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Cap. 75
Grave amarezza di Alfonso, vedendo in maggior
travaglio la Congregazione; e sua consolazione pel ritorno de' nostri in
Sicilia.
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Tra sì fatte
sollecitudini, e consolazioni, che Alfonso sperimentava, vedendo promossa in
Diocesi la gloria di Gesù - Cristo, ed il bene delle Anime, esente non era per
la sua Congregazione da un continuato batticuore. Troppo bersagliata ei
vedevala, e contraddetta: potenti, ed ostinati erano gli avversarj; ed erasi in
tempi che generalmente in Napoli, alterate le fantasie, anziché nuove opere
stabilirsi, distrutte volevansi le antiche.
La soppressione de'
Gesuiti voluta da' Regnanti, ed eseguita dal Papa, se crollar faceva le
Comunità non men dal tempo assodate, che dal proprio merito, molto più dava da
temere per le nascenti non ancor radicate.
Impazienti i due nostri
Contraddittori di più vederci sussistere, vantando vittoria, mezzi non
lasciano, per far prefiggere il giorno nella Real Camera per la discussione de'
carichi; e tra di tanto fioccar facevansi altri nuovi ricorsi nella Reale
Segreteria, che trasmessi nella Real Camera sempre più imponevasele, che
discussi si fossero, e resone il Re informato.
Critica per noi, anzi
funesta, presagivasi una tal discussione. Acquisti, e volo di denaro in Benevento;
Gesuitismo sposato, e dottrina erronea spacciata tra popoli, facevano senso ad
ognuno, e tutti per perduti avevane, e spiantati.
Facendosi presente
Alfonso come in un quadro tutta la catastrofe anch'esso commosso si vide, e
scoraggiato. Suole Iddio in mezzo ai travagli dilatare il cuore ai servi suoi,
concorrendo colla loro fiducia; e suole talvolta ristringerlo, allontanandosi
da essi, e non lasciandoli, che coll'umana prudenza. In questo caso fu Alfonso.
Ove prima vedevasi tutto fiducia, non temendo chicchessia, ristrettosegli il
cuore, scoraggiato si vide, ed abbattuto. Pensava, vedendo le cose in sì
cattivo aspetto, per evitarsi l'intera rovina della Congregazione, che
abbandonata si fosse la casa d'Iliceto, e rilasciarsi al Barone il podere della
vigna, caricandolo de' pesi.
Sin da tre anni
addietro inclinavasi dai nostri, ed eranvi mediatori tra noi, ed il Sarnelli,
per un pacifico accomodo, cioè per prendersi la vigna, e darci un tanto per le
opere pie, che eransi volute dal fratello. Alfonso, non che alieno, volevalo
anch'esso.
Solo voleva posto in
salvo la coscienza. "Bisogna che io riguardi molte cose, così a 4.
Dicembre al P. Majone in Napoli, e specialmente la mia coscienza. Perciò, se
mai succede l'aggiustamento, mi ho da consigliare - 403 -
di mille cose co' dotti, e co' padri spirituali per
restar quieto di coscienza. Vediamo che risponde il Barone, e poi
parleremo". Similmente rescrisse al P. D. Mattia Corrado. "Io non ho
libertà di far quel che voglio, perché tengo ligate le mani. In caso che si
avesse da cedere la vigna al Signor Barone colla corrisponzione delli ducati
400. inclusi li pesi, pure mi avrei d'angustiare colla coscienza, interpretando
la volontà di D. Andrea. Se mai s'avesse da fare avrei bisogno di consiglio
d'Avvocati, e Teologi, per vedere se posso farlo o no". Facevansi i conti,
mancandovi l'oste.
Avanzati i dolori tra
questo tempo, così a' 18. Dicembre 1774. al P. Villani: "Stiamo in gran
tempesta, ei disse, per la causa di Sarnelli. Io ho chiamati qui tutti i Consultori,
che possono venire per decidere il punto, perché non voglio esser solo; cioè di
abbandonarsi la Casa d'Iliceto, e rilasciarsi, come dissi, la vigna al Barone.
