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Cap.65
Umiltà somma di Alfonso, e basso sentire
di se medesimo.
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Disgiunta non essendo
la mansuetudine dallo spirito di umiltà, e che ove domina una, anche l'altra
signoreggia, se fu mirabile in Monsignor Liguori la santa mansuetudine, volendo
unire in se quel mitis et humilis,
che in se vantava Gesù Cristo,
ammirabile fu in lui la santa umiltà; ed altro non vi voleva, che un'idea
troppo bassa di se per amorevolmente abbracciarsi, come fece, i tanti affronti.
Contegno di nobiltà, e
brio cavalleresco, tutto era alieno dal suo cuore. Disingannato del mondo,
qualunque cosa per lui era fumo, e vanità. Dimentico di esser nato Cavaliere,
altro non cercava, che avvilirsi, e nascondersi. Per Alfonso non vi erano gesta
gloriose de' suoi antenati; e se taluno accennato le avesse, ne troncava la
parola.
Avendo io un giorno,
essendosi a tavola in S. Agata, introdotto discorso sopra un famoso duello
fatto da un suo Avo, e forse in età sopra i settant'anni, arrossì, non parlò
più, e rese mutoli anche gli altri.
Encomiando taluni gli
onori, e le cariche, che goduto avea in Mantova, come Governatore di quella
gran Piazza D. Carlo Cavaliere suo Cugino, se ne afflisse, anziché
compiacersene. "Quanto meglio goderei, ei disse, se mi si dicesse, essere
stato un uomo virtuoso, ed aver fatto una morte santa".
Eletto Vescovo, subito
che partì per Roma, come dissi, e fe capo in S. Agata, interdisse
replicatamente alla servitù ogni titolo di eccellenza. Se qualche Diocesano (e
non fu questo un gioco di una volta, o due) trattavalo di eccellenza, egli
facendosi di fuoco, e troncando la parola, "Quest'eccellenza, diceva, non
mi spetta. L'Illustrissimo mi dà la Chiesa, e non l'Eccellenza".
Taluni talvolta, non
volendola dare per vinta, o perché fatto l'uso col Vescovo antecessore,
ripetendo l'eccellenza, egli quasi alterato, quante volte, diceva, ve lo debbo
dire, che non mi spetta quest'Eccellenza. Vedendosi, che da vero si
amareggiava, in seguito si perdé tra Diocesani ogni idea di questo titolo.
Non eravi, come dissi,
per i suoi bisogni personali, cameriere, o servitore che coadjuvato lo avesse.
Mettendosi, o levandosi di letto, non voleva alcuno a servirlo. Da se vestivasi
e spogliavasi: egli rifacevasi il letto, ed egli medesimo medicavasi il
cauterio. Era tra i suoi Monsignor Liguori come ogni altro della sua famiglia.
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Ancorché Vescovo non stimavasi, che come un Sagrestano
della Chiesa di S. Agata. Per grazia di Dio disse un giorno, non ho mai patito
di vanagloria. "Solo una mattina vedendomi incensato sul trono, m'intesi
un so che, che mi piacque. Or vedete, dissi a me stesso, dove il Demonio mi si
fa a tentare".
Uscendo di casa, non
pretendeva corteggio di Canonici, o di altre persone di riguardo, ma
contantavasi di un Prete chiunque fosse. Incontrandolo un giorno un forestiere
occhialista, vedendolo vecchio, e male in arnese, e non conoscendolo, "Si
Reverendo, li disse, se volete un'occhiale, ne ho de' buoni". Essendoseli
detto ch'era Monsignore, il poveretto se ne fuggì col capo chino, e confuso.
Tante volte non aveva
ribrezzo avviarsi solo fuori di Casa. Un giorno avendo terminata la Visita,
chiamò il Sagrestano (era questi un Laico) e solo con quello, spaccando la piazza,
portavasi al Monistero del Redentore. Restò stupito ognuno a tal veduta, e
persone vi furono, che avvisarono in fretta chiunque de' Canonici. Correndo
questi al Monistero, Monsignore non finiva di maravigliarsi di tanta
sollecitudine. Sapendosi il suo fare, non una, ma più volte, si alterarono i
Canonici con i familiari, che essendo per uscire di Casa, non erano prevenuti
con i soliti tocchi della campana. Ma questo appunto è quello, che non voleva
Alfonso.
Calando in Chiesa per
la Visita al Sagramento, o per altra privata divozione, facevalo anche solo.
Tante volte prevenendo l'ora, e ritrovando chiusa la porta interiore,
pazientava senza darsene pena, l'arrivo del Sagrestano. In Chiesa, portandosi
da privato, non ammetteva cossini sopra l'inginocchiatojo. Se si ritrovava con
esso il servidore, conoscendo il suo genio, era pronto a levarli.
