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Cap. 67
Tenerezza di Alfonso verso gl'infermi, e carcerati, e
sua sollecitudine per ogni altro afflitto.
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Non aveva solo in
veduta Monsignore i nudi, e famelici, ma ebbe a cuore, e sommamente a cuore
anche le persone inferme, e travagliate. Quel rimprovero minacciato da Gesù
Cristo nel Vangelo ai duri di cuore, facendoli peso, anche per quanto poteva,
soddisfar non mancava a questi doveri.
Informato, che qualche
poveretto penava in letto, e non aveva come accorrere a proprj bisogni, non
lasciava provvederlo di vitto, e medicamenti, e mandarli danaro per olio, e
legna, e per ogni altro bisognevole; anche, così portando il bisogno, di dolci,
e confetture.
Non contento sollevar
questi poveretti nella loro indigenza, visitavali di persona. Suonate le ore
ventitré, come dissi, alzando mano al tavolino, suo sollievo era portarsi per
le case; e se persone vi erano gravemente inferme, visitarle, e consolarle. In
questo non eravi eccezione di persone.
Chiunque, ancorché
fosse la feccia del popolo, veniva consolato; e non avviavasi, per ordinario,
che accompagnato o dal solo servidore, o al più con qualche Prete. Soprattutto
vedevasi sollecito se sentiva qualche infermo in istato di morte, e comunicato
per Viatico. Posponendo ogni cosa, portavasi tutto carità per disporlo a ben
morire; nè partivane contento, se rassegnato non vedevalo al volere di Dio.
Ritrovandosi infermo
nella propria casa il servidore Alessio, più volte non mancò visitarlo, e
consolarlo. Una tra le altre lasciò docati quattro alla di lui moglie per
quello necessitasse. Vedendosi disperato da medici, spiegossi, compatendo la
povertà di quella, volerle dare in vita la medesima mesata, che dava al marito.
Vedendosi il male di
taluni non curabile in Diocesi, egli adopravasi, che, con suo interesse,
portato si fosse negli Ospedali di Napoli. Non sono pochi questi tali. Tante
volte non avendo come coadjuvarli, facendo capo dagli Amministratori delle
Cappelle, cercava per quelli delle limosine.
Avendoli rappresentato
la madre Raffaele fondatrice del nuovo Monistero del Redentore in S. Agata,
stando egli in Arienzo, il travaglio di un poveretto, non curato da Medici, e
vedendosi in strettezze, "Dite alla madre Raffaele, scrisse al Canonico
Albanese, che - 359 -
procuri
anch'ella qualche cosa dalle Cappelle, che lo di più, per mandarlo in Napoli,
ce lo metterò io".
Cosa non vi fu, che
tanto inculcasse ai Parrochi, quanto l'assistenza agl'Infermi, massime se
poveri, e negletti. Scorgendo svogliatezza, o che trascurati si sentisse in
somministrarli loro i Sacramenti, perdeva Alfonso la sua inalterabile
mansuetudine, e tutto zelo vedevasi riprenderli, e minacciarli.
Essendo lunga
l'infermità, voleva che da Confessori, e Parrochi si animassero gli ammalati a
frequentar la Comunione. Il Viatico, era suo sentimento, che ripetuto si fosse,
secondo le circostanze, e non voleva che l'estrema Unzione si dasse, essendo
l'infermo ridotto all'ultimo, ma avendo i sensi, e che capito avesse la virtù
di un tanto Sacramento.
Se ammirabile rendevasi
quest'opera nei primi tempi del Vescovado, maggior senso faceva, dopo che
stroppio ei si vide, e ruinato. Questo sembrerebbe incredibile, se oculata
testimonianza nol facesse, di un atto così singolare, l'intera Terra di Arienzo.
"Nel mio ritorno da Sicilia, così mi scrisse da Avigliano il Sacerdote D.
Gaetano Mancusi, cioè nell'anno 1773. restai sorpreso da certi atti di carità,
specialmente verso gli ammalati.
