiesa.
Accusa tale non poteva
non far senso presso al Sovrano. Oltre di questo, vedevasi il Cannella, colla
face nelle mani, rinforzando sempre il fuoco nelle Reali Secreterie, ed
assistendo ora presso un Ministro, ed ora presso un altro.
Non mancò Alfonso,
vedendo le cose in cattivo aspetto, giustificare se stesso, ed i suoi presso il
Sovrano, ed i Ministri. Rappresentò, che benché i suoi Missionarj stassero in
Girgenti, non vi stavano, che come giornalieri ad ogni cenno del Vescovo,
alimentati a spese del Vescovo, ed impiegati in beneficio di quei Diocesani,
come operavasi in Regno con sommo compiacimento dei rispettivi Vescovi. Che
pensava Monsignor Lucchesi, che chiamati gli aveva, dopo averli sperimentati,
fermarli effettivamente; ma che prevenuto dalla morte, non ebbe tempo far
presente alla Maestà Sua il gran disegno, che meditava, ed eseguirlo col suo
beneplacito.
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Similmente in Palermo
il Padre D. Pietro Blasucci anche rappresentò lo stesso in quella Suprema
Giunta, e specialmente al Consultore Targianni. Protestossi seguitarsi da esso,
e dai suoi la dottrina più sana, e più autorizzata dalla Chiesa, e dallo
spirito del Vangelo, così in materie morali che dogmatiche. Si assicuri, disse,
una volta per sempre, che del Molinismo, e del lasso probabilismo ne aborriamo
fino il nome, riputandole capricciose invenzioni aliene dalla semplicità del
Vangelo. Il nostro sistema in materia letteraria è appunto il non isposare
appassionatamente verun sistema fabbricato dalla mente corta, e limitata di un
uomo, per non rendere schiava volontaria la libertà della nostra ragione.
Questi sono in succinto
i sentimenti, che in materie dottrinali nutriamo nel cuore, e seguitiamo in
pratica; né questa Città, e Diocesi, che professa una sana dottrina, ci ha
rinfacciato finora, nel nostro lungo esercizio Apostolico, un solo sentimento
non sano, e degno di censura.
Sgombrato restò il
Ministro con questa rappresentanza; ed in data dei 31. di Marzo 1772. così
rescrisse: "Di riscontro alla riverita carta di V.S. Reverendissima de'
18. spirante, e con piena intelligenza di quanto mi previene relativo a sospetti,
che ha conceputo di aver forse il Sacerdote D. Giuseppe Cannella adomprata la
buona opinione, che di lei si ha, le manifesto, che io non ho mai preteso
condannare chicchessia reo di dottrina cattiva, quanno a me non costa la
malvagità della medesima. Potrà intanto esser sicura della mia indifferenza; e
se ho parlato a pro del Cannella, ciò è derivato dalla supposizione, che
perseguitato lo fosse per sana dottrina. Mi compiaccio sentir evangelizzata la
pura verità, e dottrina Christiana secondo le massime del Vangelo, dei Padri, e
della Chiesa".
In questo tempo,
armando l'ingegno il Maffei, macchinò far trovare i nostri in una trappola; e
caduti sarebbero, se Alfonso assistito da lume superiore, non l'avesse evitato.
Tutto aveva egli con se in Iliceto per ruinarci, fuorché il popolo, che anzi,
come dissi, rivolto avevalo a suo danno. Vedendosi stretto, e volendo
adomprarlo con noi, e far gioco per esso, cercò pace con noi, e mediatore i
nostri tra il popolo, e lui. Il presidente Ginisi, che proteggevaci, abbracciò
il progetto, applaudendo ancora il nostro Avvocato Celano, volendosi che il
Padre Fiocchi, portandosi in Iliceto, impegnato si fosse per questo disimpegno.
Sottile era la trappola; ma quello non si capì dal Ginisi, e dal Celano, lo
capì Alfonso.
Riscontrato di tutto
questo dal Padre Villani, "Questa è la via, rescrisse, di disgustarci i
Cittadini, senza speranza di conciliarci Maffei. Costui è un leone infierito,
ed è impossibile placarlo. Quello, che il Padre Fiocchi dirà a beneficio di Maffei,
poco gioverà, mentre stimerà, - 260 -
che noi lo diciamo, non perché ha ragione, ma per cattivarci la sua
affezione.
Dall'altra parte io
tengo per certo, secondo la dovuta presunzione, che in tutte le cose la ragione
sarà per li poveri cittadini. Sicché difficilmente il Padre Fiocchi potrà dir
cosa a favor di Maffei senza scrupolo di coscienza, e contro la giustizia; anzi
diranno sempre i Cittadini, che noi, per ajutar la causa nostra, vogliamo
ruinare la loro. Questa mediazione ad altro non servirà, che, o per farci
nemici i Cittadini (il che non è poco danno), o per acquistarci maggior odio di
Maffei, il quale dirà, che ogni ragione del Padre Fiocchi per i Cittadini nasce
da spirito di vendetta; e per quello, che potrà dire a favore di Maffei servirà
per acquistarci l'odio dei Cittadini, ma non basterà di certo per acquistarci
il buon'animo di Maffei. Io assolutamente sono di sentimento, che affatto niuno
della Congregazione accetti questa incombenza. Al Signor Presidente si potranno
addurre queste mie ragioni, che bastano, secondo me, a persuadere ogni
mente".
Avrebbe voluto bensì,
che il Signor Ginisi con impegno intromesso si fosse con Maffei per le nostre
differenze. "Ogni aggiustamento, scrisse, sarebbe buono: basta, che ne
uscissimo di sotto".
L'unica cosa, che Alfonso aveva a cuore, tra queste
vertenze, si è la carità coi nemici, ed osservanza delle Regole. Questi erano i
due cardini su dei quali egli raggiravasi.
"A noi non conviene dare alcun passo
contro Maffei, così in un altra sua, fin dal primo di Giugno 1768., ma non
bisogna disgustarci i Cittadini, i quali molto ci possono giovare nelle
presenti pendenze. Questa Regola, soggiunse, bisogna tenere, e lasciare fare a
Dio. Non muoverci senza necessità: necessità intendo solamente di difenderci;
né mai far parte contro Maffei, o alcun altro". "Non ci diffidiamo in
questa tempesta, così in altra sua al medesimo Padre Villani: E' grande la
tempesta, ma è più grande la potenza di Dio. Non vorrei, che dai nostri si
legassero le mani a Dio con difetti, e mancanze. Questo è quello, che mi preme.
Se siamo fedeli con Dio, non mi fanno senso mille contradittori, e calunnie. Mi
dispiace solo l'offesa di Dio, che non può mancarci, ma preghiamo sempre affinché
Iddio gl'illumini.
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