Uscendo in carozza, non
permetteva, che il Secretario, o altro Prete posto si fosse dalla parte de'
cavalli. La dritta, conversando con altri, non prendevala che nei casi
indispensabili. In Napoli davala anche al suo Vicario. Dispiaceva a quello il
soverchio, ma ceder doveva per ubbidire, e non contristarlo.
Aria di comando in
Monsignor Liguori non ci fu mai. Quel signoreggiare nel Clero, esecrato in S.
Pietro, eragli in estremo abbominio. Anche col più infimo de' servidori
vedevasi Alfonso umile, e dimesso.
I termini, che aveva in
bocca non erano con questi, che fatemi la
carità, vi prego della tal cosa, abbiate pazienza, vi fidate di far questo,
né se l'intese mai uscita di bocca parola, che indicasse comando, o
superiorità. Maggiormente usava questi termini con persone addette alla Chiesa.
Non ci fu caso, mi
attesta il Parroco D. Pasquale Bartolino, che servito si fosse in tutto il
tempo, che stiede in Diocesi, dell'opera di qualche Sacerdote ne' suoi bisogni,
anche stando cionco a letto.
Trovandomi un giorno
nella sua stanza, mi disse il medesimo, non osò - 347 -
dirmi prendetemi quel calamajo; ma fatto segno col
campanello, chiama il Fratello Laico, e da quello sel fe porgere.
Anche se per disimpegno
di cosa annessa al carattere comandava qualche Sacerdote, no 'l faceva, che con
termini di preghiera. Ritrovandosi in Arienzo dando gli Esercizj alle Monache,
il cennato Bartolino, ed essendo restate soddisfatte le Monache, pregarono
Monsignore volercelo dare per altri due giorni.
Standosi a tavola, disse a D. Pasquale: "Vedete che dicono le Monache: Vi
vorrebbero per altri due giorni. Avendoli risposto, V. S. ha panno, e forbice
nelle mani, comandate che ubbidisco. "E' vero disse Alfonso, ma il
Superiore dev'essere discreto". Se poi ritrovava resistenza in cosa, che
pretender poteva, e ricordavasi di esser Vescovo, mutando tuono, nol faceva,
benché in termini forti, ma sempre umili, e decenti.
Sommo rispetto aveva
per tutt'i Sacerdoti. Aria, e disprezzo, diceva
Monsignore, non accresce nel Vescovo
l'autorità, anzi la diminuisce. Chiunque fosse de' Sudditi, egli dava da
sedere. Parlando, e trattando con questi, nol faceva che con termini di
venerazione. Non altrimenti trattavali per lettere. Scrivendo ai Vicarj
Foranei, e Parrochi trattavali d'illustrissimi. Anche con i colpevoli,
chiamandoli in giudizio, non servivasi di termini autorevoli, ma sempre con
umiltà, e sommessione.
Dava Alfonso, e non voleva, e soddisfatto restava nella sua indigenza.
Sommo rispetto, come
dissi, aveva ancora, e somma venerazione per ogni Regolare. Ancorché Vescovo,
trattando coi rispettivi Superiori, dichiaravasi quasi suddito.
In Arienzo, essendosi
portato nel Convento de' Cappuccini il giorno di S. Antonio, ed avendovi inteso
concorso di popolo, vedendo il Guardiano, con sommissione gli disse: "P.
Guardiano, se vi contentate, vorrei dire quattro parole". Restò confuso in vista di tanta umiltà così
il Guardiano, che chiunque eravi presente.
Colla medesima sommissione oprava con ogni altro Superiore, volendo far cosa
nella propria Chiesa. Così portavasi, volendo far qualche funzione non solita
del proprio Ministero, coi Parrochi, e maggiormente coi Canonici, o nella
Cattedrale, o nelle Collegiate.
Godeva, come Padre
comune, vedersi corteggiato da' suoi figli nobili, o ignobili che fossero.
Anche a' Chierici non permetteva, che stessero in piede. Quest'istessi venendo
da lui da' rispettivi luoghi, ammettevali a tavola venendo di mattina. L'essere
invitato dal Superiore a pranzo con esso, non era in Alfonso un favore
particolare. Praticava questo con tutt'i Sacerdoti, che benché sudditi andavano
a visitarlo. Così ogni Secolare alquanto civile capitando dalla Diocesi.
Nemico del bacio della mano, non presentavala anche a' Chierici, se da questi
non si dimostrava volercela baciare, e no 'l faceva, che con ritegno. Anche coi
più rozzi villani, colla gente più misera e meschina, non eravi autorità - 348 -
in Monsignore; anzi con
questi godeva trattenersi, informarsi de' loro traffichi, e farsi carico de'
loro bisogni.