Contava Monsignore gli
anni settantasette, infermo anch'esso, e storpio, e se non altro aggravato dal
peso della vecchiaja, pur soleva girare il Paese, e visitare gli ammalati.
Veder un Vecchio convulso, col capo chino, anzi col mento puntellato sul petto,
tutto tremante, che per montare, e smontare di carrozza, aveva bisogno non solo
delle mie braccia, ma di quelle del servidore Alessio, entrar nelle case, e
visitare i più miserabili, quest'atto, dico, mi sorprendeva. Io l'ho sempre
stimato un atto eroico, né poteva guardarlo senza attirarmi delle
lagrime".
Un giorno avendoli
detto, così siegue il medesimo Mancusi, V. S. Illustrissima è nella necessità
di esser visitato, e di fatti è visitato ogni giorno da due Medici, e vuole con
sì grave incomodo visitare gl'Infermi.
La risposta fu questa:
"Che gran carità sarebbe la mia, se
non mi sforzassi in sentir qualche pena per vantaggio del prossimo.
L'obbligazione del Vescovo oh quanto è più stretta di ogni Cristiano, e
dell'Ecclesiastico istesso. Il Pastore, soggiunse, se vuole ben custodire il
suo gregge, non deve dimenticare le infermicce, anzi ne deve avere una cura più
grande, perché in quello stato il bisogno, che hanno, è maggiore".
"Queste visite non
erano sterili, così prosiegue il medesimo Mancusi, nè finivano colla
compassione. La veduta di un Pastore cadente, e così appassionato, era più che
predica per tutti. Egli rendevale utili con ferventi discorsi: animava gli
ammalati alla pazienza, e nel prendere la malattia dalle mani di Dio, in
isconto de' proprj peccati: disponevali - 360 -
a ricevere i Sagramenti, invogliavali verso Maria Santissima, dando loro
qualche immagine. Facevasi carico della povertà, e lasciava ancora qualche
caritativo sussidio. Nel poco tempo, che io stiedi in Arienzo, tre volte girai
con lui il paese, facendo queste visite".
Vedevasi soprattutto
sollecito, come attestò il Vicario Rubino, ove sentisse qualche infermo
imbrogliato di coscienza, o che taluno sortito avesse qualche sinistro
accidente. Anche se trovavasi a tavola, era capace spezzar il boccone, e
portarsi di persona per coadjuvarlo, e disporlo ad una buona confessione.
Curioso è quello li
accadde con un infermo. E' situato l'Episcopio in Arienzo rimpetto alla
Collegiata. Sentendo Alfonso un giorno uscir il Viatico, e chiedendo chi era
per comunicarsi, se li disse esser Peccatore.
In sentir questo si raccapriccia, e si disturba, credendolo perché chiamato tale, famoso nell'iniquità. Chiama,
e vuol sapere, che segni avesse dato per degnarlo del Viatico. Nominasi così,
disse il Canonico D. Ambrosio, ma è buon uomo. Non resta persuaso Monsignore.
Stroppio qual'era si strascina alla casa dell'infermo. Esamina il di lui stato,
e trovollo uomo dabbene, che anche frequentato aveva i Sacramenti. Respirò in
sentir questo, l'animò maggiormente alla rassegnazione, esibisce se stesso per
qualunque bisogno, e benedicendolo, tutto contento fe ritorno a palazzo.
Sentendo ferito a morte
un giovanetto villano, portossi subito a visitarlo, lo confortò, e disposelo a
perdonare l'inimico. Sopravvivendo molti giorni, giornalmente visitavalo,
mandando anche il vitto non solo per quello, ma per tutta la famiglia.
Morto che fu, indusse
la madre, ch'era vedova, a voler fare la remissione all'uccisore. Compiacendosi
di quest'atto di carità, assegnò alla medesima anche un tanto il mese.
Una figlia però, o sia
sorella del morto, ostinata far non volle la remissione. Volendola Monsignore
guadagnare, dopo la morte del fratello, fu a trovarla in casa la prima, e
seconda volta. Vedendola dura, con suo sommo rammarico, non considerolla più.
