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P. Antonio Maria Tannoia
Della Vita ed Istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori...

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  • Libro 3
    • Cap.71 Povertà somma, ed estrema miseria in cui visse Alfonso.
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Cap.71

Povertà somma, ed estrema miseria in cui visse Alfonso.

 


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Siccome il fasto interno porta con se il fasto esterno: così il basso sentire di se medesimo non va esente dall'esteriore avvilimento. Le virtù sono tali, che una non va disgiunta dall'altra. Alfonso, che proposto si aveva Cristo nudo, e disprezzato, se invitar lo volle nel disprezzo, non mancò ancora nell'indigenza delle cose. Comodi della vita, come altrove ho ridetto, aggi, e qualunque comparsa esteriore, tutto da esso fu abborrito.

 

Il suo vestire povero, ed estremamente dimesso. Assunto al Vescovado, a riserba della sola veste pavonazza, del di più non si avvalse, che del vecchio spoglio del fu Monsignor Danza; e questa veste pavonazza fu tutto il suo mobile in tutti i dodeci anni, che fu Vescovo in S. Agata.

Toltene le vesti prelatizie, che in Chiesa per necessità usar doveva, tenendo i Ponteficali, in ogni altro tempo non avvalevasi, che della Tonaca di sua Congregazione, quanto umile, e povera, altrettanto per esso amata, e gradita. Questa era la veste con cui compariva Monsignore, e con questa il Vescovo di S. Agata faceva in ogni tempo la sua comparsa. Anche questa non era duplicata. Tanto aveva di vestimenta, dice il Vicario Rubbini, quanto portava indosso, ma vecchie, e rattuppate, cosicché dovendosele riaccomodare, non aveva con che cambiarsi.
 Essendo stato a visitarlo D. Giambattista Puoti, ed avendolo trovato vestito di paonazzo, credendo, che dovesse uscire: che siete di funzione, li domandò: No, rispose Monsignore, mi sto rattuppando la sottana. Vale a dire, che non aveva altra di saja, per potersela cambiare.

 

Passando una volta per il Convento de' PP. Domenicani in Durazzano, il P. Maestro Eanti, vedendolo con una zimarra tutta lacera, e rattuppata, e la sottana anche lacera nei gomiti, se ne dolse, vedendolo così meschino. Candidamente si scusò Monsignore, che avendo incombensato in Napoli per quattro pezze alla Giudea, e non avendole ricevute, doveva pazientare così.

 

Era così malridotta una tonaca che aveva, che facevasi vergogna lo stesso Laico che l'assisteva. Non avendo il coraggio di dircelo, una notte, mentre che dormiva, fe tagliare una nuova sulla vecchia. La mattina, essendo andato per ajutarlo nel mettersi la sottana, non potendo al solito da se per un cauterio, che se li era aperto al braccio, li pose


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la nuova in vece della vecchia. Monsignore non se ne avvide, ma guardandosi le braccia, si accorse che erano nuove: , li disse, ci avete fatte le maniche nuove? Sì, rispose il Fratello, perché erano troppo lacere.
Non parlò Monsignore; ma essendosi accorto tra poco altro tempo, che non era la vecchia, Signornò, disse, alzando con tuono la voce, la sottana è tutta nuova. Così è, rispose il Laico, perché con quella era vergogna, e non si poteva comparire.
Non importa, ripigliò Monsignore, ma con tuono autorevole, va, e prendi la sottana vecchia. Se non volete questa, disse il Laico, contentatevi di starne senza sottana, perché la vecchia si è data a' poveri. In sentir questo videsi amareggiato Monsignore: Voi, li disse, ma tutto rammaricato, volete far sempre di capo vostro: vedendo, che non ci era più riparo, zittì e non disse più parola.

 

Le vesti interiori, attesta il Vicario Rubini, erano ancora di panno ruvido, e con bottonacci del medesimo panno. Li calzoni di està erano di tela ordinaria tinta nera. Attesta Mastro Antonio Viscardi, che essendoli dato a ripezzare un pajo di questi calzoni, non sapeva ove metterci l'ago, e che non convenivano ad un pezzente. Le camice erano di tela ordinaria, e comune.

