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P. Antonio Maria Tannoia
Della Vita ed Istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori...

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  • Libro 3
    • Cap.65 Umiltà somma di Alfonso, e basso sentire di se medesimo.
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Cap.65

Umiltà somma di Alfonso, e basso sentire di se medesimo.

 


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Disgiunta non essendo la mansuetudine dallo spirito di umiltà, e che ove domina una, anche l'altra signoreggia, se fu mirabile in Monsignor Liguori la santa mansuetudine, volendo unire in se quel mitis et humilis, che in se vantava Gesù  Cristo, ammirabile fu in lui la santa umiltà; ed altro non vi voleva, che un'idea troppo bassa di se per amorevolmente abbracciarsi, come fece, i tanti affronti.

 

Contegno di nobiltà, e brio cavalleresco, tutto era alieno dal suo cuore. Disingannato del mondo, qualunque cosa per lui era fumo, e vanità. Dimentico di esser nato Cavaliere, altro non cercava, che avvilirsi, e nascondersi. Per Alfonso non vi erano gesta gloriose de' suoi antenati; e se taluno accennato le avesse, ne troncava la parola.

Avendo io un giorno, essendosi a tavola in S. Agata, introdotto discorso sopra un famoso duello fatto da un suo Avo, e forse in età sopra i settant'anni, arrossì, non parlò più, e rese mutoli anche gli altri.

Encomiando taluni gli onori, e le cariche, che goduto avea in Mantova, come Governatore di quella gran Piazza D. Carlo Cavaliere suo Cugino, se ne afflisse, anziché compiacersene. "Quanto meglio goderei, ei disse, se mi si dicesse, essere stato un uomo virtuoso, ed aver fatto una morte santa".

Eletto Vescovo, subito che partì per Roma, come dissi, e fe capo in S. Agata, interdisse replicatamente alla servitù ogni titolo di eccellenza. Se qualche Diocesano (e non fu questo un gioco di una volta, o due) trattavalo di eccellenza, egli facendosi di fuoco, e troncando la parola, "Quest'eccellenza, diceva, non mi spetta. L'Illustrissimo mi la Chiesa, e non l'Eccellenza".

Taluni talvolta, non volendola dare per vinta, o perché fatto l'uso col Vescovo antecessore, ripetendo l'eccellenza, egli quasi alterato, quante volte, diceva, ve lo debbo dire, che non mi spetta quest'Eccellenza. Vedendosi, che da vero si amareggiava, in seguito si perdé tra Diocesani ogni idea di questo titolo.

 

Non eravi, come dissi, per i suoi bisogni personali, cameriere, o servitore che coadjuvato lo avesse. Mettendosi, o levandosi di letto, non voleva alcuno a servirlo. Da se vestivasi e spogliavasi: egli rifacevasi il letto, ed egli medesimo medicavasi il cauterio. Era tra i suoi Monsignor Liguori come ogni altro della sua famiglia.


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Ancorché  Vescovo non stimavasi, che come un Sagrestano della Chiesa di S. Agata. Per grazia di Dio disse un giorno, non ho mai patito di vanagloria. "Solo una mattina vedendomi incensato sul trono, m'intesi un so che, che mi piacque. Or vedete, dissi a me stesso, dove il Demonio mi si fa a tentare".

Uscendo di casa, non pretendeva corteggio di Canonici, o di altre persone di riguardo, ma contantavasi di un Prete chiunque fosse. Incontrandolo un giorno un forestiere occhialista, vedendolo vecchio, e male in arnese, e non conoscendolo, "Si Reverendo, li disse, se volete un'occhiale, ne ho de' buoni". Essendoseli detto ch'era Monsignore, il poveretto se ne fuggì col capo chino, e confuso.

 

Tante volte non aveva ribrezzo avviarsi solo fuori di Casa. Un giorno avendo terminata la Visita, chiamò il Sagrestano (era questi un Laico) e solo con quello, spaccando la piazza, portavasi al Monistero del Redentore. Restò stupito ognuno a tal veduta, e persone vi furono, che avvisarono in fretta chiunque de' Canonici. Correndo questi al Monistero, Monsignore non finiva di maravigliarsi di tanta sollecitudine. Sapendosi il suo fare, non una, ma più volte, si alterarono i Canonici con i familiari, che essendo per uscire di Casa, non erano prevenuti con i soliti tocchi della campana. Ma questo appunto è quello, che non voleva Alfonso.