Due Vescovi Cavalieri,
mi disse il P. D. Gennaro Fatigati, ho conosciuto in vita mia, Monsignor
Borgia, e Monsignor Liguori, che godono colla gente bassa, e colle persone più
meschine, trattandoci con dimestichezza, e senz'aria di superiorità, o di
nobiltà.
Ma non è questa, benché
lodevole, tutta l'umiltà di Monsignore. Egli non era umile per metà; ma
coll'uomo esterno abbassava, e teneva umiliato anche l'interno: se non si vuol
dire, che l'uomo interiore produceva in esso ogni esterno avvilimento. Ancorché
dotto, e si facesse capo da lui negli affari più spinosi, non solo dall'Italia,
ma anche di là dai monti, regolando se stesso, non dava passo senza consigliarlo
con altri.
"Regolava le cose,
così l'Arcidiacono Rainone, con somma umiltà, e non minor prudenza. Essendovi
affare, che ammetteva dubbiezza, appuntava subito delle sessioni per regolarsi,
e sentire il parere di altri Soggetti, portandosi in maniera, come se capace
non fosse di regolarlo da se. Così nelle cose scientifiche, se incontrava
dubbio, non si risolveva a deciderlo, se non soggettavalo ad altri; e tante
volte anche a persone di mediocre talento. Amando la verità, non era ostinato
nelle sue opinioni, né titubava far prevalere l'altrui opinione alla sua,
conoscendola più prossima al vero.
Abbiamo cosa di
vantaggio, che forse tocca il fondo di questa virtù. Non ci è cosa, che tanto
ci dispiace, quanto il veder censurare le nostre azioni, e da altri condannate.
Alfonso anche in questo si rese singolare. Uomo retto, e giusto si condannava
da se medesimo, se urtava in qualche sbaglio. Avvertito, godeva, e restavane
tenuto. Così colla medesima sincerità, se censurato era a torto, esponeva con
candidezza ciò, che vi era in contrario, né condannava altri per giustificare
se stesso.
In una sua Opera
Morale, mi attesta il Canonico Barba, aver fatto Alfonso, essendo Vescovo,
onorata memoria di uno Scrittore non di molta levata. Questi per l'opposto, non
contento aver fatta un'ardua censura ad una di lui opinione, con fondamento
sostenuta, scrissegli anche lettera piena di temerità, e sommamente indiscreta,
chiamandolo anche impostore. Monsignore non solo si ricevé con somma placidezza
l'importuna correzione, che anzi neppure con me fecene parola di doglianza,
maggiormente che lo Scrittore mi era amico.
Anche un Camminante
volle tentare l'umiltà, e mansuetudine di Alfonso, ed è gustoso ciò, che li
accadde.
Era questi, com'ei
diceva, un Protestante convertito, ma non so se tale, o impostore. Avendo
ottenuto dal Vicario la solita commendatizia per la Diocesi, disse voler
parlare con Monsignore. Entrato, s'introdusse circa le varie opere che - 349 -
dato avea alle stampe, e
con franchezza non esita rimproverarli specialmente nella Morale, come
scandalose, ed insussistenti, alcune opinioni; né mancò trattarlo da sciocco,
ed ignorante.
Non sapeva Alfonso cosa gli accadesse. Con
sommissione giustifica i sensi suoi, e con maggior affabilità li diede licenza.
Il Canonico Albanese, che eravi presente, maravigliandosi di tanta umiltà, non
capisco, disse, come l'avete sofferto; ma Monsignore senza dir parola, se ne
sbrigò con un placido sorriso. Non era sciocco; e forse era un qualche
Giansenista.
D. Giuseppe Remondini,
volendo maggiormente accreditare la di lui Morale, pregollo nel Gennaro 1762.
volerli favorire il proprio Ritratto, e spedirli il disegno della grandezza di
una pagina in foglio. Ancora ride Alfonso per una tal dimanda:
"Pel ritratto, li rispose, non occorre parlarne. Sarebbe un voler
svergognare la stessa Opera, che è spirituale, vedendo le genti, che l'Autore
si abbia fatto il ritratto in vita. E soggiunse: Quando io sarò morto, del
corpo mio allora ne faranno quel che vogliono; ma meglio lo mettessero in
qualche letamajo, come merita; ma ora, che son vivo, non vorrei neppure esser
nominato. Intanto alle Opere mie vi ho posto il nome mio, per mettere in
curiosità le genti di leggerle, altrimenti l'avrei fatte stampare senza il mio
nome".