Le circostanze sono tali, replico di nuovo, che mi fanno temere della ruina di
tutta la Congregazione. Massima certa si è, esser meglio perdere una mano, che
rischiare a perdere il tutto. Io fo fare orazione da tutti. Fo dire Messe, e
non so più che fare. Si fanno scritti, Celano va informando i Ministri, ma il
pericolo è grande, ed imminente. Fate dire al Popolo (ritrovavasi il P. Villani
in Missione) un'Ave Maria secondo la vostra intenzione per questo affare prima
della predica, e fate fare orazione da Monasteri, e da tutti che potete".
Nel medesimo timore, ed
angustia vedevansi tutte le Case; né mancavasi rappresentare a Monsignore la
comune afflizione. Egli volendoci rincorare, ed animar tutti alla confidenza.
"Portiamoci bene,
che Gesù - Cristo ci proteggerà, così in Frosinone al P. D. Francesco de Paola
a 3. Ottobre 1774. Questo avvertite sempre, ma se facciamo difetti, Iddio ci
abbandonerà. Tratanto in caso di rifugio abbiamo S. Cecilia, e Benevento;
volendo dire Scifelli, e S. Angelo a Cupolo.
Rescrivendo al medesimo a 4. di Febbrajo del
susseguente anno 1775. "Iddio, che l'ha fatta (cioè la Congregazione),
egli la conserverà: ma se facciamo
difetti, ci mettiamo in pericolo di tornare tutti alle nostre case. Questo
pericolo in cui stiamo, predicatelo spesso, ed apertamente a tutti i nostri fratelli,
acciocché ognuno stia attento all'osservanza della Regola, ed all'ubbidienza
de' Superiori. Stiamo in mano di Dio, ed in continuo pericolo di esser
distrutti. Le sole orazioni ci possono salvare; e perciò tremo, quando sento
difetti".
Non mancando, ma
crescendo la tempesta, crebbero anche in Alfonso i suoi palpiti. Così a' 20.
Marzo 1775. al P. Villani. - 404 -
"Da più giorni non ricevo alcuna notizia da Napoli né di male, né di
bene. Temo di qualche altra burrasca, che mi avesse a far perdere la testa, di
che sono stato in pericolo ne' giorni passati, ma oggi per grazia di Dio son
passato meglio assai. Io per altro sto spaventato dalla vista orrida della
distruzione di tutta la Congregazione, e lo spavento mi sta avanti gli occhi.
Non ho scritto niente a
nessuno, né voglio operar solo di capo mio. Consigliatela tra di voi, e venga a
trovarmi quanto più presto, perché quando la causa è appuntata, allora o
dentro, o fuori. Pensatevi. Le cose, ei dice, sono pericolosissime, trattandosi
di tutta la Congregazione: e sta come si pigliano, dipendendo dalle apprensioni
de' Ministri.
Abbiamo che fare con
NN., che stima sua gloria buttar a terra un'opera di queste. Il Marchese
Tanucci dà più spavento di tutti, supposte le circostanze, che sappiamo. Sicché
non mi pare cosa lasciarsi la Congregazione in mano del caso con tal pericolo.
Pensatevi,
discorretela, e scrivetemi il parere degli altri. Ma fate presto, perché non
vorrei, che fra di tanto la causa si appuntasse". Erasi interposto per
noi, progettando accomodo, anche il famoso Avvocato D. Paolo Sarnelli parente
del Barone. Tutto fu inutile. Il Barone avendo in mano la vittoria, voleva il
podere senza saper cosa delle opere pie intestate dal fratello.
Vedendosi da varj
Vescovi, e Togati l'innocenza, che assistevaci, e la pertinacia del Sarnelli,
specialmente da Monsignor Borgia, da Monsignor Sanseverino, Confessore del Re,
e da Monsignor Testa, Cappellano Maggiore, come dal Consigliere Avena, e dal
Presidente del Consiglio D. Baltassarre Cito, vollero questi, oltre tanti
altri, che le cose lasciate si fossero in mano a Dio.