Anzi l'ultima volta a terrore degli altri, la maledisse in nome di Dio.
Se per tutti vedevasi
sollecito, maggiormente affannavasi sentendo grave qualche Ecclesiastico,
specialmente se verde nell'età, e trascurato. Per questi tali, ei diceva, vi
vuole una speciale grazia di Dio per compungerli, e renderli uniformati. Se per
ogni altro correva, e non curava le sue applicazioni, vedendosi qualche Prete
in braccio alla morte, non trovava pace, se, replicatamente visitandolo, nol
coadjavava, e non vedevalo compunto, e rassegnato.
Non mancava Iddio anche
in queste visite autenticare con prodigj, e con spessi presagi la santità di
Alfonso. Stando infermo D. Gio. Maria Puoti, Fratello di Monsignor Puoti
Arcivescovo di Amalfi, visitandolo - 361 -
Alfonso, prima che entrato fosse dall'infermo, li disse tutta lieta D. Anna
di lui moglie, che D. Giuseppe Vairo, e D. Francesco Dolce, medici primarj già
venuti da Napoli, assicurato avevano l'infermo, e tra breve vederlo sano. Dio lo volesse, rispose Monsignore. Compiango voi, la povera Madre, ed i
fratelli, che tanto si amano; e soggiunse: So che Monsignore non avrà cuore dir la Messa nella sua stanza, e
comunicarlo, ma io dò licenza a D. Antonino che ce la dica. (Era questi il
Secretario).
Tutti, vedendosi l'infermo in buono stato, se ne burlarono dell'annuncio di
morte. L'evento però non fu così. Il giorno susseguente, avendo mutato aspetto
il male, fuori della comune aspettativa D. Gio. Maria fu all'altro Mondo.
Stando inferma la
moglie di D. Lelio Romano, chiamata D. Ortenzia, visitandola Monsignore, se li
fecero incontro li domestici, pregandolo volerla raccomandare a Dio. Non era
grave il male. Alfonso, vedendosi insistere, disse, è morta. Pregato dal medesimo D. Lelio per la salute della moglie,
egli, animandolo ad uniformarsi col volere di Dio, soggiunse di nuovo: è morta; e morta si vide contro
l'aspettativa de' medici a capo di due giorni.
In Caserta ritrovandosi
gravemente infermo Monsignor Albertini, e portandovisi a visitarlo, ritrovò,
che i medici Vivienzo, Sarago, e Dolce lo avean dato fuori di pericolo.
Alfonso avendo orato avanti un immagine di Maria Sanissima, disse a' Medici, Non occorre affaticarvi: Monsignore è morto;
ed entrando all'infermo, Monsignore,
gli disse, non vi lusingate colla fiducia
de' Medici. Se Iddio vi chiama, non vorreste aver ricevuti i Sacramenti? Sì
caro Amico, rispose l'Albertini, e sollecito chiese il Viatico, e l'Estrema
Unzione. Nel medesimo tempo Alfonso disse la Messa pel di lui felice passaggio.
Ebbe a male la Duchessa
di Cimitile sua Cognata sì cattivo pronostico, e maggiormente se ne beffarono i
Medici. A momento però peggiorò l'infermo, e la notte seguente si vide passato
all'altra vita.
Ritornato in Arienzo,
ed incontrandosi, entrando in Chiesa il dì susseguente, con D. Nicolò Pisani,
allora Governadore, come dissi, in S. Agata, ora Viceduca in Maddaloni,
richiesto da questi, che notizia vi era di Monsignor Albertini, passa meglio,
disse, come poco prima mi ha scritto D. Andrea Peruto, e che stamattina i
Medici lo hanno ristorato con un torlo di ovo. Avendo predicato, e rivolgendosi
al popolo in fine della predica, pregate
Iddio lor disse, che Monsignor di Caserta già sta nell'agonia.
Come disse, così fu.
Vale a dire, che se Alfonso non faceva premura per li Sacramenti, o non li
avrebbe ricevuti, o non essendo in sensi, che trapazzatamente se li sarebbero
somministrati - dalla p -
.
