- 374 -
Cap. 70
Fermezza di Alfonso per non veder pregiudicati ne'
Successori i diritti della Mensa, e sua sollecitudine per vantaggiarne i fondi.
- 374 -
Ancorché così alieno
fosse Alfonso da qualunque interesse, non era tale però, ove anche in menoma
cosa pregiudicati vedesse i diritti della Mensa. In questo era egli
occulatissimo, e non era per cedere cosa alcuna.
- 375 -
Vedendo presentarsi
nella Vigilia di Natale, giunto in S. Agata, quattro capponi per ciascheduno da
Parrochi, e Beneficiati, come anche da Monasteri, credendoli spontanea regalia,
non volle riceverli. Saputo il rifiuto, portossi subito da lui l'Arcidiacono
Rainone, facendoli presente, con documenti alla mano, non esser quella una
spontanea regalia, ma capo di rendita spettante alla Mensa, e rifiutandoli,
pregiudicava i successori. Non solo li ammise, ma li volle in seguito.
Volendone fare un capitale, appaltò subito un polliere, per averne in danaro il
valsente. Quest'è un piatto per li
poveri, e non per noi, graziosamente dir soleva ai suoi, che non siamo galantuomini.
Un giorno D. Pasquale
Diodati, Parroco di Bucciano, non so, li disse, d'onde rilevasi questo tributo
de' capponi: così dicendo dava ad intendere, che poca voglia aveva di
mandarceli. Questo sta notato,
rispose Monsignore, ed io non posso
pregiudicare i miei Successori. Non sarebbe meglio, ripigliò D. Pasquale,
che dal Parroco se ne facesse limosina. Monsignore capendo il mistero, disse, La limosina la fò io. Il meglio che potete
fare si è, mandatemi i tarì, e tenetevi i Capponi.
Gli Arcipreti, e
Parrochi, i Capi de' Collegj, e Superiori de' Monasteri, prestando ubbidienza
il giorno di Maria Assunta, portar dovevano al Vescovo in signum subjectionis, un regalo di presciutti, caciocavalli, e
polli, ed il Vescovo, in quel giorno doveva loro dar tavola. Gli antecessori,
avendo tolto il pranzo, tassato avevano in danaro, ma eccedente il regalo,
questa forzosa regalia, poco curandosi, se loro prestavasi, o no la dovuta
ubbidienza. Alfonso, informato del netto, volle l'ubbidienza, e non il denaro,
ma perché esorbitante il tassato, volle che ad arbitrio prestato si fosse da
ognuno una discreta regalia.
In tutti i Venerdì di
Marzo eran soliti i PP. Domenicani di S. Maria a Vico mandare al Vescovo un
regalo di pesci, ed a quindeci di Agosto rotola quindeci di vitella. Avendo
Alfonso negato a quel Priore la facoltà di ricevere le Confessioni, anche
questi negolli le solite prestazioni. Alfonso diligenziando l'Archivio era per
incamminarsi, ma non fecene più parola non trovando ragione per la Mensa.
Sono tenuti per ogni fuoco i naturali di Bagnoli mandare ogni anno una gallina
al Vescovo. Monsignore non sapendo come, e perché una tale prestazione,
rilasciavala specialmente ai poveretti. Tant'è
togliere, ei diceva, una gallina ad
una poveretta, quanto strapparle una costata.
Ove poi l'interesse era
certo, e non ad arbitrio, sosteneva egli il diritto della Mensa. Essendo
cascata una certa quantità di pietre, ed arena in una masseria della medesima,
e preintendendo che i Santagatesi volevano farsi padroni così dell'arena, come
del monte, scrisse subito, ma con calore al Signor D. Francesco Mustillo,
Luogotenente del Duca di Maddaloni, - 376 -
volersi degnare far emanare i bandi, acciò nessuno ardisse intromettersi
senza sua espressa licenza.
Essendosi in Napoli
proibite le decime, che non fece per sostenerne il pagamento. Comparve ne' Regj
Tribunali, difendendo i diritti suoi e de' Parrochi. Sgridò quei Parrochi, che
in questo vedevansi lenti, e facevali carichi del giuramento, che dato avevano
di sostenere li jussi della Chiesa. Minacciò la sua indignazione se, per non
interessarsi, eran lenti a difenderli. Ottenne, se non altro, che continuate si
fossero, specialmente in S. Maria a Vico, durante la fabbrica della Chiesa
Parrocchiale da esso intrapresa.
