- 386 -
Cap. 72
Penitenza di Alfonso, e strazio di sé medesimo.
- 387 -
Non è che Alfonso si
scaricasse innanzi a Dio de' peccato altrui, con vederli castigati nei
colpevoli. Aveva di mira lo zelo di Gesù - Cristo, che caricò se stesso de'
peccati del Mondo, e che come reo soddisfaceva nel proprio corpo, quanto gli
altri eran tenuti alla divina giustizia. Così addossandosi anch'esso i peccati
altrui, castigavali nella propria carne, per meritare ai suoi figli quel
perdono, che essi medesimi meritar non potevano. La vita istessa avrebbe egli
dato per impedire il peccato, o per liberare il suo popolo, vedendo Iddio
irritato, da qualunque castigo. Tal'è il carattere del Divin Redentore, e di
questo non fu esente Alfonso Liguori.
Non lasciò mai
disciplinarsi, e battersi giornalmente fino al sangue, e facevalo così dentro,
che fuori di casa. Testimonj di questa continuata carneficina ne sono stati fin
oggi le mura del suo camerino, e sarebbero tuttavia, se Monsignor Rossi suo
successore non vi avesse fatto replicare più mani di bianco.
Voleva Monsignore, per occultare le sue penitenze, che i suoi calzonetti,
perchè intrisi di sangue, si fossero puliti dal Fratello Laico, e non si
fossero dati alla lavandaja, ma quegli li affidava a D. Caterina Lucca,
gentildonna confidente, e di età avanzata. Attesta questa Signora, e sono sue
le espressioni, che vedevansi così rigati di sangue, come se scorsi vi fossero
tanti rivoli di fontana. Confidò alla medesima lo stesso Fratello Laico, che
Monsignore ogni settimana battevasi due volte a vivo sangue.
Il P. Maestro Gian
Domenico Eanti Lombardo, Priore del Convento di Durazzano, essendo venuto per
l'esame, che doveva tenersi, dormì nella stanza, che dava di fianco a quella di
Monsignore. Sbrigato l'esame una sera, benché tardi, volle partire, pregato a
restarsene, me ne voglio andare, disse, ancorché sia mezza notte, non fidandomi
più sentire la carneficina di questo povero vecchio.
I giorni segnalati però, per maggiormente
crocifiggersi, come giorni per ottenere da Dio sopra di se, e sopra il suo
Popolo, grazie maggiori, erano le vigilie, che precedono le feste di Gesù
Cristo, e quelle della Vergine, o di altri suoi Santi Protettori. In queste
vigilie per ordinario flaggellavasi con varj strumenti, e specialmente di
funicelle armate di stelletti di acciajo ben affilati. Così Monsignore
martorava - 388 -
anche se
stesso ne' giorni di maggior offesa di Dio, come nel Carnovale, o in simili
giornate di stravizzo per il Popolo. Anche a motivo di penitenza non si radeva
mai la barba, ma come dissi, accortavasela esso stesso con una forbice.
Oltre del flaggellarsi,
aveva ancora alla mano altri ordigni, come cardi, cilizj di crino armati di
punte di ferro, crocette anche di punte per le spalle. Le braccia, e le coscie
martoravale con catenette pungenti. Vedevasi, stando seduto, contorcersi e non
trovar sito sulla sedia, e volendosi alzare, stentarci e patirci non poco.
Saressimo al bujo delle particolarità di questi strumenti, se la curiosità di
taluni non ce l'avesse manifestate.
"Io che ho avuto
l'onore di servirlo, e trattarlo con filiale confidenza, così il Canonico
Michella, furtivamente osservai tutto dentro un cassettino, che Monsignore
teneva chiuso con chiave sotto del letto, e tutto mi fece orrore in solo
vederlo".
Non è, che queste
giornaliere penitenze le praticasse Alfonso stando ritirato nel proprio
palazzo. Come dissi, ovunque trovavasi, o in Visita, o per altri affari, non
mancava crocifiggersi, e malmenarsi.
Attesta D. Giuseppe
Razzano, che essendo nella Visita in Durazzano, una sera li disse, vediamoci
dopo la predica. Fu così pronto il Razzani, che entrò nella stanza in atto, che
stavasi cambiando, e quantunque Monsignore fosse stato sollecito in ricoprirsi,
osservò sulle nude carni un cilizio più di un palmo largo, e con quello indosso
aveva tirata la Predica. Questo non era noto al Fratello Francescantonio, né al
servitore Alessio, benché ci stessero oculati; e sentendo tal cosa dal Razzano,
ammirato il Fratello Francescantonio, disse: Voi avete scoverto quello, che io
non ancora aveva osservato.
