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P. Antonio Maria Tannoia
Della Vita ed Istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori...

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  • Libro 3
    • Cap.49 Maggiori travagli ne' quali vide Alfonso la sua Congregazione.
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Cap.49

Maggiori travagli ne' quali vide Alfonso la sua Congregazione.

 


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Chi si da indietro a vista di un fosso, non è che non vuol passarlo, ma tal volta si arretra per prender maggior lena: così i nostri contradittori in Regno non si diedero addietro, vedendosi Alfonso in Napoli, che per evitar il colpo, ed assalirci con maggior vigore. Impegnati per ruinarci, ripigliarono gli assalti, ed attaccano di fronte la Congregazione ed i soggetti.

 

Mal capendosi la risoluzione dell'Augusto Re Carlo, che volendoci proibire gli acquisti, disse, non riconoscere le nostre Case per Comunità, o Collegj, facendosi forti sopra di questo, formano una reità, che ariete stimavasi da non potersi espugnare. Il Re, dicevano essi, non vuole Comunità, Collegio, e questi formano, in disprezzo del Sovrano, Collegj, e Comunità. Hanno Superiori Generali, e Locali; Noviziato, e Maestro di Novizj; Chierici, e Direttori di Studj; hanno regole, e statuti: cosa manca, replicavano, per una comunità non inferiore a qualunque delle più cospicue; e cosa manca, che non si opponga ai Sovrani divieti. Oltre di ciò, hanno dal Papa grazie, e privilegj, anche con discapito dell'Autorità Reale, e con pregiudizio non poco della Parrocchiale, e Vescovile. Non avendo la Regola, e sapendola approvata dal Papa, con ordine Sovrano si fan questa esibire dalla Curia di Benevento.

Ho detto, mal capendosi la risoluzione dell'Augusto Re Carlo. Questi non proibì, anzi egli medesimo accordato aveva l'erezione delle Case, e volle si vivesse sotto un capo anche con regole, e statuti; ma proibendoci gli acquisti, disse non riconoscere le Case per Comunità, e Collegj.

 

Avanzando un'altra supplica, fabbricano sopra di noi altre reità e delitti. In quel tempo tutto era gesuitismo in bocca di ognuno. Volendosi dai contrarj la nostra distruzione, rappresentano i nostri anche un ramo di quelli, o quei istessi cambiato nome. Le Regole che hanno, dicevano, non sono, che un estratto delle regole gesuitiche. Essendo stato espulso il corpo gesuitico, per la forma delle loro regole, che sospetto rendevalo, e pericoloso allo Stato, perché l'istesso


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non debbasi sospettare di questo corpo, che in sostanza è il medesimo, non differendo neppure nel nome. Se chiamavasi quella Compagnia di Gesù, questo chiamasi Congregazione del Redentore; ed altro non vi è di differenza, che i Gesuiti avevano formato Collegio con legittima autorità, ove questi senza autorità legittima controvengono diametralmente alle leggi del Sovrano. Con questo si attaccò anche il costume, né vi fu capo criminale, che addossato non ci fosse, o che per lo meno non fosse di nostro vitupero, e svantaggio.

 

Tra i tanti delitti, fabbricossone un altro, che si credette di maggior peso. Solevano i Rettori delle Case, volendo compiacere la devozione dei nostri benefattori, accordar loro la partecipazione delle opere, che da noi si fanno a gloria di Dio, ed in pro dell'anime. Stimossi dal Maffei così grave questo delitto, che si spedirono, a proprie spese, subalterni, per aversi nelle diverse provincie, queste filiazioni. Non è questo dicevano una specchiata prova della Comunità, che questi ostentano; e non è questo quello, che si fa dalle Religioni le più cospicue, ed antiche.

Turbine così grande dava da temere a tutti. Era così certa la vittoria in senso de' contradittori, che ognuno ci aveva per perduti. Alfonso era vecchio, e cadente, e se davasi vita alla Congregazione, al più non era, che vivente Alfonso.
Tal millanteria se abbatteva i nostri, non scoraggiava il nostro Vecchio: "Che dicono le genti, ei ci scrisse, che morto io, finisce tutto. Io dico, che questa Congregazione non l'ho fatta io, l'ha fatta Dio. Egli l'ha mantenuta per quarantadue anni, ed egli seguirà a mantenerla. Perché il Re l'ha da dismettere, quando non vi sono delitti, non porta danno a niuno, è acclamata da' Vescovi, e rendita non possiede, che faccia ombra al Sovrano? Il Re Cattolico, ed è quello che più importa, anche dichiara in un Dispaccio, desiderare, che questa adunanza si mantenga non solo per la vita di Alfonso Liguori, ma per quanto può durare, purché non manchino le Missioni dal primitivo fervore. Sicché la nostra permanenza dipende prima da Dio, poi da' nostri portamenti. Attendiamo perciò a stare uniti con Dio, ad osservare le nostre Regole, ad esser caritatevoli con tutti, contentarci delle nostre miserie; e principalmente ad esser umili, perché un poco di superbia ci può distruggere, come ha distrutti tanti altri".