 

Calando in Chiesa per la Visita al Sagramento, o per altra privata divozione, facevalo anche solo. Tante volte prevenendo l'ora, e ritrovando chiusa la porta interiore, pazientava senza darsene pena, l'arrivo del Sagrestano. In Chiesa, portandosi da privato, non ammetteva cossini sopra l'inginocchiatojo. Se si ritrovava con esso il servidore, conoscendo il suo genio, era pronto a levarli.

 

Uscendo in carozza, non permetteva, che il Secretario, o altro Prete posto si fosse dalla parte de' cavalli. La dritta, conversando con altri, non prendevala che nei casi indispensabili. In Napoli davala anche al suo Vicario. Dispiaceva a quello il soverchio, ma ceder doveva per ubbidire, e non contristarlo.

 

Aria di comando in Monsignor Liguori non ci fu mai. Quel signoreggiare nel Clero, esecrato in S. Pietro, eragli in estremo abbominio. Anche col più infimo de' servidori vedevasi Alfonso umile, e dimesso.

I termini, che aveva in bocca non erano con questi, che fatemi la carità, vi prego della tal cosa, abbiate pazienza, vi fidate di far questo, né se l'intese mai uscita di bocca parola, che indicasse comando, o superiorità. Maggiormente usava questi termini con persone addette alla Chiesa.

Non ci fu caso, mi attesta il Parroco D. Pasquale Bartolino, che servito si fosse in tutto il tempo, che stiede in Diocesi, dell'opera di qualche Sacerdote ne' suoi bisogni, anche stando cionco a letto.

Trovandomi un giorno nella sua stanza, mi disse il medesimo, non osò


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dirmi prendetemi quel calamajo; ma fatto segno col campanello, chiama il Fratello Laico, e da quello sel fe porgere.

 

Anche se per disimpegno di cosa annessa al carattere comandava qualche Sacerdote, no 'l faceva, che con termini di preghiera. Ritrovandosi in Arienzo dando gli Esercizj alle Monache, il cennato Bartolino, ed essendo restate soddisfatte le Monache, pregarono Monsignore volercelo dare per altri due giorni.
Standosi a tavola, disse a D. Pasquale: "Vedete che dicono le Monache: Vi vorrebbero per altri due giorni. Avendoli risposto, V. S. ha panno, e forbice nelle mani, comandate che ubbidisco. "E' vero disse Alfonso, ma il Superiore dev'essere discreto". Se poi ritrovava resistenza in cosa, che pretender poteva, e ricordavasi di esser Vescovo, mutando tuono, nol faceva, benché in termini forti, ma sempre umili, e decenti.

 

Sommo rispetto aveva per tutt'i Sacerdoti. Aria, e disprezzo, diceva Monsignore, non accresce nel Vescovo l'autorità, anzi la diminuisce. Chiunque fosse de' Sudditi, egli dava da sedere. Parlando, e trattando con questi, nol faceva che con termini di venerazione. Non altrimenti trattavali per lettere. Scrivendo ai Vicarj Foranei, e Parrochi trattavali d'illustrissimi. Anche con i colpevoli, chiamandoli in giudizio, non servivasi di termini autorevoli, ma sempre con umiltà, e sommessione.


Dava Alfonso, e non voleva, e soddisfatto restava nella sua indigenza.

 

Sommo rispetto, come dissi, aveva ancora, e somma venerazione per ogni Regolare. Ancorché Vescovo, trattando coi rispettivi Superiori, dichiaravasi quasi suddito.

In Arienzo, essendosi portato nel Convento de' Cappuccini il giorno di S. Antonio, ed avendovi inteso concorso di popolo, vedendo il Guardiano, con sommissione gli disse: "P. Guardiano, se vi contentate, vorrei dire quattro parole".  Restò confuso in vista di tanta umiltà così il Guardiano, che chiunque eravi presente.
Colla medesima sommissione oprava con ogni altro Superiore, volendo far cosa nella propria Chiesa. Così portavasi, volendo far qualche funzione non solita del proprio Ministero, coi Parrochi, e maggiormente coi Canonici, o nella Cattedrale, o nelle Collegiate.

 

Godeva, come Padre comune, vedersi corteggiato da' suoi figli nobili, o ignobili che fossero. Anche a' Chierici non permetteva, che stessero in piede. Quest'istessi venendo da lui da' rispettivi luoghi, ammettevali a tavola venendo di mattina. L'essere invitato dal Superiore a pranzo con esso, non era in Alfonso un favore particolare. Praticava questo con tutt'i Sacerdoti, che benché sudditi andavano a visitarlo. Così ogni Secolare alquanto civile capitando dalla Diocesi.
Nemico del bacio della mano, non presentavala anche a' Chierici, se da questi non si dimostrava volercela baciare, e no 'l faceva, che con ritegno. Anche coi più rozzi villani, colla gente più misera e meschina, non eravi autorità


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in Monsignore; anzi con questi godeva trattenersi, informarsi de' loro traffichi, e farsi carico de' loro bisogni.

