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P. Antonio Maria Tannoia
Della Vita ed Istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori...

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  • Libro 3
    • Cap.61 Si rilevano altri varj atti del sommo zelo di Alfonso.
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Cap.61

Si rilevano altri varj atti del sommo zelo di Alfonso.

 


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Altre pruove vi sono dello zelo di Alfonso. Se nel deserto comandò Gesù Cristo agli Apostoli voler raccoglier in uno, affinché non perissero, gli avanzati frammenti del pane moltiplicato: così io stimo volendo conservar viva la memoria, anche raccoglier in uno i tanti altri atti del suo zelo, che tessendo questa storia, mi sono avanzati.

Non è che lo zelo di Monsignore ristretto vedevasi nei particolari atti di già divisati, ma estendevasi a qualunque bisogno, che interessar poteva la gloria di Dio, ed il bene delle Anime. Il carattere del vero zelo, cioè universale, e senza restrizione, mi disse il Parroco D. Tommaso Aceto, non ravvisavasi che in Monsignor Liguori. Avendo presente le sollecitudini del buon Pastore, in prevenire i bisogni del proprio gregge, e lontano tenerne le occasioni di vederlo infetto, anch'egli vedevasi tutt'occhio per tutto ciò, che poteva nuocere, ed evitarne l'attacco.

 

Avendo in odio il peccato, mezzo non lasciò per togliere ne' suoi figli ogni occasione, benché rimota, per qualunque inciampo. Essendo venuta in S. Agata una compagnia di Commedianti, maggiormente si vide perduto, perché pensavasi fissarli, e darli casa. Avendo implorato il braccio del Duca di Maddaloni, in risposta venne ordinato che sloggiassero. Ricorsero questi dal Vice - Duca, e da Monsignore istesso, per la dilazione di pochi giorni. Anche si ristrinsero per una giornata, volendo rappresentare una sola Commedia, che dicevano onestissima. Dovettero partire, e non vi fu riparo.

 

In che giunse in S. Agata stavasi concertando da quei Gentiluomini pel Carnovale una Commedia, che dinominavasi la Contessa Sperciasepe. Distribuendo di sua mano la Comunione, allorché diede loro i santi Esercizj, tra le altre promesse, lor disse, che fatto avete a Gesù - Cristo, "dovete farmi una grazia, ed è promettere a Gesù - Cristo non farsi la Commedia a Carnovale". Quanto chiese, tanto ottenne.

Non avendo potuto impedire, in seguito, anche in S. Agata un'altra Commedia già concertata da Gentiluomini, chiese almeno volerla leggere. Soffrirono questi, per ogni rispetto, varie cassature, che Alfonso vi fece; e così dovettero rappresentarla, né mancò far capire al medesimo Medico Cervo, che era uno degli attitanti, il sommo dispiacimento, che ne provava: "Siete vecchio, li disse, e quest'è l'esempio, che date a' Giovani? Non so in punto di morte come la sentirete".

 

In senso suo avrebbe voluto Monsignore anatematizzato anche il


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nome di Carnovale. Che non faceva in quei giorni per impedire le maschere, ed altri passatempi. Introdusse nelle Parrocchie, ed in altre Chiese, i Sermoni coll'esposizione del Venerabile. Chiamava in quel tempo i suoi Missionarj, e servivasi di altri Predicatori, o per dare in quel tempo i santi Esercizj, o che per lo meno vi fosse un triduo di prediche in ogni paese.

Egli stesso, ove trovavasi, tuonava dal Pulpito contro il peccato. Chiamava, e raccomandava a Giovanetti Gentiluomini, che desistito avessero dal mascherarsi; ed insisteva presso li Governatori per impedirsi tali trasporti. Dico di più. Ricorreva anche a birri, ed ai capi di squadra che frastornato avessero qualche spettacolo scandaloso, o altra indecente unione.