Tutto l'opposto
sperimentossi in persona del Signor Biagio Troisi. Vedevasi questi già spedito
da medici, ed avevasi per morto. Le genti di casa fecero sentire al Segretario
D. Felice Verzella di far presente a Monsignore lo stato dell'infermo. Eragli
ben noto il Troisi, e nelle occorrenze favorivalo di varie somme d'imprestito.
Sentendolo in sì cattivo stato, se n'afflisse. La medesima mattina non mancò
dir Messa per l'infermo; ed avendo presa una figurina di Maria Santissima, ce
la mandò, con dire, che raccomandato si fosse alla Madonna, sicuro di ottenerne
la salute. Ricevendo l'infermo la figurina, in che baciolla, si vide subito migliorato,
e tale, che fu fuori di letto a capo di pochi giorni.
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Nommeno degl'Infermi,
erano anche oggetto della di lui compassione i ristretti nelle Carceri. Rubando
il tempo, vedevasi di volta in volta a visitarli, confortavali coi suoi detti,
ed animavali alla pazienza. Se poveretti, non mancava sollevarli con limosine.
Ogni Sabbato specialmente somministrar faceva a tutti grana cinque per
ciascheduno.
Attesta il Sacerdote D. Michele d'Apruzzo, che stando in Arienzo, anche di là
mandavali ogni Sabbato la data somma, per somministrarsi ai carcerati in S.
Agata. Essendoseli riferito, che i carcerati giocavansi il denaro, egli, per
toglier loro l'occasione del giuoco, volle n'avesse comprato pane, e ce
l'avesse distribuito.
Se taluni erano arrestati
per debiti, interponevasi coi creditori, e tante volte ci rifondeva del suo.
Stando in Napoli, fu a ritrovarlo una donna di Durazzano, di nascita non
ordinaria. Piangeva la poveretta, avendo il marito nelle carceri di S. Maria
d'Agnone, andando debitore alla Corte, come Postiere del Lotto, in docati
trenta. Monsignore non potendo da tanto, scrisse subito in S. Agata per un
caritativo soccorso agli Amministratori delle Cappelle. N'ebbe ducati dodeci;
ed avendoci posto altri diciotto del suo, consolò quella poveretta, e diede il
padre ai figli.
Un anno avendo aperta
la visita in Arienzo, spiegando al popolo, nell'atto del sermone, il proprio
cuore in voler sollevar tutti, disse che se a tutti non soddisfaceva, non era
mancanza di amore, ma effetto della povertà, che anche esso sperimentava.
Sentendo questo un certo Mastro Marzio Petrillo, voltandosi al Sacerdote D.
Lorenzo Ruggiero, allegramente disse, che abbiamo trovato il nostro prefetto,
intendendo della congregazione, che, per ischerzo, dicesi di San Miserino.
Monsignore, avendo saputo lo scherzo, se ne compiacque. Avendoseli
rappresentato, dopo qualche tempo, che Marzio stava carcerato per debiti, e che
la famiglia penava per la fame, memore della facezia, bisogna ajutarlo, disse,
quest'è nostro confratello. Pagò ducati dodeci che andava in debito, e perché
povero e carico di debiti, assegnolli carlini dieci ogni mese.
Ritrovandosi carcerato
in Arienzo, da circa tre mesi, un povero miserabile di S. Maria a Vico,
chiamato Domenico Carchia, per una impostura di controbando di salenitro; e
ritrovavasi anche infermo, essendo ricorso a Monsignore, scrisse subito a' 23.
Febraro 1769. al Signor D. Carlo Pavone Regio Amministratore del nitro nella
Torre dell'Annunciata:
"Prego V. S.
Illustrissima a volersi degnare farlo scarcerare, giacché si muore di fame,
vivendo di pura limosina, né possiede cosa veruna. Sono sicuro, che voglia a
mio riguardo far questa grazia al povero, che ho l'onore raccomandargli, e non
farlo morire innocentemente - 363 -
in un carcere. "D. Carlo mio fatemi questa carità, che io non mancherò
raccomandarvi al Signore".
