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Cap.62
Si danno altre ripruove del medesimo zelo.
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Non è, che, quanto si è
detto, sia tutto lo sforzo dello zelo di Alfonso. Altro vi è, che contesta
quanto fu egli sollecito in perseguitare il peccato, e nel promuovere in
Diocesi la gloria di Gesù Cristo. Tremava, pensando a' divini giudizj, ed esser
risponsabile a Dio delle Anime a se commesse.
Ritrovandosi a tavola
con Monsignor Albertini, richiese questi quante Anime faceva la Diocesi di S.
Agata. Da quarantamila rispose Alfonso; e altrettante fa la mia, disse
Albertini. Alfonso, crollando, e ricrollando il capo, soggiunse: Monsignor mio, abbiamo ognuno quaranta mila
cantaja di peso sopra la bocca dello stomaco. Poveri noi, se, per nostra
negligenza, si perde una di queste.
Se non dormiva per cosa, che esser poteva d'inciampo al peccato, pace non
aveva, ove il peccato era certo, e vivevasi abbracciato. Chiamava, ed ammoniva
di persona i colpevoli, anche da' luoghi lontani; né lasciava mezzo coi
Parrochi per veder questi tali ravveduti.
Il vizio della
bestemmia stringevali il cuore. Non potendo avere il cannale in Piazza, col
morsacchio in bocca, perché proibito, quasi piangendo raccomandavasi a'
Governatori. Per lo meno voleva mortificati questi tali, e castigati colle
carceri. Tempestava sul pulpito, e voleva, che spesso da' Parrochi, rilevato si
fosse la gravezza di tal peccato. Diceva che il bestemmiatore non differisce,
che nella pena da un dannato, - 327 -
e che anch'esso porta scritto in fronte il decreto di riprovato. Sentendo
taluno abituato in questo, sollecito non mancava chiamarselo, ed ammonirlo di persona.
Un Vaticale, chiamato
per sopranome Frabenvenuto, perché un tempo fu novizio tra PP. Cappuccini, era
riuscito un fiero bestemmiatore. Non potendolo avere nelle mani, per far quelle
parti, che come Padre doveva, incombensò il servidore Alessio di chiamarlo,
come se egli saper volesse i prezzi de' grani. Vedendolo, li disse: io non cerco prezzi di grano, ma cerco a
voi; sento che non vi è Santo, che lasciate. Avendolo minacciato, se non
lasciava la bestemmia, volerlo ruinare, e mandarlo a piangere in galèa, restò
così atterrito, che davvero entrò in se stesso, lasciando il vizio della
bestemmia.
Incontrandosi questo
col Servidore, ricordevole, e consolandosi dello stratagemma, dimandavali
spesso, se Monsignore lo volesse per li prezzi del grano. Morì tra poco tempo,
ma, con consolazione di Alfonso, morì compunto, e rassegnato.
Anche nel Casale di
Forchia eravi un fiero bestemmiatore, che non contento de' Santi, giungeva a
bestemmiare Dio medesimo, e sputarli in faccia. Non potendovi esser di sopra, fe
capo a 26. Dicembre nel 1773. al Principe della Riccia.
"Non mi fido, disse, spiegare in carta anche le bestemmie, che proferisce
contro Maria Santissima, tanto sono esecrande, ed orrende. Sappia V. E., che
quest'uomo infame, per la bestemmia è stato carcerato altra volta, e presto è
ritornato da capo. Da tre anni in poi, anche ritrovasi spedito contro di lui il
Monitorio da questa mia Curia. Bisogna, che V. E. informandosi, non solo lo
faccia carcerare, ma faccia farli la sentenza, che si merita, giacché si è
renduto incorregibile".
Male la passò nelle carceri, e più male la passò la borsa col Governatore.
Centinaja di questi vi
sarebbero, che tralascio. La bestemmia taluni la presero in orrore, per timore
della pena: altri la detestarono, perché compunti dalle dolci maniere di
Alfonso.