Ancorché ammalato e vecchio, così il Parroco D. Tommaso Aceti, non vestiva che camicia di tela di canape, e pendevali dal collo per Rosario una corona di legno, tal quale usasi dai poveri, che girano mendicando.

La moglie del servitore Alessio, che lavar soleva le biancherie di Monsignore, si lagnava spesso col P. Telesca, che non poteva più lavare le camicie, essendo tanto logore, che più non fidavasi metter pezze e punti, e che lavandole restavano i pezzi tra le mani; e che per ciò voleva se li dicesse di farsene quattro nuove.
Ci andai, mi disse il detto Padre, e pigliando giusta l'occasione in vedere fuori nel collare della camicia alcuni stracci, gli dissi che si avesse fatto fare delle nuove, perchè erano troppo lacere: egli sorridendo mi disse: ad un Vescovo vecchio, convengono robe vecchie: eh che io debbo pensare a vestire i poveri.

Avendo incontrato per strada il nostro P. D. Angelo Gaudino, andando in Arienzo, un uomo di campagna, questi li disse cose mirabili di Monsignore. Tra l'altro, che, andando in Visita, cavalcava un somaro; e che talvolta andava così lacero di camicia, che anche se li vedevano le catenette, che portava cinte al fianco.

 

Le calze erano di lana alla grossa, e così compariva in tutta la Diocesi: solo ne' Ponteficali servivali a stento di quelle di fioretto, rigettando sempre le calze di seta.
 Le uniche scarpe, che se li fecero, eletto Vescovo, quelle tenne per anni tredici fino alla rinuncia: con quelle fe ritorno in Nocera, e delle medesime fece uso fino alla morte. Il bastone, che per puro sostegno usava, non era canna d'India, ma semplice legno de' nostri boschi, con un pomo di cocco, che al più costava


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grana venti. Il fiocco, benché di semplice seta, che sul principio se li comprò, erasi reso così lacero, e pieno di nodi, che faceva vergogna. D. Gio: Manco, non potendo soffrire tanta povertà, cambiandolo, vi ci pose una semplice fettuccia. Accorgendosene Monsignore, si disturbò: che cosa è questa fettuccia? disse: ed essendoseli risposto, avercela posta il Sacerdote D. Gio: Manco, Altri, disse, non poteva essere, e nol soffrì che con rincrescimento.

Faceva uso dell'orologio, e cel comandò in Roma il P. Villani, per regolarsi nelle ore, ma tutta la spesa non fu, che scudi sedici.

 

Il letto, come dissi, non era, che un misero pagliaccio, non più largo di palmi tre in quattro. Non fece uso di scanni di ferro, ma di legno, ed alla rozza. Ancorché se li fosse detto, che questi erano soggetti ai pimici, non per questo si diede in dietro: molto meno si avvalse del padiglione in qualunque tempo. Le lenzuola anche erano di telaccia.

Per coperta nell'inverno servivasi di una manta di lana bianca, quelle appunto, che sono comuni a tutti i poveri, ma vecchia, e molto logorata. Incrudelendo la stagione, e patendo di freddo, non permise se li comprasse un'altra, che se li fosse fatta un'imbottita, ma sovrapponeva la cappa, ed anche la zimarra, facendo più freddo. Nell'estate non ci fu né Dommasco, né Portanova, ma lo stesso lenzuolo faceva il suo coprimento.

 

D. Domenico Spoto Ciandro della Cattedrale di Girgento, e più volte Vicario Capitolare, avendolo visitato in Arienzo, così scrisse in Girgenti al P. Blasucci: "Ho ammirato Napoli, ho ammirato la magnificenza di Roma, ma maggior impressione mi ha fatto la vita ammirabile di Monsignor Liguori. Questa ha cancellato in me l'ammirazione di Roma, e di Napoli.

Ho veduto, diceva, un Santo Vescovo de' primi secoli, giacente in letto per le sue croniche infermità, ilare di volto, e di mente sana, sempre applicato ad opere di gloria di Dio, ed al governo di sua Diocesi, parchissimo nel cibo, e povero in tutto, e parchissimo nel sonno, poverissimo a segno, che tenea sopra il suo letticciuolo una zimarra per sopracoverta. Tutto era di vil prezzo, povero, e mendico l'anello pastorale. Una pietra falsa faceva il suo pregio: così la Crocetta era di simil valore".