 

Non militando tra i nostri tal confidenza come in Alfonso, temevasi di fatto, vedendosi egli decrepito, e così ruinato nel corpo, che breve fosse la sua vita; e che egli morto, mancato il suo credito, morto sarebbe per la Congregazione ogni sostegno.

Portandosi in Arienzo il P. Villani, ed altri, in questo anno 1772, ed esponendogli piangendo lo stato delle cose, lo pregarono, se amava la Congregazione volersi portare


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in Napoli, per vedersi sedata una tal tempesta. Troppo chiara si spiegarono, e più chiaro capendo il mistero, spiegossi Alfonso: "quietatevi lor disse, e non temete, che io non muojo per ora".
Questi maggiormente stringendolo, replicatamente lor disse: non temete per la Congregazione, e siate sicuri che io ho tempo per morire. La tempesta quantunque grande, e tali venti spirassero, che già vedevasi la nostra picciola navicella in procinto di sommergersi, Alfonso, affidato avendo in Dio la sua ancora placidamente ne dormiva.

 

Sforzavasi intanto il Maffei, coadjuvato dal Sarnelli, ottener l'intento; ma giocar non potea la carta, come voleva. Prevenuto essendo di sua indole il Marchese di Marco presso il Re, e'l Presidente D. Baldassare Cito in Camera Reale, consapevoli tutti e due delle trappole, e de' suoi trasporti contro il Venerabile Fra Antonio Lucci Vescovo di Bovino, essendo stati di persona in Bovino, ed Iliceto, non conseguiva quanto pretendeva. Mutando gioco, lasciò la Segreteria Ecclesiastica, e capo in quella di Stato. Affardellando di nuovo quanto prima aveva detto, asserisce immensi acquisti, già fatti dai nostri così in Regno, che nello Stato Beneventano, ma coperti avanti al Re sotto gli equivoci, e mentali restrizioni.

 Fe senso questo carico al Marchese Tanucci; ed essendo per chiamarsi la causa in Camera Reale, ordinò con suo Real Dispaccio al Duca di Turitto, Avvocato Fiscale delle Corona, che con efficacia fatto avesse nella Regal Camera le sue parti, e darne conto dell'esito alla Maestà del Sovrano: sull'intelligenza che i Missionarj non potessero possedere.

 

Aspetto troppo funesto presero le accuse nella Segreteria di Stato; sì perché il Marchese Tanucci guardava con altr'occhio Maffei, supponendoci zelo, e non livore; sì perché questi profondendo danaro, tutta l'officialità era per esso. Il Cavalier Fernandez, tra gli altri, che ne percepiva migliaja, spalleggiavalo in modo, che non difficoltava girar di persona, ed andar informando il Ministero. Avanzati i maneggi, con altro dispaccio vennero incaricati il Commissario di Campagna Biaggio Sanseverino, e 'l Duca di Turitto Avvocato Fiscale, che dovendosi per noi decider cosa in Camera Reale, fatto avessero anch'essi, con tutto zelo, le parti, e convenivano, e resa informata la Maestà del Sovrano.

 

Rapporti tali, essendosi fatti a Monsignore, non si vide scoraggiato. Portiamoci bene con Dio, disse, che Iddio ci ajuterà, perché Iddio può più di tutti gli uomini. Ajutiamci coll'orazione. L'innocenza, e la preghiera sono onnipotenti presso Dio.
Insinuò per tutte le Case delle preci in comune, e non eravi lettera a suoi divoti, in cui non inculcasse delle preghiere. Tra tutto però aveva a cuore, che tra i nostri regnata vi fosse la carità Cristiana, e che con impegno osservate si fossero le nostre Regole.