Uno di questi, e vaglia
per tanti, anche in Forchia di Arpaja, erano più anni, che interdetto vedevasi,
ed impenitente. Alfonso, non potendone di più, col braccio del Principe, avealo
processato.
Ritentar volendo le parti
di Padre, sel fa venire in S. Agata. Non avendo coraggio di presentarseli,
avvisato Alfonso, egli medesimo chiamollo per nome dalla finestra. Ammonendolo,
e mettendogli la mano sulla testa, li fa presente il suo stato. Sopraffatto da
tanta bontà, tocco da Dio, si compunge, si umilia, e detesta il peccato.
La mattina susseguente,
avendoli fatto aprire la coscienza al P. Majone, volle, prima di ammettersi
alla Comunione, che per tre Domeniche, in risarcimento dello scandalo, fosse
stato avanti la porta della Parrocchia colla grossa Croce sulle spalle, e con
pesante pietra - 328 -
pendente
dal collo. Tutto eseguì. Fu tale il suo ravvedimento, che visse da Cristiano,
frequentò ogni otto giorni i Sagramenti, e si ascrisse alla Congregazione del
Rosario.
Vedremo nel giorno del
giudizio quanti di questi convertì Alfonso, o col dolce, o coll'amaro, dal
peccato a Gesù Cristo, e che furono in vita la di lui consolazione.
Anche interessavasi
Alfonso, avendo in odio ogni peccato, per la giustizia de' contratti.
Riclamava, e strepitava per gli abusi. Incaricavalo a' Missionarj, a'
Quaresimalisti, e soprattutto a' Parrochi.
L'anno 1764. non tanto
affliggevalo la carestia, quanto il monopolio espresso, o tacito, che per li
prezzi alterati, rilevò ne' possessori, o incettatori de' grani. Fe capo anche
in Napoli dall'Abbate Genovese, cercando in questo il di lui parere, essendo in
gran credito presso il pubblico.
Dando gli Esercizj in
S. Agata il P. Lettore Terzi Domenicano, e stando egli storpio in Arienzo, così
gli scrisse a 30. di Marzo 1773.
"Ritrovandosi V.
P. facendo gli Esercizj spirituali, prego avvertire l'ingiustizia di due
contratti, che ho saputo farsi in S. Agata. Il primo è di mettersi la sorte a
parte col Villano, cioè due buovi, che costeranno sessanta in settanta ducati,
col peso di dare ogn'anno al Padrone dieci tomola di grano, il che certamente è
un peso ingiusto, per ducati sessanta, esigger tomola dieci. Vi si aggiunge
altro patto ingiusto, ed è, che se mujono i buoi, il Villano ne ha da pagare la
metà: patto anche ingiusto, perchè la sorte deve perire al solo padrone".
"L'altro contratto
si è di dare la porca anche in parte. Se fa figli, si vendono, e si sparte il
guadagno; ma se muore la porca, il Villano ha da pagar la metà. Prego V. P. a
gridare più volte, non bastando una, contra questi due contratti ingiustissimi.
Soggiunge di più,
incaricandoli la coscienza: "Ella già saprà la dottrina de' moralisti, che
il Predicatore è tenuto in coscienza a predicare contra i contratti, che sono
pubblici, ed ingiusti. Intanto aspetto il profitto per mano di V. P., acciocché
sappiano almeno questi padroni, che sono dannati tutti quelli che fanno questi
due contratti".
Animato da zelo, non
mancava anch'esso, ancorché storpio, riclamare dalla cattedra in Arienzo, e
farne carico il povero paziente, e l'usurajo oppressore.
Sommamente viveva
geloso, che i novelli Sposi, contratti gli sponsali, non trattassero in casa
della Sposa. In questo era rigido più di quello si possa ideare. Se io non mi oppongo, diceva, sono la causa di mille peccati, e ne sono
reo innanzi a Dio. Reso avvisato di questi scandali, strepitava coi
parenti, e non bastando questo, implorava il braccio de' Governatori.