Richiesto dall'Economo
della Mensa l'Arciprete di Durazzano delle tomole quindeci di grano, che come
quarta ab antico spettavano a Vescovo, disse, non esser tenuto, essendosi
inibito a coloni da quel Governatore il pagamento delle decime.
"Mi meraviglio, così Alfonso a 26. Agosto 1773. come V. S. può scordarsi
dell'obbligo suo, avendo dato in giuramento di difendere li jussi della sua
Chiesa. Sarà forse per non spendervi qualche carlino, o per isfuggire di pagare
la quarta alla Mensa; ma ella è obbligata, quando non le riesce esiger colle
buone, fare, come ha fatto l'Arciprete di Frasso, che si ha spedite le
provvisioni, ed esige la decima, perché io in ogni conto voglio mi si paghi la
quarta, che mi è dovuta".
Essendosegli riferito,
aver impedito l'Eletto di Arienzo, con pregiudizio della Mensa, che si
pagassero le solite decime ai Parrochi, egli a 28. di Agosto 1773. scrisse
subito a quei Parrochi, che solleciti si portassero in Napoli, e procurate si
avessero le provvisioni nel Sacro Regio Consiglio; e soggiunse "Se
l'Eletto, o altri impediranno esigerle, resterà a carico mio farle pagare. Io
in coscienza sono tenuto difendere li jussi della Mensa, e facciano sentire,
che quando la pretenzione è giusta, sono inteso dalla Corte".
Non avendo voluto
l'Arciprete di Durazzano né ajutarsi in Napoli, né dare le tomola quindeci di
grano alla Mensa, Alfonso si vide in obbligo nel 1774. attaccarlo in Benevento
presso il Metropolitano. Restò indeciso il giudizio, avendo egli rinunciato il
Vescovado. Tuttavolta, avendo a cuore il dritto della Mensa, non mancò farne
carico Monsignor Rossi, quando giunse in S. Agata, delle ragioni, che l'assistevano.
"L'Arciprete ha
fatto dichiarare non esser debitore alla Mensa, così a 27. Giugno 1779. ma
appurandosi i fatti, senza dubbio è tenuto. Io avevali preso le giuste misure
nella Curia di Benevento, ma avendo fatto la rinuncia del Vescovado, non ho
potuto far chiarire le ragioni. La somma importa da trenta ducati l'anno, e non
è ragione lasciarne defraudata la povera Mensa".
Essendo stata caricata
più del solito dai Reggimentarj di S. Agata - 377 -
la Mensa Vescovile per la colletta catastale,
Alfonso se ne risentì. Non essendone sgravato, ricorrette in Regia Camera.
Furono così patenti le sue ragioni, e si ebbe tal rispetto per lui, che non si
deferì punto da quei Ministri, a favore dell'Università". Ciò che si
toglie a Monsignor Liguori, si disse, si toglie ai poveri".
Questi erano passi
violenti per Alfonso, e non davali, che astretto dalla necessità. Era egli
inimicissimo di litigi, e se venne a questo coll'anzidetto Arciprete non fu,
che perché quello era duro, ed egli vedevasi tenuto in coscienza. "Oh
quante cose Monsignore superò con altri, mi scrisse l'Arcidiacono Rainone,
colle belle maniere, e collo spirito di Gesù Cristo. Insorgendo difficoltà litigiosa, è meglio, soleva egli dire, un male accomodo, che un buon litigio".
Anche coll'Arciprete
suddetto, che non fece per ridurlo colle buone? Avendoli scritto volersi
abboccare per componere amichevolmente le cose, né rispose, né vi andiede.
Alfonso con umiltà, tra l'altro li rescrisse: "Non si trova qui la carrozza,
che ve l'avrei mandata, onde prego a venire. Non essendosi l'Arciprete dato
per inteso, se si incamminò col Metropolitano, nol fece, che spinto dallo
scrupolo, e dalla dura necessità.
Controversia era
insorta tra Monsignore, ed il Duca di Maddaloni per l'erbaggio, e bagliva di
Bagnoli, già feudo della Mensa. Erano due anni, che impedito venivali il
possesso. Si oppose Alfonso con petto apostolico.
"Io sono
obbligato, così a 30. Ottobre 1765., a D. Andrea Mustillo Agente del Duca, difendere
le robe della Mensa, che come Baronessa possiede l'uno, e l'altro jus, cioè del
pascolo, e della bagliva, e prego V. S. Illustrissima voler avvisare gli
Officiali del Duca a non far violenza, perché io in ciò non posso cedere senza
ragione chiara. Essendo io obbligato in coscienza difendere il jus della Mensa,
se vedo violenza, ricorrerò subito alla Reggenza, e spero non farmi far
torto".