 

 Introdotto avevano i Gentiluomini in S. Agata tenere in giro nelle proprie case de' pubblici festini. In sentirlo arse di zelo Alfonso. L'allegria coi rosolj esente essere non può, ei diceva, da peccato. Avendo saputo che D. Domenico Cervo, uomo morigerato, anche tenevalo in propria casa, non mancò chiamarlo, e corriggerlo. Non potendo essere a capo, essendosi per mezzo il Governatore, e varj Officiali Militari, proibì, e per lo meno ottenne, che non vi fossero delle Contradanze, il Tairè, ed altri balli non decenti, permettendo solo qualche Minuè, ma de' più onesti. "Dovrebbe premere più a Voi, che a me, disse al Cervo, che avete figliuole nubili in casa: fuoco, e stoppa non vanno bene, ed il Demonio lavora".

 

Essendo capitati in Arienzo nel Luglio del 1773. alcuni giuocolieri, o siano saltibanchi, che con se portavano due figliuole, che, vestite da uomini, danzavano su la corda, volendo togliere ogni occasione di scandalo, appena il seppe, che tutto zelo adoprossi col Governatore, e coll'Agente del Duca di Maddaloni D. Francesco Andrea Mustillo di farli partire. Volendo i giuocolieri dar fede all'oste, intimato lo sfratto, dissero volersene andare in Napoli; ma da Arienzo passarono in Airola.

"Credeva, scrisse subito Alfonso al Principe della Riccia, che fossero partiti dalla mia Diocesi, ma jeri con mia pena seppi che sono in Airola, e che trattengonsi a fare i giuochi nel palazzo di V.E. Prego, che mandi ordine in Airola, che non diano ricetto a tale conversazione. Si dirà, che le figliuole non danno scandalo con atti immodesti, ma è certo, che non danno edificazione. Io son persuaso, che il demonio, per mezzo delle due figliuole, che ballano sulla fune ne cava il suo profitto. Tanto bastò, per intimarseli in risposta lo sloggiarne".

 

Anche nelle feste de' Santi, essendovi concorso, ed in luoghi lontani dall'abitato, Alfonso temeva di disordine. Gran festa si fa in Airola a 9. di Marzo da' Padri Olivetani, nel giorno dedicato a S. Francesca Romana. Essendoci delle Indulgenze, concorso vi è anche da Paesi fuori Diocesi. Perché la Chiesa è in campagna, stravizzo vi è, ed allegria


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tra paesani, ed esteri. Monsignore non potendolo impedire, e volendo scemare il concorso, sotto il pretesto delle Indulgenze, sospender soleva i Confessori dai casi riserbati. "Così evitiamo, ei diceva, lo scaricarsi le coscienze senza frutto, e ricaricarsi di nuovo con vilipendio del divin Sacramento".

 

La notte di Natale in Arienzo soleva il Popolo, e vi concorrevano i vicini Casali, portarsi, per assistere ai Divini Officj, fuori della terra nella Chiesa de' Padri Cappuccini. Divozione non vi era, ma e dentro, e fuora allegria, e stravizzo. Vedendosi in truppa Giovanetti armati, e Giovanette libertine, non mancavanci delle gelosie, e risse anche con colpi di ferro tra rivali.

Alfonso, rammentandosi i passati disordini, voleva di persona portarsi per impedirli; e fatto l'avrebbe, se opposto non si fossero i Medici, vedendosi carico di acciacchi, ed egli conosciuto non avesse un evidente pericolo della vita. Altro non potendo, impedì che non si aprisse la Chiesa prima delle ore undici, lasciando che i Padri, con libertà a porta chiusa, esercitato avessero le loro funzioni.

Così per i medesimi motivi non volle che si aprissero le Parrocchie prima della medesima ora. Non eravi cosa tanto in orrore ad Alfonso, quanto le comitive notturne, ed i concorsi dai Villaggi distanti.

 

Evvi in Arienzo, tre miglia in distanza sopra un monticello, una Chiesa dedicata a S. Marco Evangelista. Eravi nel giorno della festa perdonanza solenne, e concorso di Popolo non solo dalla Diocesi, ma ben anche da' vicini Paesi, e solevasi, dopo i secondi Vesperi, portarsi la statua del Santo in processione d'intorno la collina. Non mancandovi la crapula, i disordini erano grandi, e talvolta non mancavano ferite, ed omicidj.