Avendolo avvisato un
Parroco dello scandalo, che vi era, abitando un Giovane, non ancora sposato,
nella medesima stanza colla zitella. - 329 -
"Fate sentire allo
sposo, rescrisse al Parroco, che subito mandi fuori di casa la zitella,
altrimenti manderò la scomunica: Fatelo sapere anche alla zitella, ed
avvisatemi subito quello, che sortisce. Più di questo non vi volle, per
togliersi lo scandalo, sapendosi che Monsignore prima operava, e poi
minacciava.
Come sentiva impedimenti insorti, e tratti vi erano dello sposo colla sposa,
maggiormente vedevasi in agitazione. Chiamava i respettivi Padri, ne incaricava
i Parrochi, e rilevava con fortezza l'offesa di Dio. In queste lungherie il peccato è inevitabile, ei diceva, e non
lasciava mezzo per veder effettuato il matrimonio.
Non pochi Giovanetti,
volendo prender stato, se contraddetti vedevansi ingiustamente da' Genitori, e
negato il consenso, ricorrevano da Monsignore, esponendo il pericolo
dell'incontinenza. Chiamandosi i Parenti più stretti, faceva presente,
specialmente ai Padri, lo scrupolo, che loro assisteva. Non essendoci in
contrario motivo ragionevole, con bel modo adopravasi per far dare il consenso,
e togliere i Giovini dal pericolo di peccato.
Tanti, e tanti di
questi, che scandalizzato avevano il pubblico, conversando colle respettive
innamorate, egli, prima che sposati si fossero, condannar soleva la donna a
stare in tempo di concorso di popolo colla candela nelle mani avanti la porta
della Chiesa, e l'uomo con una corona di
spine sul capo, et hoc, come si
esprimono i suoi decreti, ut deterreantur
alii a similibus committendis; ed in questo era irremisibile, e duro.
Soprattutto aveva a
cuore Monsignore, che istruiti si fossero i figliuoli, come altrove già dissi,
ne' rudimenti Cristiani. Sopra di questo stavene egli oculato, e voleva, che
da' Parrochi, e Confessori s'incaricassero, non che i respettivi parenti, ma
ognuno, che li avesse in cura.
Nel 1772. così scrisse in Airola a 17.
Novembre al suo Vicario Foraneo, " Mi è pervenuto a notizia, che i
parenti, tutori, e padroni, che per officio hanno cura di altri, sono
trascurati in mandare i loro figli, pupilli, e garzoni alla dottrina Cristiana,
che s'insegna da' Parrochi, e che già si è ordinato sotto gravissime pene
s'insegnasse in ogni giorno di festa, prego V. S. far intendere in pubblica
Congregazione de' casi morali a tutti i Confessori, e Parrochi di codesta Città
di Airola, come ancora al Parroco, e Confessori del Casale di Bucciano, che
prima di sentirne la confessione di detti Padri, e Madri, Tutori, ed altri,
dimandino, se frequentar fanno la dottrina Cristiana dalle persone a loro
soggette, e trovandoli recidivi in tale trascuratezza, che non si assolvino da
detto caso.
Entra ancora Monsignore
circa l'ignoranza, che vi può essere nelle persone avanzate di età.
"Dimandino, ei
dice, i Confessori agli - 330 -
adulti
le cose necessarie alla salute eterna; e circa l'assoluzione si regolino a
tenore di quello, che da me, e da altri si è scritto su tal punto. Almeno
vedino indurli d'intervenire alla dottrina picciola, che si fa ne' giorni di
festa nella prima, e seconda Messa, ove vi è più concorso di popolo. Trovandoli
ignoranti, e trascurati nelle cose necessarie alla salute eterna, si ricordino
i Confessori non poterli assolvere, se prima non cureranno di esser
istruiti".