 

Così in S. Agata, che in Arienzo non fece scelta per se, che della stanza più picciola, con un arcovo senza lume, ove dormiva. Non vi erano sedie di valore, ma le più dozzinali, comuni a tutti i poveri, e non oltrepassavano il costo di grana tredici in quindeci. Essendo andato a visitarlo Monsignor Albertini, Vescovo di Caserta, e mancando le sedie per la Comitiva "che cosa è, Monsignor mio, li disse, con poche altre grana ci avrebbe tutti complimentati.

Il tavolino era di rozzo legno, e vantava l'antichità. Non usava scrivania di argento, di ottone: un misero calamajo di osso, e ben picciolo faceva il suo


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comodo. Anche la carta, e con questa scriveva a chiunque, era ordinaria, e comune, e facevane conto di ogni minuzzolo. Era così portato per lo risparmio, che non perdeva le sopraccarte delle lettere. Di quelle servivasene per le sue composizioni, ed anche facevane uso per le lettere, scrivendo ai nostri. La tabacchiera era quella, che portò di Congregazione, cioè di legno, e di poche grana.

Non vi erano armarj in questa stanza, né aveva che riporci, e la nuda terra li serviva per suo genuflessorio. Tutte le cose di suo uso esser dovevano poverissime, e rozze. Avendo mandato a cercare al P. Villani un Officio del Redentore, questi cel mandò ligato con polizia.

"Ho ricevuto Calmet, rescrissegli, ed anche l'Officio del Redentore, ma legato alla smargiassa. Se noi usassimo, come lui, disse Monsignor Albertini, ammirando tanta povertà, saressimo pigliati a cedrangole: in Monsignor Liguori tutto esige rispetto, venerazione, ed ossequio".

 Due mobili, oltre i libri, facevano ricca la sua stanza, un gran Crocefisso, che li fu donato dal P. D. Stefano Longobardi, Pio Operario, che aveva sempre a vista, ed un quadretto della Madonna del buon Consiglio, che avea sul tavolino.

 

Nuda vedevasi ancora ogni stanza del palazzo. Ricco fu lo spoglio di Monsignor Danza, ma non si approfittò Alfonso di qualunque cosa. Il Palazzo, così attestano tutti, era un vero ritratto della povertà Evangelica. A riserba di pochi letti, ma poveri, ed ordinarj, per quello che poteva accadere, di poche sedie, e di qualche tavolino di pioppo, tutto il dippiù spirava nudità, e miseria. Non vi erano quadri di apparato, ma per ogni dove non si vedevano, che divote Immagini di Gesù - Cristo, e di Maria Santissima, ma in carta, e grandette. Anche nella grada vedevansi Croci, e Calvarj, ed una in Arienzo veniva da esso baciata, sempre che usciva, e ritornava in casa.

 

Anche gli ospiti participar dovevano di questa povertà, Nobili che fossero, non eravi un qualche quartino addobbato per essi. Il miglior mobile, per qualunque personaggio di riguardo, era un letto di vecchio dommalco, residuo di spoglio di Monsignor Danza; questo teneva preparato nella stanza anteriore alla sua, che egli chiamava il letto di rispetto. Tutto il dippiù, come dissi, era dozzinale, e meschino.

 

La famiglia, come dissi, non consisteva, che nel Mastro di Casa, che era Segretario, e Cappellano, un Laico di nostra Congregazione e per ordinario taluno de' nostri Padri, che voleva con se. Questa era la corte alta: la bassa era poi un servitore, il cuoco, ed un guattero, che dal cuoco a patto fatto si voleva. Ammise questo, dice il Vicario Rubbini, non per ostentazione, ma per il puro necessario, che evitar non poteva.

