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P. Antonio Maria Tannoia
Della Vita ed Istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori...

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  • Libro 3
    • Cap. 75 Grave amarezza di Alfonso, vedendo in maggior travaglio la Congregazione; e sua consolazione pel ritorno de' nostri in Sicilia.
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Cap. 75

Grave amarezza di Alfonso, vedendo in maggior travaglio la Congregazione; e sua consolazione pel ritorno de' nostri in Sicilia.

 


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Tra sì fatte sollecitudini, e consolazioni, che Alfonso sperimentava, vedendo promossa in Diocesi la gloria di Gesù - Cristo, ed il bene delle Anime, esente non era per la sua Congregazione da un continuato batticuore. Troppo bersagliata ei vedevala, e contraddetta: potenti, ed ostinati erano gli avversarj; ed erasi in tempi che generalmente in Napoli, alterate le fantasie, anziché nuove opere stabilirsi, distrutte volevansi le antiche.

La soppressione de' Gesuiti voluta da' Regnanti, ed eseguita dal Papa, se crollar faceva le Comunità non men dal tempo assodate, che dal proprio merito, molto più dava da temere per le nascenti non ancor radicate.

Impazienti i due nostri Contraddittori di più vederci sussistere, vantando vittoria, mezzi non lasciano, per far prefiggere il giorno nella Real Camera per la discussione de' carichi; e tra di tanto fioccar facevansi altri nuovi ricorsi nella Reale Segreteria, che trasmessi nella Real Camera sempre più imponevasele, che discussi si fossero, e resone il Re informato.

Critica per noi, anzi funesta, presagivasi una tal discussione. Acquisti, e volo di denaro in Benevento; Gesuitismo sposato, e dottrina erronea spacciata tra popoli, facevano senso ad ognuno, e tutti per perduti avevane, e spiantati.

 

Facendosi presente Alfonso come in un quadro tutta la catastrofe anch'esso commosso si vide, e scoraggiato. Suole Iddio in mezzo ai travagli dilatare il cuore ai servi suoi, concorrendo colla loro fiducia; e suole talvolta ristringerlo, allontanandosi da essi, e non lasciandoli, che coll'umana prudenza. In questo caso fu Alfonso. Ove prima vedevasi tutto fiducia, non temendo chicchessia, ristrettosegli il cuore, scoraggiato si vide, ed abbattuto. Pensava, vedendo le cose in sì cattivo aspetto, per evitarsi l'intera rovina della Congregazione, che abbandonata si fosse la casa d'Iliceto, e rilasciarsi al Barone il podere della vigna, caricandolo de' pesi.

 

Sin da tre anni addietro inclinavasi dai nostri, ed eranvi mediatori tra noi, ed il Sarnelli, per un pacifico accomodo, cioè per prendersi la vigna, e darci un tanto per le opere pie, che eransi volute dal fratello. Alfonso, non che alieno, volevalo anch'esso.

Solo voleva posto in salvo la coscienza. "Bisogna che io riguardi molte cose, così a 4. Dicembre al P. Majone in Napoli, e specialmente la mia coscienza. Perciò, se mai succede l'aggiustamento, mi ho da consigliare


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di mille cose co' dotti, e co' padri spirituali per restar quieto di coscienza. Vediamo che risponde il Barone, e poi parleremo". Similmente rescrisse al P. D. Mattia Corrado. "Io non ho libertà di far quel che voglio, perché tengo ligate le mani. In caso che si avesse da cedere la vigna al Signor Barone colla corrisponzione delli ducati 400. inclusi li pesi, pure mi avrei d'angustiare colla coscienza, interpretando la volontà di D. Andrea. Se mai s'avesse da fare avrei bisogno di consiglio d'Avvocati, e Teologi, per vedere se posso farlo o no". Facevansi i conti, mancandovi l'oste.