Avendo richiesto per
sua cautela il Signor Pavone la fede del Medico, Monsignore inviandocela li
rescrisse a 12. di Marzo:
"L'acchiudo la
chiesta fede, e spero alla sua efficacia, che voglia veder in risposta
scarcerato il miserabile vecchio infermo. D. Carlo mio, creda, che carità più
grande non può fare. Io l'ajuto colla limosina per il mantenimento, ma al
disagio non posso rimediare, onde spero, che voglia V. S. Illustrissima darmi
la consolazione di vederlo fuori, e non sentirlo morto in un penoso carcere,
privo pure degli ajuti spirituali".
Anche per delitti non
mancava implorare la clemenza de' Baroni, e de' Giudici. Essendo stato colto
dalla squadra di Campagna Francesco Jadevaja, con un armatura non permessa,
venne arrestato, e portato nelle carceri di quel Tribunale. Facendo compassione
a Monsignore così il giovine ritenuto, che il vecchio padre, scrisse subito a
D. Giambattista Mostillo, Agente del Duca di Maddaloni, che in suo nome
interposto si fosse presso il Commissario. Così scrisse ancora a D. Domenico
Cervo, Luogotenente nella Città di S. Agata, ed ottenne quanto voleva.
Sapendosi il gran
credito in cui era presso chiunque, non solo imploravasi da proprj Diocesani la
di lui protezione nei Tribunali, e presso chiunque, ma ricorrevasi da luoghi
anche lontani. Era per togliere l'anzidetto D. Carlo Pavone l'appaldo del nitro
di Salerno ad un certo Marco Bergamo, credendo essersi approfittato del nitro,
per non aver soddisfatta l'intera somma, per cui erasi obbligato.
Essendo ricorso da Monsignore, "Io l'assicuro, scrisse al Signor Pavone a'
27. Aprile 1765. che questi è un uomo onesto; e se mai ha mancato alla dovuta
contribuzione di detto nitro, è stato per mancanza di quei, che tiene applicati
al lavoro. Prego istantemente V. S. Illustrissima a volerli confirmare detto
affitto, ed usargli tutta quella carità, di cui è fornito il suo buon animo.
Quanto farà a questo mio raccomandato, glie ne resterò io perpetuamente
tenuto".
Taluni sono pietosi, ma
non tali, se si veggono intaccati nella propria pelle. Alfonso non così.
Mancava a vista
d'occhio la provista delle mela, che avevansi in casa. Non sapevasi dar pace
come ciò fosse il Servitore Alessio, avendo con se la chiave del camerino. Un
Canonico, entrato in sospetto di una persona, unito col servidore, e col
cursore, essendosi portato in quella casa, ritrova le mela, ed anche un ferro,
che mancava.
Fattone inteso il
Governatore, fu arrestato il ladro. Allegro il Canonico, ed il servitore ne
fanno inteso Monsignore, e credevano aver la mancia. Alfonso in sentir
carcerato il ladro, si disturba, e sgrida il servidore per il passo già dato: Come, disse, - 364 -
per quattro
mela mandar carcerato un poveretto. Andate ora dal Governatore e fatelo ora
scarcerare, che le mela ve le compro io.
Le mela sono vostre, rispose il servidore; ed Alfonso: Su via quietatevi, e fate, che mo si scarceri quel poveretto.
Tra questo mentre entra
il Vicario, e così questo, come altri Gentiluomini, facendoli petto, li dissero
essere espediente, che il ladro si mortificasse, anche per esempio degli altri.
Per prudenza dovette cedere; ma nel punto istesso scrisse al Governatore, che
non avesse rubricata carta, e che se li rimandasse il ferro, che era l'ingenere
del delitto. Ordinò, se li desse da mangiare mattina, e sera: egli regalò i
soldati, e soddisfece il carceriere; ed uscito il ladro il dì susseguente, lo
volle in Palazzo, l'ammonisce, e li dà una pingue limosina.