Minestra, e lesso,
tassò da principio per suo vitto. Questo stabilimento però, se si fissò in
tabella, non passò in cucina. Non mancavano pretesti per privarsi del lesso, e
per lo più contentavasi della minestra, e poche frutta, e talvolta minestra, e
qualche pesciolino. Lavori di pasta, bocconotti saporiti, tutto era interdetto
per esso. Mi attestò il Vicario Rubbini, che per varj anni non si cibò, che una
volta al giorno.
Ci fu tempo, ed anche
di anni, che quasi sempre mangiava di magro. Ridusse a tal miseria il suo
vitto, che a stento tirava la vita. Non potendo il corpo mantenersi con un
vitto così tenue, vedevasi languido, ed abbattuto. Vedendolo i Medici mal
ridotto, attesta il Sacerdote D. Virgilio Cimino, che fu anche suo Segretario,
ordinarono al Fratello Laico, che almeno la sola minestra condita si fosse col
brodo di carne. Così si fece, dandoseli a capire, che fosse colla manteca, e
non colla carne.
Una mattina essendomi
trovato a tavola con lui, mi scrisse il P. Buonopane, altro non prese, che un
poco di pan cotto, ed una braciuola, ma dal Vicario, ed altri commensali si
ebbero due minestre col dippiù - 389 -
altrove divisato.
Era anche giornalmente
attossicato questo stentato vitto da erbe amarissime, come centaura, aloe, e
simili. I suoi avanzi di tavola erano così amari, che rifiutavansi da' gatti,
non che dai poveri. Anche tra 'l giorno non mancava masticarne, per tener
amareggiato il palato; e n'era così provveduto, che, entrandosi nella sua
stanza, sentivasene l'ingrato odore.
Non altrimenti
costumava, ritrovandosi di passaggio in casa di qualche Gentiluomo. Digiuno
mettevasi a tavola, e digiuno alzavasi. Ingannava in modo la comitiva, che
quasi nulla toccava di quello se li presentava, e quel poco, sapevalo con
detrezza anche condire così suoi soliti amaricanti.
Attesta D. Giovanni
Manco, che avendolo avuto in casa sua, per la monacazione di due sorelle, lauto
che fu il pranzo, non restò che digiuno. Ora sminuzzava, e non toccava i
piatti, ed ora spassandosi, e dando de' bocconi a qualche cagnolino; e credendo
non esser veduto, stando una pianta di assenzio sulla loggia, passeggiando se
ne provvide, e ne gustava i bocconi.
Non mangiava, che da
condannato. Salsa, o insipida che fosse quella misera cosa, che spettavali, non
davasi pena. Tutto era ben condito per monsignor Liguori. In tanti anni, che fu
Vescovo non ci fu caso, che lagnato si fosse di cosa mal preparata, e non vi
mancavano degli incidenti.
Una mattina, standosi a
tavola, cercò da bere: il servitore in vece del vino, prese il piretto
dell'aceto: bevette Monsignore senza neppure dimostrare col volto alcun
dispiacere. Contemporaneamente chiese da bere anche il Vicario: non tosto
l'ebbe toccato, che montato in furia si alza, e scarica al servitore un mondo
di male parole. Era aceto, e non vino. Monsignore non finiva di ridere scusando
il servitore.
Un'altra sera, mangiando sul letto, essendo già storpio, li accadde lo stesso.
Era ben forte l'aceto, perché tale si era cercato ad una Gentildonna.
Monsignore bevette, e tacque. Solo la mattina disse al servidore, non mi date
quel vino di jeri sera, perché mi pare acido.
Avendo in mira
Monsignore di piangere i peccati suoi, e quelli del popolo, non eravi cosa,
innocente che fosse, mi disse l'Arcidiacono Rainone, che non facevane
un'offerta al Crocefisso. Gradiva egli le frutta verdi, e ne faceva uso come
medicamento, menando vita sedentaria. Non mancava il fratello D. Ercole
provvederlo delle prime, che uscivano in Napoli; ma Alfonso con disinvoltura ne
faceva regalo alle nuove Monache del Redentore. Così faceva, se mandavansi dal
medesimo pesci preziosi, o avesse dei dolci, ed altre cose di piacere dalle
Monache sue parenti.