Interessavasi sopra
tutto per li pupilli. Per questi, come derelitti dalla natura, ne piangeva
innanzi a Dio. Se sentivali in mano di persone moriggerate, ne godeva; ma se in
persone, che promuover non potevano i loro interessi corporali, e spirituali,
non lasciava mezzo per caodjuvarli.
Vagliano per tanti i
figli del fu Giacomo Tofano Gentiluomo di Airola. Morto questi, tutrice si vide
di due suoi figli un maschio, ed una femmina, la propria madre D. Laura di
Cervo. Passata questa alle seconde nozze, dovevasi dare altro Tutore ai
figliuoli. Monsignore prevedendo chi poteva essere, e non stimandolo di
profitto, ne interessò il Principe della Riccia.
"Rappresento a V.
E., il mio sentimento, così egli a 6. Aprile 1769. ed è, che vengono meglio
educati i pupilli da D. Domenico Cervo, Avo materno, che da altri; e le di loro
sostanze anche verrebbero ben regolate, costandomi la capacità, ed integrità di
D. Domenico. Ho stimato riferire tutto ciò a V. E. per lo bene de' pupilli,
perché suoi vassalli, ed anime commesse alla mia cura". Quanto chiese,
tanto ottenne.
Non eravi Anima, che
esclusa fosse dal suo zelo. Anche fuori Diocesi, potendo profittare, non
mancava di farlo. Essendo passato a miglior vita il vecchio Duca di Maddaloni,
avendo Monsignore somma premura, che carico si fosse fatto il figlio delle
proprie obbligazioni verso Dio, verso se stesso, e verso i suoi vassalli,
poseli avanti, in un trattatino, tutti questi doveri. Ringraziollo di tanta
bontà il Conte di Cerreto D. Filippo Carafa, Ajo, e Zio del Duchino. Valeva un
tesoro questo trattatino; ma trovasi disperso con amarezza mia, e di tanti
altri.
Gelosissimo ancora
vedevasi Alfonso, e sommamente sollecito, che da tutti adempito si fosse al
Precetto pasquale. Ogn'anno voleva, che da' Parrochi, portato se li fosse
distinto notamento di tutti coloro, che adempito non l'avevano. Chiamava,
ammoniva, e riprendeva ognuno, facendolo carico della propria obbligazione.
Soprattutto aveva in mira i Gentiluomini. Non profittando, affissi vedevansi i
cetoloni, senz'eccezione veruna, alle porte delle rispettive Parrocchie. Non
arrivando colle armi della Chiesa, cercava il braccio de' Baroni.
"Sono più anni, scrisse al Principe della Riccia a 25. Aprile 1770., che
N. N. sotto affettato pretesto di manìa, non adempisce il Precetto pasquale; e
quello, - 331 -
ch'è peggio,
sono quattro anni, che nè anche vuole, che frequenti i Sacramenti la propria
sorella. So che V. E. è pieno di zelo per la salute de' suoi Vassalli, e perciò
non dubito, che sia per dare gli ordini opportuni".
Si esibì ancora farli
contribuire nelle carceri un giornaliere sussidio per il di lui mantenimento.
L'uomo fu ristretto nella forza, e la sorella fu in libertà di adempire il
precetto, e frequentare la Chiesa, e i Sacramenti.
Geloso era ancora, che
non si ammettessero all'Altare, in tal tempo, persone scostumate, e scandalose,
nobili, o plebee che fossero. Essendovi pratica di un giovane con una donna
maritata, Alfonso avendolo saputo, ordinò subito ai rispettivi Parrochi, che a
tutti e due negati si fossero i Sacramenti. Non è, che Monsignore comandasse,
mettendo altri al cimento, ed Egli guardasse di lontano.
Essendosi resi
inefficaci tutti i suoi sforzi paterni con un Gentiluomo, che benché
ammogliato, conversava con pubblico scandalo con una donna, essendosi questo
accostato all'Altare il Giovedì Santo, nell'atto che Alfonso somministrava al
Popolo la santa Comunione, avendolo conosciuto, si ferma, e con tuono severo: Come? Indegno, li disse, hai spirito di accostarti all'Altare. Qui
non si dà il Santo a' cani. Misero ravvediti; e così dicendo passò avanti.