Abborriva anche il nome di cameriere, e lo riprovava ne' Vescovi. Spogliandosi, coricandosi, e levandosi di letto, tutto faceva


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da se: così per ogni altro bisogno: Egli di sera smorzavasi il lume; e se aveva con se il fratello Laico, di questo servivasene per ajuto nello scrivere, e per tener in affetto le poche masserizie, che vi erano in casa.

 

Eletto Vescovo, già dissi, che venne obbligato da Monsignor Borgia, e da Monsignor Volpe, a metter carrozza. Nol fece, che con suo rincrescimento; ma fin da Roma scrisse in questi termini al Fratello D. Ercole: "Per la carrozza, vedete comprarne una, che possa servirmi per uso di carrozza, e di calesso, perché vorrei servirmi del medesimo legno per li viaggi lunghi. Ma con dispiacere del fratello, se ne sbrigò quanto presto per soccorrere i Poveri nella Carestia del 1764. Soleva dire Alfonso, che i treni fastosi, le Corti magnifiche, i sussiegui di familiari, i molti servitori, e le ricche livree se convegono ai secolari, non convengono a i Vescovi. E poi non è un dispetto per i figli, che sono poveri, veder il Padre scialoso, e comodo, ed essi morirne per la fame?

Un giorno essendo stato a visitarlo un Vescovo, ma fastoso, con cipro, e manicotti, e con un seguito straordinario di servitù, Monsignore in vederlo se ne afflisse, no 'l ricevette, che freddamente, e ne dimostrò tal dispiacere, che cel fece conoscere. "Queste, disse a i suoi, sono comparse di secolari, e non di Vescovi".

 

Meno povero non comparve Alfonso nelle insegne Vescovili. La Crocetta giornaliera era di Tobaco indorato; quella delle funzioni, di argento posto in oro, ma ornata di pietre false. Anche l'anello non era di oro, ma di argento indorato, e con pietre false. Il servitore Alessio non potendo soffrire tanta miseria, coll'occasione di far incastrare una pietra, che era caduta, cel fece di oro, ma Egli non se ne avvide.

Una mattina nell'atto, che doveva calare per i Ponteficali, ed eravi presente D. Michele Volpicelli Gentiluomo di Sarno, non si trovava l'anello. Anche D. Michele se ne rammaricava. Si ritrovò, ma a tavola accennando D. Michele il suo dispiacere, Monsignore ne sorrise: A voi, disse, faceva senso la pietra. Quella non è smeraldo, ma una pietra di caraffone. L'anello di mio zio, regalatomi da Monsignor Giannini, lo vendetti per soccorrere tanti pezzenti.

Scherzandosi un giorno da' Familiari sopra la preziosità dell'anello. Questo, disse Monsignore, ha fatto la sua comparsa anche in Roma. Ognuno, che guardavalo, lo considerava una gran cosa, ma io diceva tra di me: Voi non sapete, che ho rotto il meglio caraffone per ornare quest'anello.

 

Era Alfonso così appassionato per la santa povertà, che anche l'ombra dell'oro, o dell'argento lo spaventava.

In Arienzo visitando la stanza del P. Mascia da Napoli, Exprovinciale de' PP. Cappuccini, vi vide una bella pergamena coll'Immagine dell'Ecce Homo. Accortosi il P. Mascia, che sempre che vi andava, baciavala con tenerezza, e vi


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lasciava gli occhi, ce l'offerse. Monsignore la gradì. Era l'immagine contornata con panno Cappuccinesco: Va per levarne l'ornamento, e vedendo, che la cornice di sotto era di argento, con destrezza la ricusò. Fece capire, che rilasciavala, per non privarlo di quella divozione, ma per la strada disse a D. Felice Verzella: l'Immagine è bella assai, ma vi stava quella cornice di argento.

 

Povertà, come dissi, se vedevasi nella Mensa, rispetto alla quantità, maggiore lo era riguardo alla qualità. Sotto pretesto di maggior utilità alla salute, non voleva pane di fiore, così per se, che per gli altri, ma servivasi del pane più ordinario, che in Arienzo dicesi terzo pane, carico di crusca, e scarso di fiore.