In un'altra de' 13.
Gennaro 1766. "Io se potessi accomodarmi la coscienza sopra quest'intrigo,
cederei, e non ne parlerei più. Dio sa qual'orrore mi dà il litigare: al
sentire solamente il nome di lite tremo. Ma come vogli fare, se mi trovo sopra
il giuramento di mantenere li jussi della Chiesa". Anche fece capo al
Conte di Cerreto, Ajo del Duchino, morto il padre. Io mi sento afflitto, così
a' 14. di Gennaro dell'anno susseguente, dallo scrupolo di coscienza, che mi
rimorde, che se non fosse per tale scrupolo, io forse non ne parlerei più per
non rendermi importuno con V. E".
Colla fortezza unì
ancora Alfonso la prudenza. Avendo il Conte della somma venerazione per esso.
Alfonso volendo sopraffarlo in gentilezza, rimise le sue ragioni ad uno degli
Avvocati del medesimo Duca. Soddisfatto di tanta polizia il Conte, scrisse al
suo Agente - 377 -
D. Andrea
Mustillo, che si osservasse il solito, e si rimborsasse a Monsignore anche
l'attrasso.
Cosa bella era poi in
varj rincontri vedersi combatter in Monsignore l'interesse col disinteresse, o
sia la giustizia con la carità. Taluni avendo attrassato con mendicati pretesti
varj censi, che spettavano alla Mensa, egli non mancò astringerli con replicate
provvisioni o del Consiglio, o della Vicaria. Assodato il pagamento, vedendo
che erano poveretti, e che cercavano pietà, non solo rilasciava l'attrasso, ma
rimborsava loro la spesa già fatta. Non premeva l'interesse suo, ma quello de'
successori.
Vedevasi in attrasso
colla Mensa un Gentiluomo, ma povero, e carico di figli, circa ducati dodeci di
censo. Vedendosi stretto dall'Economo, raccomandossi alla vedova D. Caterina
Lucca, gentildonna, come dissi, confidente di Alfonso, ma avanzata di età, e
timorata di Dio. Avendoli questa esposto lo stato del Gentiluomo, volentieri
rilasciolli i ducati dodeci; e riflettendo alla strettezza in cui vivea, che
vogliamo assegnarli, disse; ed assegnolli un mezzetto di grano ogni mese. Ogni
anno però voleva, per non attrassarsi il dritto, che dall'Economo astretto si
fosse a pagar il canone; ma avendo il denaro nelle mani, rilasciavacelo per
limosina. Così salvava il dritto della Mensa a' Successori, e soddisfar soleva
a quello della carità, come proprio interesse.
Quanto Alfonso era
ritenuto nel voler profittare per se, altrettanto vedevasi sollecito per
vantaggiare a successori i corpi della Mensa. Ne' primi tempi, che giunse in S.
Agata, vedendo che questa godeva molti poderi, sollecito si vide, che non
scapitassero. Ove mancavano le olive, voleva si riponessero; ogni anno supplir
faceva viti, olmi, e pioppi già secchi; ed essendovi spazio non curato, voleva
se ne aumentasse il numero. Vedendosi lesionato, come dissi, un quarto
dell'Episcopio, chiamò subito da Napoli i due soliti Architetti, e non vi
spese, volendo riparare un maggior danno, che da seicento, e più ducati. Anche
rinforzò il travamento del salone, avendo inteso, che pativa.
Essendo lesionata una
Casa della Mensa, che censuata tenevasi da un certo Stasi, e non curando quello
riattarla, insisteva Monsignore, che peggiorando, perdevasi dalla Mensa l'annuo
censo. "Io sto collo scrupolo, scrisse al Primicerio Petti, e più presto
voglio spenderci io quello, che bisogna per rifare la casa, che abbassar il
censo, né voglio per questo restar inquieto.
Non solo premevali che i fondi non deteriorassero, ma
anche cercava che si rendessero più vantaggiosi. Conoscendo esser in voga l'industria
della seta in S. Agata, e che ricercava questa molta fronda di mori, volle che
di questi si moltiplicassero gli arbori, e cercò parere - 379 -
se più rendevano i mori bianchi, o i neri. Vedendo
sfornito di arbori il giardino adjacente all'Episcopio, in che vi giunse, come
dissi, vi fe piantare quantità di agrumi.
|