In Palazzo interdisse
anche nelle stanze degli altri un qualche uccellino in gabbia; La casa del vescovo, soleva dire, non è casa di piacere, ma di penitenza.
Avevasi procurato il Segretario D. Felice, - 390 -
un Canario. Corrispondeva la stanza alla Cappella, ove Monsignore
celebrava: essendosene accorto dal canto, lo stimò come cosa inconveniente.
Andando a dir Messa, entra nella stanza, come per chiamarlo, e guardando la
gabbia, Questo bisogna levarlo, disse: Voi non sapete che per niente muojono, e
quando muore uno di questi, dà tale afflizione, che crucia il cuore anche per
settimane.
Si sa, che, stando in
Congregazione, soleva talvolta dopo pranzo toccare il cembalo nella stanza
comune, massime se vi erano Chierici, per dar loro il tuono delle sue canzoni.
In questo vi aveva del piacere. Fatto Vescovo ci diede un solenne addio.
In Nocera, prima di
partire per S. Agata, fu richiesto dal Sacerdote D. Giuseppe Messina se
portavasi il cembalo: Oh che scandalo, rispose
Alfonso, il Vescovo suonar il cembalo! si
direbbe che Monsignore in vece di pensare alla Diocesi, se la spassa a suonare.
I divertimenti di chi è Vescovo, sono il dar udienza a tutti, accogliere i
Poveri, e far orazione, non già il cembalo.
Avendo fatto
trasportare in Palazzo il cembalo del Mastro di Cappella del Seminario,
servendo a D. Alessandro Speranza, per mettere in nota la canzone di S.
Giuseppe, ancorché se li vedesse in faccia la propensione, non per questo si
mosse a toccarlo.
Ci fu chi li offerse
alcuni canarj, con un saletto sbrigandosene, disse: Quest'altra passione ci mancava; poi muojono, e dobbiamo affliggerci
anche per questo.
Era Monsignore
delicatissimo di stomaco, ma col continuo esercizio l'accomodò al male, ed al
bene. Ritrovandosi a letto, e standoli a fianco il Canonico d'Ambrosio, venuto
il caffè, si prese la confidenza di ministrarcelo. A tempo essendo caduta una
mosca, il Canonico era per buttare quella porzione di caffè, che posto aveva
nella tazza, Voi che fate, disse Monsignore; e dicendo il Canonico, che eravi
caduta una mosca, non è niente, disse; ed avendola levata esso medesimo colla
punta del dito, fe uso del caffè, senza dimostrarne nausea.
Pativa, e soffriva di
continuo, perché travagliato da varie indisposizioni, ma soffriva tutto
costantemente in ispirito di penitenza; né si vide mai, toltone ciocché se li
ordinava da' Medici, che cercato avesse cosa di suo sollievo.
Vedendolo patire, per
una forte emicrania, il P. Maestro Caputo, disse volergli far l'acqua di S.
Vincenzo Ferreri, confidando che il Santo, o l'avrebbe liberato, o alleviato un
tanto travaglio. Per sì poca cosa,
rispose Monsignore, vogliamo incomodare
S. Vincenzo: dovendosi incomodare: preghiamolo per la salute dell'anima, e per
un buon passaggio all'eternità. Questo che patisco è poco.
Tutto era penitenza in
Monsignore. Prima di soccombere alla sua grave infermità, anche si privava di
dar quattro passi fuori di casa, o di fare per lo meno una passeggiata in
giardino. Toltone il tempo, - 391 -
che calava in Chiesa per la Visita al Venerabile, per predicare, o per
altra funzione Vescovile, tutto il dippiù consumavalo applicato nella propria
stanza.
Come dissi per esso non
vi era conversazione. Tutto è tempo
perduto, diceva Monsignore, quello che non si dà a Dio, e non si consuma in
beneficio del prossimo.