Tutti i cibi dovevano essere anche comuni, ed ordinarj, ma quelli, che si avevano nel medesimo luogo, ove si trovava. La carne o era di vaccina, ove questa si usava, o di pecora, ove non usavasi la vaccina. Era delitto mandare per carne, vino, o pesce, in altro Paese. Che scandalo non farebbe, diceva Alfonso, se il Popolo vedesse, che Monsignore si procacciasse i bei bocconi.

Stimolato in varie occasioni, vedendosi malridotto a farsi venire qualche merce più confacente al suo stomaco da Napoli, disse: Io mi devo avvalere dei prodotti, che mi la Diocesi: ad un Vescovo non convengono cibi delicati, e forestieri. Anche di quello, che si vendeva in Piazza, voleva il più triviale, e di meno spesa. Avendo comprato una mattina il Mastro di Casa un pesce spinola, Alfonso in vederlo, volle si fosse subito rimandato in dietro: Si ha da dire, disse tutto spaventato, che il Vescovo mangia il miglior pesce!

 

Comune era la tavola, e distinzione non eravi tra esso, e i suoi familiari. Se talvolta essendo indisposto se li preparava cosa particolare, non per altro, che di più facile smaltimento, scottavasi, e ripeteva: Io voglio mangiare quello, che mangiano gli altri, e non voglio particolarità. In questi casi o non mangiavane, o a stento toccavala, ed ognuno li vedeva in faccia il rammarico, che sentiva nel cuore

 

Ogni cosa era peso, e misura, Tutto si leva al povero, soleva dire, quello che si di soperchio in cucina. Povera, e nuda vedevasi la dispensa, non essendoci verun regalo. Tutto riponevasi con danaro, e tante volte riducevasi in tal miseria, che non avendo come provvedersi all'ingrosso, anche giornalmente mandavasi in Piazza per lardo, ed altro bisognevole.

Dico cosa, che stentasi a credere. Vi fu volta, che mancò anche il pane. Ritrovandosi con Monsignore il P. Telesca, venne a dirli il Fratello Laico, che doveva darli una certa limosina assegnata. Rispose, che non aveva un grano. Stiamo freschi, ripigliò il Fratello, non ci è pane, e non come fare. Rimediate disse Monsignore, che Dio provvederà; e dicendo il Padre, vedete trovare un poco di denaro ad imprestito, sentendo questo Monsignore li disse: "Che volete, io sono


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vecchio cadente, e non ho niente: non tengo mobili, che a morte mia potessero servire per pagarsi i debiti: chi mi vuol prestar danaro? Bisogna pregare Iddio, che provegga".

 

Anche capitando Personaggi di riguardo non vedevasi alterata la tavola. Convenivano da lui in S. Agata, o in Arienzo, come dissi, persone rispettabili. Nella venuta di questi Personaggi, se Alfonso aggiunger faceva all'ordinario un altro piatto, stimavalo lautezza. Avanzandosi talvolta il Mastro di Casa per qualche altro piatto, risoluto sentivasi un signornò, e ripetersi: tutto il superfluo, che si a questi, si leva a' poveri, ed io non posso in coscienza.
Vescovi, o altri Signori, che vi fossero, non doveva mancare in tavola la lettura de' libri divoti: "Questi sono gli aromi, diceva Alfonso, che condiscono la tavola del Vescovo, e non già le chiacchiere inutili, e Dio non voglia con danno del terzo.

 

Standosi aspettando Monsignor Puoti, Arcivescovo di Amalfi, per la consecrazione della Cattedrale, Alfonso avendosi chiamato il cuoco, ordinò, che oltre la tavola ordinaria, avesse pensato per altri due piatti. Aveva servito il cuoco altri Prelati, e credeva nella venuta dell'Arcivescovo farsi onore, e banchettarsi.
Sentendo ordinata una mensa non men parca, che triviale, con garbo li rispose: Monsignore, questo mangiare, che mi avete ordinato, lo farò apparecchiare dal guattero.
Tu che ti credi, disse Monsignore, anche in Nocera abbiamo avuto Personaggi di altra soggezione, e non li ho trattato altrimenti.

V. S. Illustrissima poteva darli anche pan cotto, rispose temerariamente il cuoco, e voltandoli le spalle, borbottando si ritirò in cucina.