 

Avanzati i dolori tra questo tempo, così a' 18. Dicembre 1774. al P. Villani: "Stiamo in gran tempesta, ei disse, per la causa di Sarnelli. Io ho chiamati qui tutti i Consultori, che possono venire per decidere il punto, perché non voglio esser solo; cioè di abbandonarsi la Casa d'Iliceto, e rilasciarsi, come dissi, la vigna al Barone. Le circostanze sono tali, replico di nuovo, che mi fanno temere della ruina di tutta la Congregazione. Massima certa si è, esser meglio perdere una mano, che rischiare a perdere il tutto. Io fo fare orazione da tutti. Fo dire Messe, e non so più che fare. Si fanno scritti, Celano va informando i Ministri, ma il pericolo è grande, ed imminente. Fate dire al Popolo (ritrovavasi il P. Villani in Missione) un'Ave Maria secondo la vostra intenzione per questo affare prima della predica, e fate fare orazione da Monasteri, e da tutti che potete".

 

Nel medesimo timore, ed angustia vedevansi tutte le Case; né mancavasi rappresentare a Monsignore la comune afflizione. Egli volendoci rincorare, ed animar tutti alla confidenza.

"Portiamoci bene, che Gesù - Cristo ci proteggerà, così in Frosinone al P. D. Francesco de Paola a 3. Ottobre 1774. Questo avvertite sempre, ma se facciamo difetti, Iddio ci abbandonerà. Tratanto in caso di rifugio abbiamo S. Cecilia, e Benevento; volendo dire Scifelli, e S. Angelo a Cupolo.

 Rescrivendo al medesimo a 4. di Febbrajo del susseguente anno 1775. "Iddio, che l'ha fatta (cioè la Congregazione), egli la conserverà: ma se  facciamo difetti, ci mettiamo in pericolo di tornare tutti alle nostre case. Questo pericolo in cui stiamo, predicatelo spesso, ed apertamente a tutti i nostri fratelli, acciocché ognuno stia attento all'osservanza della Regola, ed all'ubbidienza de' Superiori. Stiamo in mano di Dio, ed in continuo pericolo di esser distrutti. Le sole orazioni ci possono salvare; e perciò tremo, quando sento difetti".

 

Non mancando, ma crescendo la tempesta, crebbero anche in Alfonso i suoi palpiti. Così a' 20. Marzo 1775. al P. Villani.


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"Da più giorni non ricevo alcuna notizia da Napoli né di male, né di bene. Temo di qualche altra burrasca, che mi avesse a far perdere la testa, di che sono stato in pericolo ne' giorni passati, ma oggi per grazia di Dio son passato meglio assai. Io per altro sto spaventato dalla vista orrida della distruzione di tutta la Congregazione, e lo spavento mi sta avanti gli occhi.

Non ho scritto niente a nessuno, né voglio operar solo di capo mio. Consigliatela tra di voi, e venga a trovarmi quanto più presto, perché quando la causa è appuntata, allora o dentro, o fuori. Pensatevi. Le cose, ei dice, sono pericolosissime, trattandosi di tutta la Congregazione: e sta come si pigliano, dipendendo dalle apprensioni de' Ministri.

Abbiamo che fare con NN., che stima sua gloria buttar a terra un'opera di queste. Il Marchese Tanucci più spavento di tutti, supposte le circostanze, che sappiamo. Sicché non mi pare cosa lasciarsi la Congregazione in mano del caso con tal pericolo.

Pensatevi, discorretela, e scrivetemi il parere degli altri. Ma fate presto, perché non vorrei, che fra di tanto la causa si appuntasse". Erasi interposto per noi, progettando accomodo, anche il famoso Avvocato D. Paolo Sarnelli parente del Barone. Tutto fu inutile. Il Barone avendo in mano la vittoria, voleva il podere senza saper cosa delle opere pie intestate dal fratello.

Vedendosi da varj Vescovi, e Togati l'innocenza, che assistevaci, e la pertinacia del Sarnelli, specialmente da Monsignor Borgia, da Monsignor Sanseverino, Confessore del Re, e da Monsignor Testa, Cappellano Maggiore, come dal Consigliere Avena, e dal Presidente del Consiglio D. Baltassarre Cito, vollero questi, oltre tanti altri, che le cose lasciate si fossero in mano a Dio.