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Altro travaglio eravi anche tra questo tempo in Palermo. Qualche respiro di pace si godette dopo le prime mosse, che vi furono dei contradittori. Siccome la bonaccia, dopo la tempesta, rallegra il marinaro, così i nostri, respirando anch'essi, diedero parte ad Alfonso della pace, che godevasi, e del bene, che si operava. Inteso lo fecero specialmente di una fruttuosissima missione di esercizj fatta in casa. Alfonso che temette sempre più la calma, di quello, che spaventar può la tempesta,

"Mi consolo molto, rescrisse fino dai 30. di Aprile del 1771., mi consolo degl'Esercizj fatti in Casa; mi consolo, ma da una parte queste consolazioni mi fanno timore. Diceva S. Teresa, che le persecuzioni sono segni, che chi semina fa frutto. Voi state senza persecuzioni: ma qui ne stiamo ben provveduti; benché il Signore ci ajuta". Vedevasi così stroppio in questo tempo, e così travagliato, che firmando questa lettera, si soscrive: Fratello Alfonso Maria Cionco.

 

Troppo non durò la quiete in Sicilia. Ancorché giustizia si fosse fatta da que' savj Senatori della Monarchia al merito, e dottrina di Alfonso, e protettore de' nostri dichiarato si fosse il Marchese Fogliani Viceré in quell'Isola, e fossero per noi anche Vescovi, ed Arcivescovi, encomiando la dottrina, e l'operare, tuttavolta i Contraddittori non contenti d'averci denigrati in Palermo, avendo preso maggior lena, non solo di nuovo fecero capo in Palermo, accumulando calunnie, e refriggendo già le passate, ma si avanzarono anche in Napoli.

Rappresentano al Re i Missionarj infetti di dottrine malsane, Molinisti, e fracidi probabilisti: gente rapace, che andava in cerca di danaro, e non di anime; perniciosi allo Stato, ed alla Chiesa; e che non avendo Reale permesso, temerarj stabiliti si erano con casa in Girgenti, e fastosi trattenevansi in Sicilia. Soprattutto cercava il Cannella la protezione Reale, contestando venir perseguitato dai Missionarj per la sana dottrina, ch'egli possedeva, e per opporsi alla loro tutta contraria al Vangelo, ed ai sentimenti della Chiesa.

 

Accusa tale non poteva non far senso presso al Sovrano. Oltre di questo, vedevasi il Cannella, colla face nelle mani, rinforzando sempre il fuoco nelle Reali Secreterie, ed assistendo ora presso un Ministro, ed ora presso un altro.

Non mancò Alfonso, vedendo le cose in cattivo aspetto, giustificare se stesso, ed i suoi presso il Sovrano, ed i Ministri. Rappresentò, che benché i suoi Missionarj stassero in Girgenti, non vi stavano, che come giornalieri ad ogni cenno del Vescovo, alimentati a spese del Vescovo, ed impiegati in beneficio di quei Diocesani, come operavasi in Regno con sommo compiacimento dei rispettivi Vescovi. Che pensava Monsignor Lucchesi, che chiamati gli aveva, dopo averli sperimentati, fermarli effettivamente; ma che prevenuto dalla morte, non ebbe tempo far presente alla Maestà Sua il gran disegno, che meditava, ed eseguirlo col suo beneplacito.


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Similmente in Palermo il Padre D. Pietro Blasucci anche rappresentò lo stesso in quella Suprema Giunta, e specialmente al Consultore Targianni. Protestossi seguitarsi da esso, e dai suoi la dottrina più sana, e più autorizzata dalla Chiesa, e dallo spirito del Vangelo, così in materie morali che dogmatiche. Si assicuri, disse, una volta per sempre, che del Molinismo, e del lasso probabilismo ne aborriamo fino il nome, riputandole capricciose invenzioni aliene dalla semplicità del Vangelo. Il nostro sistema in materia letteraria è appunto il non isposare appassionatamente verun sistema fabbricato dalla mente corta, e limitata di un uomo, per non rendere schiava volontaria la libertà della nostra ragione.

Questi sono in succinto i sentimenti, che in materie dottrinali nutriamo nel cuore, e seguitiamo in pratica; né questa Città, e Diocesi, che professa una sana dottrina, ci ha rinfacciato finora, nel nostro lungo esercizio Apostolico, un solo sentimento non sano, e degno di censura.