A questo inaspettato complimento, ora vedete, disse Monsignore, si ha preso collera! , e trova, che teneva in capo. Il Mastro di Casa però in saputa sua fece fare un altro piatto di più. Monsignore vedendolo a tavola, finse; ma dopo li fece una forte caricata. La tavola del Vescovo, disse, non è tavola di Magnati; questo è stato uno scandalo; la povertà non fa ingiuria, ma onora il Vescovo.

 

Essendo andato a visitarlo in Arienzo Monsignor Albertini, Vescovo di Caserta, ordinò tre piatti fuori del solito. Vedendo tanta miseria il Fratello Laico, e sapendo la lautezza, con cui erano stati trattati in Caserta, fe capo da uno de' nostri, per potersi ottenere altra cosa. Il conflitto fu amaro tra il Padre, e Monsignore: Non posso spendere in pranzo, li disse, il danaro, che ho, è de' poveri. Io sono Padre, ed Economo di questi, e non dilapidatore; con qual faccia posso mangiare più pietanze apparecchiate col sangue de' poveri, sapendo, che quelli non hanno pane.
Tanto seppe dire il Padre, che a grazia ottenne un piatto di dolce, ed un'altra cosetta. Il fatto sta, che Monsignore aveva contato minestra, e lesso per due piatti, vedendone un altro di più, se non colla voce, risentissi coll'occhio verso del Laico.
Ma non finì qui la


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facenda. Le Monache in vece d'un piatto dolce, ne mandarono tre. Alfonso in vederli si vide perduto. Permise, che un solo si trinciasse, e volgendosi a Monsignore disse: Quelle povere Monache del Redentore in S. Agata stanno in miseria, bisogna mandarli qualche cosa; ed alla Comitiva soggiunse: Monsignore non ne vuole più, e si contenta far una carità a quelle poverette. E nel punto istesso fe spedire il Corsore per S. Agata.

 

In tavola la biancheria era talmente povera, e dozzinale, che faceva scorno: così i piatti. Non vi erano candelieri, saliere di argento, o porcellana. Supplivasi a' primi coll'ottone, e per le seconde colla creta. Essendo capitato Monsignor Borgia con un altro Prelato, e così facevasi in simili occasioni, per le posate mandava per imprestito in casa de' Signori de Lucca. A capo di tempo insaputa sua si fecero dal Laico, e dal Verzella. Monsignore, non sapendo tanto, ed essendo capitati in Arienzo il Canonico Albanese, e D. Andrea Tiddei, non volendo incomodare di soperchio i Signori de Lucca, disse al Laico, che per le posate si fosse mandato dalle Monache. Così lusingavasi, che avevale ad imprestito, e con questa persuasiva se ne stava nella sua pace.

 

Non voglio omettere, come corona di Alfonso, un altro atto di questa virtù. Egli in tutto il tempo, che fu in Diocesi, non vide mai cosa fosse il denaro. Quanto riscuotevasi dai frutti della Mensa, tutto riponevalo nelle mani del buon fratello Francescantonio, e come bisognava, così da quello si esibiva.

 

Tale fu la povertà di Alfonso, vivendo Vescovo in S. Agata. Monsignor Albertini Vescovo di Caserta, che spesso andava a visitarlo, vedendo la miseria, con cui viveva, la nudità del Palazzo, e la povertà, che praticava in se stesso, non potette non dire: Monsignor Liguori nel giorno del Giudizio ha da confondere noi altri Vescovi.
Pasquale Buonopane, Gentiluomo della Grotta, visitandolo in Arienzo nel 1769. non poté non piangere, vedendo tanta povertà, e miseria, e piangendo ripetevalo a tutti. "Ho veduto l'idea, ei diceva, della povertà, e della vera miseria in Monsignor Liguori. Mendicità nel palazzo, camere affatto nude, altre con sole sedie di paglia di rozzo pioppo, tavolini semplicissimi, un lettino anche povero poverissimo; ed avendo bisogno di moto, vederlo tirato con una fune, per dentro le stanze, dal servitore, sopra un carroccio di misero pioppo, tutto ciò non ha potuto non confondermi, ed attirarmi delle lagrime".




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