Pregato Monsignore dai
nostri, massime dal P. Villani, vedendosi la Congregazione in pericolo sì
grave, voler di persona portarsi a' piedi del Re, sorridendo disse: In vedermi il Re, dirà levatemi d'innanzi
questo scarafaggio. Che figura posso far io avanti al Re nello stato che sono?
Mettiamoci in mano a Dio, e non fidiamo ai mezzi umani, perché la Congregazione
è opera divina, e non umana.
Tali furono gli sforzi
de' Contraddittori, che per li 24. di Dicembre prefissa fù nella Real Camera la
discussione de' carichi. Siccome quelli non lasciavano pietra da smuovere a
nostro danno, così Alfonso mezzo non ometteva presso Dio per meritarci le
divine misericordie. Celebrazioni di Messe, orazioni di anime pie, e limosine,
tutto pose in opera, evitar volendo, in sì grave tempesta, un tanto temuto
naufragio.
Insinuò per le case
esposizioni del Venerabile, esattezza nell'osservanza, e dipendenza da'
Superiori: così, che in comune - 405 -
recitato si fosse in
Chiesa il Salmo Qui habitat, ed
un'Ave alla Vergine per li nostri Contraddittori.
Altro travaglio vi fu,
che non aspettavasi. Stando i nostri sulla difesa, tante volte i colpi eran
prima ricevuti, che riparati. Temeva Monsignore, e temevam tutti, non sapendosi
come i carichi sarebbonsi per apprendere in quel augusto Tribunale, e temevasi
dai Contraddittori sul dubbio che non svanisse in fumo presso quei sanj
senatori tutta la trama già ordita.
Maneggi fecero, ed
anche ottennero (ma è cosa da non credersi), avendo con se chi spalleggiavali
nella Real Segreteria, che sospesa la causa nella Real Camera, il Fiscale
Ferdinando di Leo, esso solo, avendo presente le carte tutte altrove
fabbricate, e nella Real Camera contro i Missionarj, informato avesse il Re, e
dato il suo parere.
Stordita restò Napoli
per tal provvidenza. Come, e quanto un tal colpo stimossi per noi fatale non
occorre, che lo ridica. Essendo il Fiscale inimico di nuovi Conventi in Regno,
e di novelli Istituti anzi malsoffrendo gli antichi, tutti ci ebbero per
perduti. Siccome da certe picciole accenzioni, che in aria si veggono,
congetturasi la gravezza del tuono, che sarà per scoppiare, così in seguito, da
certe buttate parole del Fiscale, si percepì subito quanto sanguinolenta era
per succedere a nostro danno la relazione, che far si doveva al Sovrano. Ma di
questo a suo luogo nel libro quarto.
Ancorché si vedesse la
Congregazione in pericolo sì imminente di esser distrutta, Alfonso siccome coi
mezzi divini non ometteva gli umani, così voleva, che dai nostri impegni non si
prendessero in Napoli, che non fossero secondo Dio.
Pregato per una sua
lettera ad una Dama, che signoreggiava sullo Spirito del Fiscale, entrato in
dubbio di offesa di Dio, questo nol farò
mai, scrisse al P. Majone: si
distrugga piuttosto la Congregazione, e motivo non diasi anche all'ombra di
qualche peccato.
Per le case, come
dissi, altro non inculcava, che orazione, penitenza, ed osservanza :
"Questo solo, ripeteva, e somma confidenza in Gesù - Cristo, ed in Maria
Santissima possono ajutarci, e meritarci le divine misericordie. Sono necessarj
i mezzi umani, così anch'esso, ma lo scudo della protezione di Dio è il mezzo
più potente a poterci difendere dai colpi nemici. Viviamo sicuri, di questa
protezione, se non ce la demeritiamo coi nostri difetti".