Prevedendo Alfonso inutile la predica, e volendo dare alla radice, volle, che la processione fatta si fosse di mattina, e che terminati i Divini Officj si chiudesse, e più non si aprisse la Chiesa. Così troncò il concorso, e le occasioni di peccati.

Persona che vender soleva in quel giorno più botti di vino, mancato il concorso, ed il lucro, offerse ducati quindici ad un Gentiluomo, se, a dispetto del Vescovo, adoprato si fosse, con una lettera regia, far reintegrare la festa. Il Gentiluomo, perchè prudente, mandò in benedizione il Tavernajo coi suoi quattrini.

 

La Processione delle Rogazioni, o sia la Stazione nel giorno di S. Marco, anche facevasi in questa medesima Chiesa. Perché distante, anziché con divozione, non riusciva, che con sommo disordine. Non tanto erasi al Monistero de' Padri Verginiani, che calata la Croce, deponevano i Preti la cotta; e chi in calesso, e chi sopra somari, chi avanti, e chi dietro, chi a piè, e chi ingroppato pervenivano nella Chiesa.

Vi è cosa di più. Essendovi apparecchio di taverna, perché festeggiavasi, stravizzo vi era di mattina, e di giorno. Volendo Alfonso


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evitare un tanto trapazzo ai Preti, e troncare il corso ai disordini, e peccati, pensò stabilire altra Chiesa per le Rogazioni.

Sul dubbio se potea o no farlo da se, o appartenesse a Roma, così scrisse al P. Villani: "Qui nella Stazione, che si fa a S. Marco nelle Rogazioni succedono inconvenienti, e perciò voglio mutar questa Chiesa. Fate vedere a Tommasini, o ad altro Autore, se sia lecito al Vescovo, volendo evitare gl'inconvenienti, mutare la Chiesa di S. Marco in altra Chiesa. Ho veduto Gavanti, e Merati, e non ho trovato cosa, che osta. Fatemi scrivere, se vi è cosa in contrario". Permutolla di fatto colla Parrocchiale di S. Agnese, sita nel corpo di quella Terra.

 

Tra il Territorio di Maddaloni, e quello dell'Acerra, evvi una quantità di lagune, per un fiume che si spande, e volgarmente dicesi il Fusaro. Quei di Arienzo, e di S. Agata, ed altri, da più luoghi della Diocesi, vi portano a curare il canape, ed il lino. Il mescuglio, che vi è di centinaja di uomini e donne, e specialmente di giovanetti, e zitelle, non va esente da un mondo di peccati. L'onestà si vende a buon mercato, e trionfa la sceleraggine a dispetto di Dio. Monsignore riflettendoci, non si dava pace: si affliggeva, e non riposava; e più volte tenne discorso con persone zelanti, cercando de' mezzi, per poterci rimediare. Restò bensì nella sua afflizione, essendo il male irreparabile.

 

Non solo ardeva di zelo per togliere il peccato, ma tolto avrebbe voluto dal Mondo qualunque luogo, ch'esser potea d'inciampo, e di comodo a' libertini, per commettere il peccato.

Uscendo un giorno in Arienzo, vedendosi malsano, per un poco d'aria, vide in vicinanza di quella Terra, e prossima alle mura una selva cedula del Duca di Maddaloni. Vedendola, si pose sopra pensiere; e rivolto al Canonico Testa, che stava con esso "Questa selva disse, non va bene, perché può dar luogo a molti disordini: voglio scrivere al Duca, che la faccia estirpare".

Se ne rise il Canonico; ed avendoli detto, che la selva era un corpo di rendita, che molto interessava il Duca, si vide afflitto e non seppe che dirsi.

 

Preintendendo, ancorché proibito l'avesse, che Giovanetti, e Giovanette addottrinavansi dai Preti, e dai Sostituti de' Parrochi nelle cose necessarie, non già in Chiesa, ma nelle proprie case, non mancò rilevarne i pericoli ai Parrochi di S. Maria a Vico.