Due Vescovi Cavalieri, mi disse il P. D. Gennaro Fatigati, ho conosciuto in vita mia, Monsignor Borgia, e Monsignor Liguori, che godono colla gente bassa, e colle persone più meschine, trattandoci con dimestichezza, e senz'aria di superiorità, o di nobiltà.

 

Ma non è questa, benché lodevole, tutta l'umiltà di Monsignore. Egli non era umile per metà; ma coll'uomo esterno abbassava, e teneva umiliato anche l'interno: se non si vuol dire, che l'uomo interiore produceva in esso ogni esterno avvilimento. Ancorché dotto, e si facesse capo da lui negli affari più spinosi, non solo dall'Italia, ma anche di dai monti, regolando se stesso, non dava passo senza consigliarlo con altri.

"Regolava le cose, così l'Arcidiacono Rainone, con somma umiltà, e non minor prudenza. Essendovi affare, che ammetteva dubbiezza, appuntava subito delle sessioni per regolarsi, e sentire il parere di altri Soggetti, portandosi in maniera, come se capace non fosse di regolarlo da se. Così nelle cose scientifiche, se incontrava dubbio, non si risolveva a deciderlo, se non soggettavalo ad altri; e tante volte anche a persone di mediocre talento. Amando la verità, non era ostinato nelle sue opinioni, né titubava far prevalere l'altrui opinione alla sua, conoscendola più prossima al vero.

 

Abbiamo cosa di vantaggio, che forse tocca il fondo di questa virtù. Non ci è cosa, che tanto ci dispiace, quanto il veder censurare le nostre azioni, e da altri condannate. Alfonso anche in questo si rese singolare. Uomo retto, e giusto si condannava da se medesimo, se urtava in qualche sbaglio. Avvertito, godeva, e restavane tenuto. Così colla medesima sincerità, se censurato era a torto, esponeva con candidezza ciò, che vi era in contrario, né condannava altri per giustificare se stesso.

 

In una sua Opera Morale, mi attesta il Canonico Barba, aver fatto Alfonso, essendo Vescovo, onorata memoria di uno Scrittore non di molta levata. Questi per l'opposto, non contento aver fatta un'ardua censura ad una di lui opinione, con fondamento sostenuta, scrissegli anche lettera piena di temerità, e sommamente indiscreta, chiamandolo anche impostore. Monsignore non solo si ricevé con somma placidezza l'importuna correzione, che anzi neppure con me fecene parola di doglianza, maggiormente che lo Scrittore mi era amico.

 

Anche un Camminante volle tentare l'umiltà, e mansuetudine di Alfonso, ed è gustoso ciò, che li accadde.

Era questi, com'ei diceva, un Protestante convertito, ma non so se tale, o impostore. Avendo ottenuto dal Vicario la solita commendatizia per la Diocesi, disse voler parlare con Monsignore. Entrato, s'introdusse circa le varie opere che


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dato avea alle stampe, e con franchezza non esita rimproverarli specialmente nella Morale, come scandalose, ed insussistenti, alcune opinioni; né mancò trattarlo da sciocco, ed ignorante.

 Non sapeva Alfonso cosa gli accadesse. Con sommissione giustifica i sensi suoi, e con maggior affabilità li diede licenza. Il Canonico Albanese, che eravi presente, maravigliandosi di tanta umiltà, non capisco, disse, come l'avete sofferto; ma Monsignore senza dir parola, se ne sbrigò con un placido sorriso. Non era sciocco; e forse era un qualche Giansenista.

 

D. Giuseppe Remondini, volendo maggiormente accreditare la di lui Morale, pregollo nel Gennaro 1762. volerli favorire il proprio Ritratto, e spedirli il disegno della grandezza di una pagina in foglio. Ancora ride Alfonso per una tal dimanda:
"Pel ritratto, li rispose, non occorre parlarne. Sarebbe un voler svergognare la stessa Opera, che è spirituale, vedendo le genti, che l'Autore si abbia fatto il ritratto in vita. E soggiunse: Quando io sarò morto, del corpo mio allora ne faranno quel che vogliono; ma meglio lo mettessero in qualche letamajo, come merita; ma ora, che son vivo, non vorrei neppure esser nominato. Intanto alle Opere mie vi ho posto il nome mio, per mettere in curiosità le genti di leggerle, altrimenti l'avrei fatte stampare senza il mio nome".