Così non passavano le
cose presso il Re nell'altra Segreteria di Grazia, e Giustizia. Le lagrime de'
giusti non furono mai vane. Iddio che mortifica, e vivifica, anche sollevò
Alfonso tra queste sì gravi angustie. Non eransi resi stracqui i Girgentini in
rappresentare al Real Trono il livore de' contraddittori, e l'innocenza de'
nostri; il bene operato in Sicilia, ed il bisogno, che eravi non solo in
Girgenti, - 406 -
e sua
Diocesi, ma nell'Isola tutta, mancando Operai, che la coltivassero.
Suppliche, ma troppo gloriose, vennero replicate ad Alfonso medesimo per il
ritorno de' Padri non solo da' Patrizj, e Clero, ma dalle comunità tutte de'
Regolari. Anche le Dame in numero di trentotto sollecitarono, e fecero premura
per lo ritorno. Il Principe di Trabbia, specialmente benemerito del Sovrano,
non mancò assistere al Real Trono, per parte di Monsignor Vescovo suo fratello.
Ragguagliato Alfonso,
sin dal passato Novembre, di queste buone disposizioni, che eranvi in Sicilia,
ne rese grazie a Dio. "Vi sono buone notizie da Napoli per le cose di
Girgenti, così scrisse al P. Villani, il che mi ha consolato assai, perché in
quelle parti vi si è fatto gran bene, e maggiore se ne farà, dopo la passata
tempesta, per la gloria di Dio, che unicamente dobbiamo cercare. Si faccia la
volontà di Dio, e si muoja".
Accertato il Sovrano
dell'onestà de' nostri, e del gran bene, che operato avevano in tanti, e sì
varj luoghi della Sicilia, non stette in forse per degnarli della sua grazia, e
per accordar loro il ritorno in quell'Isola. Il Dispaccio, con gloria di
Alfonso, e con giubilo de' Girgentini, si vide dato fuori dal Marchese di Marco
ai tre del passato Dicembre 1774. Briga non vi fu più col Principe di
Campofranco, essendosi conosciuto dal Re insussistenti sue pretenzioni.
Assodate le cose, con reciproco compiacimento così di Alfonso, che di quel
Vescovo, non sortì la partenza de' Missionarj, che nell'Aprile di quest'anno
1775.
Glorioso volevasi da Monsignor
Lanza, a confusione dell'Inferno, l'ingresso de' Padri in Girgenti. Voleva, che
fermati si fossero in Aragona, luogo otto miglia distante dalla Città, e che di
là levati si fossero con treno di carrozze, e con incontro di Ecclesiastici, e
Cavalieri. Questa pomba non stimossi dai nostri. Ancorché prevenuto non
avessero il loro arrivo, pure incontrati si videro da varie carrozze, e dalle
persone più rispettabili. In Girgenti, con consolazione estrema, così dal
Clero, che da tutti i ceti ricevuti furono alle porte della Città.
Monsignor Lanza in
vederli ebro di gioja potette anch'egli esclamare col vecchio Simeone:
"Deh mio Dio raccoglimi in pace, ora che vedo appagati i miei desiderj. Di
fatti a 23. dell'entrato Maggio, tra le braccia de' nostri, il zelante Prelato,
ma degno d'immortal memoria, passato si vide agli eterni riposi, per ricevere
da Dio in Cielo il premio dovuto alle sue tante sollecitudini, che per
quest'opera impiegate aveva.
Senza che io mi spieghi, congetturar si
può da ognuno l'afflizione de' nostri, e quella di Alfonso per la perdita
fatta, ed in tal tempo, di un sì degno protettore. Riprese bensì il sostegno
dell'opera, ed il patrocinio de' nostri, con ugual zelo, ed amore
l'Eminentissimo Branciforti, succeduto a Monsignor Lanza nel Febraro dell'anno
susseguente del 1776.
Tenuti noi siamo, e riconosciuti
saranno sempre per protettori - 407 -
di questa Casa in Sicilia, oltre Monsignor Lanza, anche D. Domenico Spota,
Ciandro di quella Cattedrale, D. Liborio Canonico di Amico, e Monsignor Papé,
Vescovo di Mazzara, allora degnissimo Decano della medesima Cattedrale di
Girgenti.
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