 

Sgombrato restò il Ministro con questa rappresentanza; ed in data dei 31. di Marzo 1772. così rescrisse: "Di riscontro alla riverita carta di V.S. Reverendissima de' 18. spirante, e con piena intelligenza di quanto mi previene relativo a sospetti, che ha conceputo di aver forse il Sacerdote D. Giuseppe Cannella adomprata la buona opinione, che di lei si ha, le manifesto, che io non ho mai preteso condannare chicchessia reo di dottrina cattiva, quanno a me non costa la malvagità della medesima. Potrà intanto esser sicura della mia indifferenza; e se ho parlato a pro del Cannella, ciò è derivato dalla supposizione, che perseguitato lo fosse per sana dottrina. Mi compiaccio sentir evangelizzata la pura verità, e dottrina Christiana secondo le massime del Vangelo, dei Padri, e della Chiesa".

 

In questo tempo, armando l'ingegno il Maffei, macchinò far trovare i nostri in una trappola; e caduti sarebbero, se Alfonso assistito da lume superiore, non l'avesse evitato. Tutto aveva egli con se in Iliceto per ruinarci, fuorché il popolo, che anzi, come dissi, rivolto avevalo a suo danno. Vedendosi stretto, e volendo adomprarlo con noi, e far gioco per esso, cercò pace con noi, e mediatore i nostri tra il popolo, e lui. Il presidente Ginisi, che proteggevaci, abbracciò il progetto, applaudendo ancora il nostro Avvocato Celano, volendosi che il Padre Fiocchi, portandosi in Iliceto, impegnato si fosse per questo disimpegno. Sottile era la trappola; ma quello non si capì dal Ginisi, e dal Celano, lo capì Alfonso.

 

Riscontrato di tutto questo dal Padre Villani, "Questa è la via, rescrisse, di disgustarci i Cittadini, senza speranza di conciliarci Maffei. Costui è un leone infierito, ed è impossibile placarlo. Quello, che il Padre Fiocchi dirà a beneficio di Maffei, poco gioverà, mentre stimerà,


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che noi lo diciamo, non perché ha ragione, ma per cattivarci la sua affezione.

Dall'altra parte io tengo per certo, secondo la dovuta presunzione, che in tutte le cose la ragione sarà per li poveri cittadini. Sicché difficilmente il Padre Fiocchi potrà dir cosa a favor di Maffei senza scrupolo di coscienza, e contro la giustizia; anzi diranno sempre i Cittadini, che noi, per ajutar la causa nostra, vogliamo ruinare la loro. Questa mediazione ad altro non servirà, che, o per farci nemici i Cittadini (il che non è poco danno), o per acquistarci maggior odio di Maffei, il quale dirà, che ogni ragione del Padre Fiocchi per i Cittadini nasce da spirito di vendetta; e per quello, che potrà dire a favore di Maffei servirà per acquistarci l'odio dei Cittadini, ma non basterà di certo per acquistarci il buon'animo di Maffei. Io assolutamente sono di sentimento, che affatto niuno della Congregazione accetti questa incombenza. Al Signor Presidente si potranno addurre queste mie ragioni, che bastano, secondo me, a persuadere ogni mente".

Avrebbe voluto bensì, che il Signor Ginisi con impegno intromesso si fosse con Maffei per le nostre differenze. "Ogni aggiustamento, scrisse, sarebbe buono: basta, che ne uscissimo di sotto".

 

L'unica cosa, che Alfonso aveva a cuore, tra queste vertenze, si è la carità coi nemici, ed osservanza delle Regole. Questi erano i due cardini su dei quali egli raggiravasi.
 "A noi non conviene dare alcun passo contro Maffei, così in un altra sua, fin dal primo di Giugno 1768., ma non bisogna disgustarci i Cittadini, i quali molto ci possono giovare nelle presenti pendenze. Questa Regola, soggiunse, bisogna tenere, e lasciare fare a Dio. Non muoverci senza necessità: necessità intendo solamente di difenderci; né mai far parte contro Maffei, o alcun altro". "Non ci diffidiamo in questa tempesta, così in altra sua al medesimo Padre Villani: E' grande la tempesta, ma è più grande la potenza di Dio. Non vorrei, che dai nostri si legassero le mani a Dio con difetti, e mancanze. Questo è quello, che mi preme. Se siamo fedeli con Dio, non mi fanno senso mille contradittori, e calunnie. Mi dispiace solo l'offesa di Dio, che non può mancarci, ma preghiamo sempre affinché Iddio gl'illumini.




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