Avendoli fatta premura, istigato dal Remondini, il suo Segretario Verzella: "Finitela, disse Monsignore: non si accrediterebbe, ma si screditerebbe l'opera, col mettersi in faccia questa mummia".

Se si ha il suo ritratto, siamo debitori al servidore Alessio, ed al medesimo Verzella, anche premurato dal Remondini. Essendosi fatto un buco a la porta della stanza,  ove si mangiava, di il Pittore, standosi a tavola, lo guardava, e ritraeva.

 

Anche lo Stemma di Casa sua non volle, che comparso fosse in alcun luogo. Oltre l'impronto in Curia effigiato non si vide né in Chiesa, in Palazzo. I suoi Stemmi da per tutto erano Croci, e Calvarj; e se permise l'impronto in Curia nol fece, che perché così esigeva la necessità.

Avendo avuto D. Ercole l'occasione di comprare in Napoli una ricca veste, ordinò Monsignore, che fatta si fosse pianeta, e tonacelle con ricca guarnigione in oro. Volendosi da Canonici farvi mettere la sua impresa, queste non le ho fatte, disse Alfonso colle rendite di Casa mia. Essendo denaro della Mensa, questa impresa come ci va".

Così non permise mai simil cosa in altri mobili, che fece per la sua Chiesa.

 

Eravi nel tesoro della medesima una pianeta di lama d'oro, lasciata da Monsignor Danza, Alfonso parte col suo, e parte con danaro ritratto dallo spoglio, vi supplì piviale, tonacelle, umerale, velo, e lettorino. In Napoli il Banderajo, avendovi veduto alla pianeta lo Stemma di Monsignor Danza, vi fece il simile da per tutto. Pervenuto in


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S. Agata, e credendo i Canonici un offesa di Monsignore, avendo scucita l'impresa, erano per mandar tutto in Napoli per farvi porre il suo Stemma. Avendolo penetrato Alfonso, "che importa, disse, che siavi l'impresa di Danza? Questo non mi pare, che porti intrigo sull'Altare, o che faccia nullità nel sagrificio". Sul punto volle si fosse di nuovo ricucita.

 

Siccome in se stesso, così Alfonso non voleva nei suoi familiari ombra di prerogativa. In tempo degli altri Vescovi, così D. Giambattista Mustillo, Agente generale del Duca di Maddaloni, niuno ardiva offendere, molestare, o mettere in mano della Corte Locale quantunque ragionevole, qualunque persona, che in qualche maniera relazione avesse col Vescovo, come fittuarj ed altri. In tempo però di Monsignor Liguori non si avevano questi rispetti, aborrendo egli qualunque ostentazione. Attesta bensì, che non mancava caritativamente ajutare chiunque ritrovavasi in mano della Corte Locale o per debiti, o per altri accidenti.

 

In comprova di sua somma umiltà, non voglio omettere un atto, che singolare mi sembra.

Essendo egli Fondatore della Congregazione, e Superiore Generale, giustizia voleva, che con libertà ne' suoi bisogni servito si fosse di qualunque Soggetto; ma non fu così. Destinato avevali il P. Villani per coadjuvarlo in S. Agata il P. D. Angelo Majone. Rincrescendo a questi il vedersi ivi isolato e ristretto, non soffrivalo, che di mal genio. Volendo il P. Villani spezzarli il tedio, scrisse a Monsignore, che destinato lo aveva per una Missione in Gaeta.

"Questa notizia mi ha molto angustiato, li rescrisse, perché io ho bisogno di un Soggetto capace, che mi ajuti a predicare, e che giornalmente mi consigli in tanti intrighi, e scrupoli, ritrovandomi pieno di angustie da mille parti senza respiro. Così vuole Dio, e così voglio io. Persuaso del tedio, che con esso incontrava il P. Majone, "Procurate, li dice, l'occasione di animarlo, ed ajutare di buona voglia me povero vecchio, malato, e pieno di angustie. Ditegli, che così fa certamente la volontà di Dio, e fa a me una gran carità. Mi piace, perché sta ritirato, edificazione, non s'intriga, e mi ajuta nei consigli, e nelle prediche. Dico di buona voglia, perché se ci sta di mala voglia, è meglio che se ne vada, mentre mi darebbe più angustia, che ajuto".

Il vero si è, che virtù soda ci voleva per godere della dimora con Monsignore.

Il fatto fu, che se ne schermì il Majone, e così schermendosi ogni altro, Alfonso

non ebbe mai persona, che di permanenza sagrificato si fosse a voler dimorare in

S. Agata, né egli ne fece premura.




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