Confuso restò il miserabile, ma non si approfittò. Monsignore bensì non
lasciollo in pace.
Correndo il Precetto
Pasquale sospendeva Alfonso la facoltà de' casi a tutti i Confessori.
Avendoceli cercato il Parroco
di S. Maria a Vico, così rescrisse agli 8. di Settembre 1770. "D. Matteo
mio caro, io più presto in altri tempi concederei a' Confessori la facoltà de'
Casi riservati, ma non in tempo del Precetto, perché non vi è miglior tempo,
per far ravvedere i peccatori da peccati riservati, e specialmente di
bestemmie, che in questo tempo del precetto, nel quale sono costretti a
confessarsi per non essere scomunicati. E mi dispiace aver concessa tal facoltà
ad alcuno in Arienzo. Basta che tal facoltà l'abbia solamente V. S., e 'l
Compagno. I Sostituti, e gli altri Confessori possono scrivermi quando occorre
il caso, acciocché facciano così penare l'assoluzione a questa sorta di gente
scioperata. Mi dicono, per altro, esser solito concedersi tal facoltà in tempo di
Precetto, ma questo, solito mi pare un grande sproposito, e per l'avvenire non
lo farò più".
Maggior zelo però
dimostravalo Alfonso con i Parrochi, se vedevali timidi, e molto più se
indifferenti, o trascurati. Chi doveva esser Parroco a suo tempo, aver dovea
piedi per girare, occhio per osservare, e petto di bronzo per esporsi a
cimenti. Erano così assistiti da esso, che spesso ritrovavansi in imbarazzi non
sognati. Il far negare, come ho detto, i Sagramenti a persone scandalose, e
prepotenti, ammonirle - 332 -
a
petto a petto, e farli carichi del loro stato, non erano cose straordinarie.
Una volta tra le altre,
negli ultimi anni ch'era in Arienzo, risentendosi con due Parrochi; "Voi
siete, lor disse fattosi di fuoco, voi siete i custodi della Diocesi, voi miei
Coadjutori. Come va, che io so le cose, e voi, o l'ignorate, o non me le dite?
Spetta a voi invigilare, ed avvisarmi, ed a me spetta darvi le
provvidenze".
Ritrovandosi presente
un Sacerdote, non confidente, scherzando disse:
quelli lo fanno di notte, ed il povero Parroco, che vi ha da fare? Il buon pastore, ripigliò Alfonso, veglia, e non dorme, e va sempre appresso
alle sue pecorelle.
Non vedendo eseguito da
questi, quanto lor imponeva in ordine ai scandali, perdeva la pace. Essendosi scoperta
una pratica in una Parrocchia, e vedenvovi trascuraggine, così scrisse agli 8.
di Settembre 1770. al Parroco, e suo Sostituto: "Credeva senza meno, che
mi avessivo tolto questa spina dal cuore, ma con mio rincrescimento vedo, che
l'abbiate trascurata. Io voglio senza meno per stasera o il ricorso vostro al
Signor Governatore, come restassimo appuntati, o pure de' complatearj".
Terminata la lettera soggiunse:
"Per carità mandatemi subito la risposta, perché io non posso riposare.
Quando vi è una prattica di queste, mi stimo reo, come se io commettessi quelli
peccati, e potendoli impedire, non l'impedisco".
Maggior pena
sperimentava, se, insistendo, avevane ripulsa.
Non avendo profittato con quel
Gentiluomo, cui negato aveva la Comunione nel Giovedì Santo, essendo venuto a
tempo D. Felice dell'Acqua, Governatore in quel luogo, Monsignore, facendoli
presente lo scandalo, impegnollo per lo riparo. Chiedendo quello un ricorso del
Parroco, disse, che pensava esso mandarlo carico di funi nel Tribunale di Campagna.