Ancorché vecchio, e quasi decrepito, vedevasi
attento nel mortificare i sensi. Non ci fu curiosità d'occhi, benché innocente,
che avesse appagata. Potrei dire, mi disse il P. Maestro Caputo, che forse non
sapeva se ci era Arienzo, o S. Agata nel Mondo. Era nemico di se stesso, mi
scrisse il P. Raffaele da Ruvo suo confidente, e tutt'odio a qualunque
sollievo. La sua vita mortificata, mi disse il Primicerio Petti, era di
confusione a tutti, e questo solo bastava a riformare ognuno.
Anche ci resta cosa delle penalità di
Monsignore. Un corpo defatigato, e così malmenato, ricercava per lo meno
qualche notturno riposo.
Attesta il Canonico
Michella, che forse erano più le notti, che dormiva sulla terra, di quelle, che
riposava sul letto. Il letto stesso per Alfonso era di per se un martoro. Un
saccone di paglia era tutto il suo mobile, ma così scarso di questa lana
Tunisina, che posava sulle tavole. Egli medesimo raccomodavaselo; nè ci fu
caso, mi disse il Fratello Francescantonio, che avesse smossa la paglia per
tanti anni prima del suo gran travaglio.
Una mattina il
servitore Alessio, dopo aver buttato l'orinale, vedendo sconce le coperte,
diede di piglio per rassettarle. Accorgendosene Monsignore, e non volendo che
la paglia si smuovesse, Che golìo ti è
venuto, li disse, forse io sono
cionco, e sul fatto licenziollo.
Anche nel rigore
dell'inverno, mi dice il medesimo Canonico, così io, che altri familiari
eravamo curiosi accertarci se toccava il letto, o no, e per lo più ritrovavasi
la mattina senza alcun segno di sconciatura.
Curioso è ciò che
accadde col suo Segretario D. Felice Verzella. Una sera verso l'ora tarda
Monsignore fe chiamarlo per volersi confessare. Questi avendo serrato l'uscio
della propria stanza, vi si portò colla chiave nelle mani. Non volendo, posa
nel decorso della confessione, la chiave sul tavolino a fianco di cui sedeva,
ed avendolo soddisfatto, parte, e si dimentica la chiave. Ritornato nella
stanza, entra dal Vicario, che non ancora erasi posto a letto. Portò a lungo il
discorso; ma licenziandosi, si avvede mancarli la chiave. Se rincrescevali
risvegliare Monsignore, non accomodavasi a starne fuori di letto. Avendosi
levate le scarpe, ritorna da Monsignore, rialza pian piano la bussola, e
portasi tentone verso il tavolino.
Credeva aver fatto
tutto; ma essendo nel mezzo della stanza, intoppa, era Monsignore che dormiva a
terra, e boccone li cade di sopra. Resta spaventato Monsignore, vedendosi un
uomo sulla pancia, e più spaventato il Segretario afferra la chiave, - 392 -
e, senza dir parola,
tutto sbigottito n'esce di camera. Era allora Monsignore in età di circa settant'anni.
Così si venne maggiormente in chiaro che la notte per lo più stavane
abbracciato colla terra.
Restò afflitto, vedendosi scoperto. La mattina entrando da lui il Segretario,
tutto arrossito nel volto, D. Felice,
li disse, quando è notte, non andate
girando per le camere degl'altri. Più di questo non disse, ma restò così
confuso, come se grave delitto commesso avesse.
In contesto della
penitenza di Alfonso, non voglio omettere quello, che in succinto anche me ne
attesta il Canonico Rubbino suo Vicario.
"Quanto
Monsignore, ei disse, era pietoso con tutti, altrettanto uopo è dire, era
carnefice con se medesimo. Farebbe orrore se io potessi, e ridir volessi le
particolarità tutte della sua continuata carneficina. Astinenza di vitto, e
troppo amara; flagellazioni giornali, e ripetute a vivo sangue, cilizj, e
catenette di ferro, che di continuo incrocicchiavano il suo corpo, vigilie
notturne, tutto adoprava il servo di Dio per crocefiggere la propria carne. Non
ho mai osservata in lui cosa di sollievo, innocente che fosse. Passioni
interne, e corpo esterno tutto in Monsignore, era oggetto di mortificazione, nè
vi fu tempo in dodeci anni che l'ho servito, che ombra di sollievo avessi in
lui osservato".
Quest'è quel tanto che noi sappiamo della vita penitente
di Monsignor Liguori; e tanto basta per farci vedere a qual segno egli odiava
se stesso.
Ma ripigliamo di nuovo il filo della Storia.
|