Altro travaglio
soffriva Alfonso per questi afflitti, che maggiormente li martoriavano lo
spirito. Le carceri in Arienzo sono per lo più sempre piene di varj ritenuti,
depositandovi il Tribunale di Campagna anche i suoi. Vedendosi questi privi
della Messa, e compiangendo egli il loro stato, come privi di spirituale
sussidio, tanto adoprossi col Duca di Maddaloni, che eregger vi fece di fianco
alla carcere una Cappella, ma situata in modo, da poter sentir Messa gli
uomini, e le donne. Pietoso il Duca assegnò ancora in perpetuo, a sua
richiesta, ducati sei l'anno per un Sacerdote, che ogni Domenica, portandosi
nelle carceri, predicato vi avesse, e confessato quei disgraziati.
Non aveva poi pace, se
vedeva l'innocenza oppressa, e darsi luogo alla calunnia, o per cose frivole
malmenarsi taluni nelle carceri. Non so per qual imputato delitto, ma falso,
ritrovavasi arrestato nelle carceri di Arienzo un disgraziato Gentiluomo.
Stava in atto il
Governatore formando il processo. Monsignore, avendo rilevata l'innocenza,
mandò pregandolo per il suo Segretario, a volersi far carico dell'impostura, e
dar luogo alla giustizia. Il Governatore, avendo fatto appoggio sull'impostura,
se ne offese, e licenziò con mali termini il Segretario.
Avendo capito Monsignore il mistero, sul punto scrisse, e rappresentò quello
che vi era a D. Filippo Caraffa, Conte di Cerreto, e Bajulo del Duca di
Maddaloni. La risposta fu questa, e giova portarla per intiera. "In vista
de' comandi di V. S. Illustrissima per N. N., subito ho scritto a cotesto
Governatore, ordinandogli, che a vista l'avesse scarcerato, e che l'informo da
esso preso, per istigazione di N., subito l'avesse dato alle fiamme: che si
fosse astenuto prender danaro, o altra regalia dal povero disgraziato; nè mai
più avesse ardito alterare in simili informi le deposizioni de' testimonj. Ecco
dunque servita V. S. Illustrissima, cui prego di altri suoi comandi, mentre
raccomandandomi alle sue orazioni, le bacio le mani". Con un colpo Alfonso
sollevò l'oppresso, - 365 -
e
pose sul dovere il Governatore, ed altri ancora, nelle rispettive Terre del
Duca.
In Arienzo, avendo
incontrato i birri, un uomo masticando tabacco, volevano l'avesse cavato di
bocca, per osservare, se era controbando, o no. Tale lo era; ma non potendo sfuggire,
se l'inghiottì. Li birri dopo averlo bastonato, perché corrivi, lo volevano
carcerato, ma il poveretto fuggì, e si pose sopra una Chiesa. Più corrivata la
squadra, lo strappa dalla Chiesa, e lo arresta nelle carceri.
Monsignore, avendo saputo il tutto, senza esserne pregato, chiama il Vicario, e
nell'istante manda il Mastro di Casa dal Commissariato, cercando, se li
restituisse il carcerato, e nell'istesso mentre rivolto al Vicario, Incominciate, disse, a stendere il Cedolone, si tratta d'immunità. Bisogna, che mi vendo
la Mitra.
Tutto ottenne; ma non si quietò, se non vide nella propria stanza l'uomo
uscito di carcere, ed esentato da ogni pena.
Una povera Donna di
Arienzo, chiamata Grazia Costanzo, essendo stata ritrovata con un mezzo rotolo
di polvere, voluta controbando, fu subito ristretta nelle carceri.
Affliggendosi Monsignore, ne scrisse subito in Napoli al Marchese Granito,
Commissario di tale Arrendimento, ed in risposta fu ordinato al Governatore di
Maddaloni, che si fosse scarcerata.
Avendo Monsignore come
propria caratteristica di chi è Vescovo, l'esser misericordioso con tutti, non
eravi afflitto, qualunque fosse, che ricorrendo da lui, non venisse sollevato.