Avendoli fatta premura,
istigato dal Remondini, il suo Segretario Verzella: "Finitela, disse
Monsignore: non si accrediterebbe, ma si screditerebbe l'opera, col mettersi in
faccia questa mummia".
Se si ha il suo
ritratto, siamo debitori al servidore Alessio, ed al medesimo Verzella, anche
premurato dal Remondini. Essendosi fatto un buco a la porta della stanza, ove si mangiava, di là il Pittore, standosi a
tavola, lo guardava, e ritraeva.
Anche lo Stemma di Casa
sua non volle, che comparso fosse in alcun luogo. Oltre l'impronto in Curia
effigiato non si vide né in Chiesa, nè in Palazzo. I suoi Stemmi da per tutto
erano Croci, e Calvarj; e se permise l'impronto in Curia nol fece, che perché
così esigeva la necessità.
Avendo avuto D. Ercole
l'occasione di comprare in Napoli una ricca veste, ordinò Monsignore, che fatta
si fosse pianeta, e tonacelle con ricca guarnigione in oro. Volendosi da
Canonici farvi mettere la sua impresa, queste non le ho fatte, disse Alfonso
colle rendite di Casa mia. Essendo denaro della Mensa, questa impresa come ci
va".
Così non permise mai
simil cosa in altri mobili, che fece per la sua Chiesa.
Eravi nel tesoro della
medesima una pianeta di lama d'oro, lasciata da Monsignor Danza, Alfonso parte
col suo, e parte con danaro ritratto dallo spoglio, vi supplì piviale,
tonacelle, umerale, velo, e lettorino. In Napoli il Banderajo, avendovi veduto
alla pianeta lo Stemma di Monsignor Danza, vi fece il simile da per tutto.
Pervenuto in - 350 -
S.
Agata, e credendo i Canonici un offesa di Monsignore, avendo scucita l'impresa,
erano per mandar tutto in Napoli per farvi porre il suo Stemma. Avendolo
penetrato Alfonso, "che importa, disse, che siavi l'impresa di Danza?
Questo non mi pare, che porti intrigo sull'Altare, o che faccia nullità nel
sagrificio". Sul punto volle si fosse di nuovo ricucita.
Siccome in se stesso,
così Alfonso non voleva nei suoi familiari ombra di prerogativa. In tempo degli
altri Vescovi, così D. Giambattista Mustillo, Agente generale del Duca di
Maddaloni, niuno ardiva offendere, molestare, o mettere in mano della Corte
Locale quantunque ragionevole, qualunque persona, che in qualche maniera
relazione avesse col Vescovo, come fittuarj ed altri. In tempo però di
Monsignor Liguori non si avevano questi rispetti, aborrendo egli qualunque
ostentazione. Attesta bensì, che non mancava caritativamente ajutare chiunque
ritrovavasi in mano della Corte Locale o per debiti, o per altri accidenti.
In comprova di sua
somma umiltà, non voglio omettere un atto, che singolare mi sembra.
Essendo egli Fondatore
della Congregazione, e Superiore Generale, giustizia voleva, che con libertà
ne' suoi bisogni servito si fosse di qualunque Soggetto; ma non fu così.
Destinato avevali il P. Villani per coadjuvarlo in S. Agata il P. D. Angelo
Majone. Rincrescendo a questi il vedersi ivi isolato e ristretto, non
soffrivalo, che di mal genio. Volendo il P. Villani spezzarli il tedio, scrisse
a Monsignore, che destinato lo aveva per una Missione in Gaeta.
"Questa notizia mi
ha molto angustiato, li rescrisse, perché io ho bisogno di un Soggetto capace,
che mi ajuti a predicare, e che giornalmente mi consigli in tanti intrighi, e
scrupoli, ritrovandomi pieno di angustie da mille parti senza respiro. Così
vuole Dio, e così voglio io. Persuaso del tedio, che con esso incontrava il P.
Majone, "Procurate, li dice, l'occasione di animarlo, ed ajutare di buona
voglia me povero vecchio, malato, e pieno di angustie. Ditegli, che così fa
certamente la volontà di Dio, e fa a me una gran carità. Mi piace, perché sta
ritirato, dà edificazione, non s'intriga, e mi ajuta nei consigli, e nelle
prediche. Dico di buona voglia, perché se ci sta di mala voglia, è meglio che
se ne vada, mentre mi darebbe più angustia, che ajuto".
Il vero si è, che virtù soda ci voleva per godere
della dimora con Monsignore.
Il
fatto fu, che se ne schermì il Majone, e così schermendosi ogni altro, Alfonso
non
ebbe mai persona, che di permanenza sagrificato si fosse a voler dimorare in
S.
Agata, né egli ne fece premura.
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