Pregato Monsignore dai nostri, massime dal P. Villani, vedendosi la Congregazione in pericolograve, voler di persona portarsi a' piedi del Re, sorridendo disse: In vedermi il Re, dirà levatemi d'innanzi questo scarafaggio. Che figura posso far io avanti al Re nello stato che sono? Mettiamoci in mano a Dio, e non fidiamo ai mezzi umani, perché la Congregazione è opera divina, e non umana.

 

Tali furono gli sforzi de' Contraddittori, che per li 24. di Dicembre prefissa nella Real Camera la discussione de' carichi. Siccome quelli non lasciavano pietra da smuovere a nostro danno, così Alfonso mezzo non ometteva presso Dio per meritarci le divine misericordie. Celebrazioni di Messe, orazioni di anime pie, e limosine, tutto pose in opera, evitar volendo, in sì grave tempesta, un tanto temuto naufragio.

Insinuò per le case esposizioni del Venerabile, esattezza nell'osservanza, e dipendenza da' Superiori: così, che in comune 


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recitato si fosse in Chiesa il Salmo Qui habitat, ed un'Ave alla Vergine per li nostri Contraddittori.

 

Altro travaglio vi fu, che non aspettavasi. Stando i nostri sulla difesa, tante volte i colpi eran prima ricevuti, che riparati. Temeva Monsignore, e temevam tutti, non sapendosi come i carichi sarebbonsi per apprendere in quel augusto Tribunale, e temevasi dai Contraddittori sul dubbio che non svanisse in fumo presso quei sanj senatori tutta la trama già ordita.

Maneggi fecero, ed anche ottennero (ma è cosa da non credersi), avendo con se chi spalleggiavali nella Real Segreteria, che sospesa la causa nella Real Camera, il Fiscale Ferdinando di Leo, esso solo, avendo presente le carte tutte altrove fabbricate, e nella Real Camera contro i Missionarj, informato avesse il Re, e dato il suo parere.

Stordita restò Napoli per tal provvidenza. Come, e quanto un tal colpo stimossi per noi fatale non occorre, che lo ridica. Essendo il Fiscale inimico di nuovi Conventi in Regno, e di novelli Istituti anzi malsoffrendo gli antichi, tutti ci ebbero per perduti. Siccome da certe picciole accenzioni, che in aria si veggono, congetturasi la gravezza del tuono, che sarà per scoppiare, così in seguito, da certe buttate parole del Fiscale, si percepì subito quanto sanguinolenta era per succedere a nostro danno la relazione, che far si doveva al Sovrano. Ma di questo a suo luogo nel libro quarto.

 

Ancorché si vedesse la Congregazione in pericoloimminente di esser distrutta, Alfonso siccome coi mezzi divini non ometteva gli umani, così voleva, che dai nostri impegni non si prendessero in Napoli, che non fossero secondo Dio.

Pregato per una sua lettera ad una Dama, che signoreggiava sullo Spirito del Fiscale, entrato in dubbio di offesa di Dio, questo nol farò mai, scrisse al P. Majone: si distrugga piuttosto la Congregazione, e motivo non diasi anche all'ombra di qualche peccato.

Per le case, come dissi, altro non inculcava, che orazione, penitenza, ed osservanza : "Questo solo, ripeteva, e somma confidenza in Gesù - Cristo, ed in Maria Santissima possono ajutarci, e meritarci le divine misericordie. Sono necessarj i mezzi umani, così anch'esso, ma lo scudo della protezione di Dio è il mezzo più potente a poterci difendere dai colpi nemici. Viviamo sicuri, di questa protezione, se non ce la demeritiamo coi nostri difetti".