Essendo stato intinto
di omicidio un Mansionario della Cattedrale, si dovette carcerare. Non reggendo
le pruove, fu liberato; ma non potendosi chiarire se aveva influito, o no,
restò sospeso. Era questo poverissimo. Affliggendosi Alfonso del suo stato,
s'interpone, e coi termini i più sommessi prega i Mansionarj puntatori, che se
li abbonasse per metà la sua mancanza in Coro. Quello, che fate a questo poveretto, lor disse, lo fate a me. A suo riguardo
rilasciossela per intiero. Non sono da credersi quali, e quanti fossero i suoi
ringraziamenti.
Affliggendosi sempre più del di lui stato, tiene più conferenze, e cerca
consiglio da persone illuminate, se potevalo o no abilitare alla Messa.
"In vederlo, mi dà pena, ei diceva: è poveretto, e non ha come
vivere". Con sua relazione avendolo mandato a Roma, ed a sue spese, neanche
Roma, essendo inviluppato il caso, volle abilitarlo. Disperato il caso, non
mancò soccorrere la famiglia con un fisso assegnamento.
Troppo vasto è il mare
di queste opere. "Sembrava, che Iddio, mi scrisse l'Arcidiacono Rainone,
destinato avesse Monsignor Liguori per sollievo de' popoli, e per consolazione
di tutti gli afflitti. Qualunque fosse il bisogno, o pubblico, o privato, esso
non mancava interporsi con Ministri supremi, con Magnati, ed anche col medesimo
Sovrano - 366 -
per sollevare
chiunque, molto più se oppresso; e quanto chiedeva, tanto, per la somma
venerazione in cui era presso tutti, otteneva con ammirazione di ognuno".
Sorprende quello, che ottenne a tre soldati, che,
quantunque rei, furono degni della sua, e dell'altrui misericordia.
Disertandosi cinque Albanesi al Ponte della Maddalena, ebbero anche la temerità
impugnare le armi in faccia all'Uffiziale. Inseguiti, due furono uccisi tra i
monti di Arienzo, e tre rifuggiaronsi in una Chiesetta di campagna.
Formato il processo, fu rimesso a Monsignore, per decretare se godevano asilo,
o no. Non godevano. Monsignore avendo in orrore lordarsi le mani nel sangue di
quei poveretti, fe passare il mese stabilito nel Concordato senza dare il suo
voto, per così far cadere il giudizio al Tribunalmisto. Credeva con questo aver
evitato un atto così crudele.
Venuto da Napoli un Uffiziale, per prendersi il processo, e non vedendo dato il
voto: "Monsignore, li disse, la vostra pietà ha pregiudicato, e non ha
giovato ai rei. Ora che deve votare il Tribunalmisto, non possono evitare di
passar per le armi".
A tal proposta sviene Alfonso, e perde il suo sereno. Sul punto manda in fretta
per D. Francesco Dupuì Uffiziale del Reggimento di Aversa, che stava col
Picchetto in Arienzo, e cerca consiglio come ajutarsi quei disgraziati. Solo la
vostra mediazione può sollevarli, disse il Dupuì, e non altro.
Nell'istante, alle quattro della notte, spedisce un Corriero, ed in grazia
cerca la vita di que' miserabili al Principe Jaci Capitan Generale, ai Marchesi
Tanucci, e de Marco, e a D. Antonio del Rio Segretario di Guerra. Si spiega,
che se non era degnato della grazia, cionco qual'era, portato si sarebbe a'
piedi del Re; e soggiunse: Se non sono
assicurato della vita di questi poveretti, si mette a ripentaglio anche la mia.
Non solo ebbero la vita, ma ebbero l'intiera grazia; e dal Colonnello furono
rimessi i tre soldati con un Uffiziale a ringraziare Monsignore per la vita
ricevuta. Alfonso in vederli, fe festa: diede loro una lauta mensa: li ammonì
del proprio dovere; e rescrisse di ringraziamento ai consaputi Signori.
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