"Con molto mio rincrescimento, così egli, a 13. di Marzo 1763. e con gran meraviglia ultimamente ho inteso, che cotesti loro figliani dell'uno, e dell'altro sesso vanno ad esaminarsi, per li rudimenti della fede, in casa de' Preti, e non già nelle rispettive Chiese. Senza che esprima gl'inconvenienti, che possono accadere, ben possono le Signorie vostre comprenderlo. Mi è dispiaciuto la loro indolenza a non parteciparmelo. Io affatto non


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voglio che le donne vadino in casa di qualsivoglia Ecclesiastico, per esser esaminate, e lo facciano sentire a tutti, acciò non avessero a seguitaredetestabile abuso; e vi prego in avvenire di non esser così pigri in farmi sapere gli sconcerti, che possono accadere, e stare più avvertiti sopra il profitto della loro cura".

 

Aveva per massima, che i Vescovi sono, e debbono essere i pacieri  de' popoli, e che i litigj sono la sorgente di molti mali, e tante volte anche la ruina di molte case. Come sentiva qualche discordia, specialmente fra Gentiluomini, mezzo non lasciava per riconciliare gli animi, e stringerli in carità. Non vi è lite, diceva, senza rancore, e senza offesa di Dio.

Eranvi da più anni delle grosse animosità in Airola tra D. Francesco Demarco Agente del Principe della Riccia, e 'l Sacerdote D. Giuseppe Ferace di Mojano, e questi, in forza di più Dispacci, anche processato nelle Curie di S. Agata, e Benevento. Qualche soddisfazione avevala avuta il Demarco, ma protestavasi non voler lasciare il Ferace, finché nol vedesse ruinato. Non mancò Alfonso usare ogni tentativo per vederli rappacificati. Non sapendo più che fare, ricorse prima di lasciar la Diocesi, al Principe della Riccia.

"Quando uno si vede ridotto alla disperazione, così agli 11. di Giugno 1774, è capace di dare in ogni eccesso; e temo, che se la cosa non finisce, può avvenire la ruina di  due case, perché tutti e due sono di natura risentita. Io ho scritto una lunga lettera a D. Francesco; ma le parole mie poco serviranno, se V. E. non vi metta la sua mano. Prego per tanto far sentire a D. Francesco esser volontà assoluta di V. E., che finisca più molestare il Ferace, e si tolga dalla mente l'empio proposito di volerlo precipitare; altrimenti la cosa finirà in pianto. Spero, che la pietà di V. E. voglia consolarmi, con farmi vedere quietate queste brighe, ed evitato il danno spirituale e temporale, che può avvenire a queste due Case".
Così finì la briga con estremo compiacimento di Monsignore.

 

Un Giovine Calzolajo avendo ricevuto da un soldato di Reggimento un colpo di bajonetta nella coscia ed essendo morto, fu carcerato il soldato. Mentre stava ristretto in Arienzo, vi furono due Officiali da Napoli, che desideravano la remissione. Monsignore mandò chiamando la madre, e 'l fratello. Questi essendo duri, noi lo perdoniamo, dissero, ma lo mettiamo in mano alla giustizia. In sentir giustizia Monsignore, esclamò: "Questo è peccato mortale: Tanto è dire in mano alla giustizia, quanto non volerli perdonare". Tanto disse, che ottenne la remissione.

 

Molto più era il rammarico, se briga vi nasceva fra Ecclesiastici.

Grave disturbo, a causa de' funerali, era insorto tra i


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PP. Domenicani, ed i Parrochi di Arienzo, e di S. Maria a Vico. Monsignore, essendovisi framezzato, mentre credeva composte le cose, non mancarono taluni de' Parrochi in Arienzo sopraseminarvi la zizzania.

"Mi dispiacerebbe, scrisse al Parroco D. Matteo Migliore, se di nuovo dovesse dar di mano a questa controversia, nella quale non vi guadagna cosa Iddio, e molto ci guadagna, come  ha guadagnato, l'Inferno". L'unico, che opponevasi era l'Arciprete di Arienzo, che cercava tirare anche gli altri. Non mancò Alfonso scrivergli in termini forti. "Io non ho impegno, disse, per i PP. Domenicani, ma ho impegno, che si tolga la causa di tanti peccati, e con disturbo di tante famiglie, per cosa, che poca importa alla Gloria di Dio".

Tanto fece, che si uniformarono tutti al suo sentimento.




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