 

Così non passavano le cose presso il Re nell'altra Segreteria di Grazia, e Giustizia. Le lagrime de' giusti non furono mai vane. Iddio che mortifica, e vivifica, anche sollevò Alfonso tra queste sì gravi angustie. Non eransi resi stracqui i Girgentini in rappresentare al Real Trono il livore de' contraddittori, e l'innocenza de' nostri; il bene operato in Sicilia, ed il bisogno, che eravi non solo in Girgenti,


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e sua Diocesi, ma nell'Isola tutta, mancando Operai, che la coltivassero.
Suppliche, ma troppo gloriose, vennero replicate ad Alfonso medesimo per il ritorno de' Padri non solo da' Patrizj, e Clero, ma dalle comunità tutte de' Regolari. Anche le Dame in numero di trentotto sollecitarono, e fecero premura per lo ritorno. Il Principe di Trabbia, specialmente benemerito del Sovrano, non mancò assistere al Real Trono, per parte di Monsignor Vescovo suo fratello.

Ragguagliato Alfonso, sin dal passato Novembre, di queste buone disposizioni, che eranvi in Sicilia, ne rese grazie a Dio. "Vi sono buone notizie da Napoli per le cose di Girgenti, così scrisse al P. Villani, il che mi ha consolato assai, perché in quelle parti vi si è fatto gran bene, e maggiore se ne farà, dopo la passata tempesta, per la gloria di Dio, che unicamente dobbiamo cercare. Si faccia la volontà di Dio, e si muoja".

 

Accertato il Sovrano dell'onestà de' nostri, e del gran bene, che operato avevano in tanti, e sì varj luoghi della Sicilia, non stette in forse per degnarli della sua grazia, e per accordar loro il ritorno in quell'Isola. Il Dispaccio, con gloria di Alfonso, e con giubilo de' Girgentini, si vide dato fuori dal Marchese di Marco ai tre del passato Dicembre 1774. Briga non vi fu più col Principe di Campofranco, essendosi conosciuto dal Re insussistenti sue pretenzioni. Assodate le cose, con reciproco compiacimento così di Alfonso, che di quel Vescovo, non sortì la partenza de' Missionarj, che nell'Aprile di quest'anno 1775.

 

Glorioso volevasi da Monsignor Lanza, a confusione dell'Inferno, l'ingresso de' Padri in Girgenti. Voleva, che fermati si fossero in Aragona, luogo otto miglia distante dalla Città, e che di levati si fossero con treno di carrozze, e con incontro di Ecclesiastici, e Cavalieri. Questa pomba non stimossi dai nostri. Ancorché prevenuto non avessero il loro arrivo, pure incontrati si videro da varie carrozze, e dalle persone più rispettabili. In Girgenti, con consolazione estrema, così dal Clero, che da tutti i ceti ricevuti furono alle porte della Città.

Monsignor Lanza in vederli ebro di gioja potette anch'egli esclamare col vecchio Simeone: "Deh mio Dio raccoglimi in pace, ora che vedo appagati i miei desiderj. Di fatti a 23. dell'entrato Maggio, tra le braccia de' nostri, il zelante Prelato, ma degno d'immortal memoria, passato si vide agli eterni riposi, per ricevere da Dio in Cielo il premio dovuto alle sue tante sollecitudini, che per quest'opera impiegate aveva.

 

Senza che io mi spieghi, congetturar si può da ognuno l'afflizione de' nostri, e quella di Alfonso per la perdita fatta, ed in tal tempo, di un sì degno protettore. Riprese bensì il sostegno dell'opera, ed il patrocinio de' nostri, con ugual zelo, ed amore l'Eminentissimo Branciforti, succeduto a Monsignor Lanza nel Febraro dell'anno susseguente del 1776.

Tenuti noi siamo, e riconosciuti saranno sempre per protettori


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di questa Casa in Sicilia, oltre Monsignor Lanza, anche D. Domenico Spota, Ciandro di quella Cattedrale, D. Liborio Canonico di Amico, e Monsignor Papé, Vescovo di Mazzara, allora degnissimo Decano della medesima Cattedrale di Girgenti.




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