Godette Alfonso della
fermezza del Governatore, stende la querela, chiama il Parroco, e cerca, che la
firmasse.
Restò questo spaventato
a tal dimanda: "Non posso, disse, perché il Gentiluomo è prepotente, e non
so che mi avviene".
Questa negativa
trafisse talmente il cuore ad Alfonso, che li comparverono le lagrime: Come voi siete Pastore, disse: vedete il lupo, che divora, e vi date
indietro.
Prega, e straprega. Non sapendo il Parroco come scappare, chiede giorni
quindici di tempo. Anch'io, disse, voglio avvertirlo per mio scrupolo".
Benché con pena, ce
l'accordò. Vedendo il Parroco la costanza del Vescovo, fe avvertito il
Gentiluomo di quello, che vi era. Fu tale lo spavento, che abbandonò la donna;
e quella, vedendosi abbandonata, mutò Cielo.
Questo buon successo
pose al coperto il Parroco, e pose in pace Monsignore.
Insistendo col Parroco di S. Maria a
Vico per un'altra pratica, che ivi non vedea tolta; ed avondoli quello
rescritto, che la donna - 333 -
veniva
spalleggiata da persone prepotenti, Monsignore li rescrisse: "Quelle
ultime parole nel tuo biglietto, della protezione che godono queste tali, io
non intendo, che vogliono dire. Sarebbe bene, che si spieghi meglio, acciocché
io possa mettervi rimedio. Né mi è piaciuto il dire: altro non mi è rimasto del
mio obbligo, che parlare, e predicare dall'Altare. Il Parroco circa gli
scandali deve sempre insistere, e correggere, ancorché la correzione si prevede
all'intutto inutile; altrimenti gli altri scandalosi, vedendo che il Parroco
non parla più, piglierebbero animo a seguitare il male, e gli uomini dabbene,
vedendo che lo scandalo seguita, ed il Parroco tace, anche si
scandalizzerebbero. Ciò non lo scrivo ora, ma l'ho scritto da gran tempo nella
mia morale; e questa dottrina anche l'ho consigliata con altri uomini
dotti".
Abbiamo cosa di più, ed
è, come di già si è veduto, che nel suo fare, parzialità non ammetteva, né
ombra di mano rispetto. L'officio di Vicario Foraneo in Arienzo, colla Terra
abbracciava i Casali. Considerando, che un solo invigilar non potea in tutti i
luoghi, pensò dividere l'officio. Essendosi spiegato coll'attuale Vicario,
questi amaramente vi si oppose, dicendo, che andavaci di sotto la sua
riputazione. Non lasciò mezzo Alfonso per disingannarlo. Pazientò per quattro
mesi; ma vedendo non profittarvi, si
risolvette a farlo. Con maggior petulanza il Vicario mettevali in aspetto
l'onor suo. Monsignore non potendone dippiù: Che preme a me la stima tua ideale, disseli, mettendosi in aria, mi preme la stima, e l'onore di Gesù Cristo.
L'officio fu diviso, ed il Vicario dovette tacere.
Fattosi carico del mal
procedere di un altro Vicario Foraneo, che essendo Gentiluomo, abusandosi
dell'impiego, dominava sul Clero, e comandava le feste; avendo a cuore il suo
decoro, fe sentirgli, che da se rinunciato avesse l'officio. Questo tuono non
piacque al Vicario. Alfonso, avendolo pazientato, e vedendolo restìo, risoluto
gli scrisse: O rinunciate voi, o ve ne
tolgo io.
Di fatti venir dovette
alla rinunzia.
Tali
sono gli effetti del sommo zelo di Alfonso.
Uscendo la Vita di Monsignor Liguori, disse Monsignor Potenza, sentendo la
di lui morte in Ariano, il suo zelo sarà
per dare tanti schiaffi a noi altri Vescovi.
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