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Cap.76
Accettata dal Papa la rinuncia della Chiesa, rilevansi
i sentimenti di Alfonso, e l'amarezza sperimentata tra suoi Diocesani.
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Troppo prevenuto
stavane il S. Padre Pio VI. dello zelo di Alfonso, e del gran bene, che, benché
storpio, egli operava nella Chiesa di S. Agata. Ricevuta la rinuncia a 5. del
mese di Maggio dall'Eminentissimo Castelli, ancorché il Cardinale anche a voce
lo facesse carico dell'avanzata età, e della gravezza de' suoi mali, tuttavolta
non era in voto di ammetterla. Erasi Alfonso, come dissi, anche raccomandato a
Monsignor Calcagnini per averlo mediatore, ma questi, anzi che aggevolar
l'affare, eragli in contrario. Considerando il savio Prelato il gran bene, che
Alfonso in Diocesi aveva fatto, e faceva, e che solo bastava la di lui presenza
per governarla, e tener tutti nel dovere, stimava non accettarsi la rinuncia,
mentre, indisposto qual'era, disimpegnava il proprio impiego.
Essendo capitati tra
questo tempo in Roma due de' nostri, che colle Missioni trattenuti si erano
negli Abruzzi, cioè i PP. Capuano, e Rastelli, ed essendosi presentati per il
bacio del piede, il S. Padre, sentendo Alunni della Congregazione, chiese come
ne stesse Monsignor Liguori. I Padri, credendo far cosa grata ad Alfonso, ed
ansiosi di vederlo in Congregazione, non mancarono contestare, e maggiormente
esagerare i di lui acciacchi. S. Padre, dissero, sta in uno stato, che fa compassione, sordo, e cieco, e così oppresso
da tanti mali, che non sembra più uomo.
Volgendosi il Papa a
Monsignor Calcagnini: Vedete, disse, ciò che questi dicono. Essendo così, non
bisogna contristarlo. Determinossi ammettere la rinuncia, e nol fece che
con suo sommo rincrescimento.
Rescrivendo ad Alfonso
per parte del Papa a' 9. del medesimo mese l'Eminentissimo Giraud: "Ha
ricevuto, disse, nostro Signore la lettera, che VS. Illustrissima ha fatto
pervenire, per mezzo dell'Eminentissimo Castelli, colla rinuncia del Vescovado,
ed ha la Santità Sua sentito con vera amarezza di cuore lo stato infelice di
sua salute.
Persuaso, com'è, il S.
Padre de' di lei meriti, e pastoral vigilanza, soffre di mala voglia il suo
ritiro dal governo di cotesta - 408 -
Chiesa: ma convinto altresì de' motivi giusti, e reali, che ha di farlo,
non vuol metter in angustia il di lei spirito, ond'è che accetta la sua
rinuncia, quale per altro dovrà poi farsi nelle solite legali forme; che è
quanto devo per comando di Nostro Signore, partecipare a VS. Illustrissima, in
risposta della di sopra enunciata lettera da lei scritta a sua Beatitudine. E
coi sentimenti di distintissima stima, resto baciandole di tutto cuore le
mani".
Accertato Alfonso
dall'Eminentissimo Giraud, e dall'Eminentissimo Castelli del compiacimento del
Papa, per la bramata rinuncia, respirò, e diedene parte al P. Villani, che
ritrovavasi colla S. Missione in Capua. Avrebbelo desiderato in Arienzo, e non
potendolo avere, così li scrisse a' 13. dello stesso mese: "Sia sempre
fatta la Divina Volontà, che in questo mentre V. R. rattrovasi impegnata in
cotesta Missione, mentre, per non restare con scrupolo, dovrei consigliarla di
più cose, dovendo lasciare la Diocesi. La lascio senza pena, perché la lascio
per ubbidienza. Temo però, che non vi venga qualche Milordo, giacché tanti la
pretendono, ed allora bisogna dire addio a tutte le fatiche fatte. Prego Gesù
Cristo, che n'abbia compassione, e prego V. R., e tutti a non parlarmi più
della Diocesi, per non farmi vivere angustiato.
Tal notizia essendosi
divulgata, lutto vi fu da per tutto. Ceto non vi fu, che addolorato non si
vide. Avendone Alfonso data parte al Capitolo in persona dell'Arcidiacono D.
Francesco Rainone, e non sottoscrivendosi più Vescovo di S. Agata, ma Alfonso
Maria del Santissimo Redentore, questa lettera, e questa firma commosse non
solo il Capitolo, ma tutta S. Agata. Questo
è gastigo di Dio, disse l'Arcidiacono Rainone, perché non si è saputo conoscere.
Canonico non vi fu, ed
anche Gentiluomo, che non portossi in Arienzo, per dolersi con Monsignore di
questo passo già avanzato. Anche quei che da lui erano stati mortificati,
disingannati, e facendo giustizia al suo merito, intesero con pena la rinuncia.
Il Primicerio D. Francesco Petti, benché amareggiato per l'addietro ei fosse
stato in persona del Canonico suo Fratello arrestato, e portato in Montefusco,
e per la lunga sofferta prigionia, portandosi in Arienzo, piangendo, disse:
"Monsignore, che avete fatto! Dio vel perdoni. Il male, che cagionate a
tutta la Dicesi, colla vostra rinuncia, è irreparabile".
Non minore fu
l'amarezza che sperimentossi in Arienzo. Questo Clero specialmente, che prima
di tutti n'ebbe la notizia, e che per tanti anni goduto avevalo in questi
ultimi tempi, non videsi, che estremamente afflitto: maggiormente, che quasi
tutti erano stati educati da lui in Seminario, e prescelti per Canonici di
quella Chiesa. - 409 -
Canonico
non vi fu, o Sacerdote, che portandosi in Palazzo, piangendo non si dolesse del
passo avanzato.
Se comune fù il pianto,
più sensibile la perdita sperimentossi dai Parrochi. "Chi di noi da oggi innanzi,
dicevano questi, potrà impegnare la carica, ed esser sostenuti, come facevalo
Monsignor Liguori. A noi altro non spettava, essendoci disordine, che
informarlo, ed egli prevaleva e per li Preti, e per li secolari presso i
Baroni, e presso il Sovrano". Altri; ove troveremo la borsa aperta per
impedire il peccato, e per soccorrere i miserabili?
Anche l'Arciprete di
Frasso, che tanto eraglisi opposto e per le Decime, e per la Chiesa Coadjutrice
della Parrocchia, che stabilir voleva in quella Terra, sentendo fatta la
rinuncia, ne piangeva la perdita. Ritrovandosi in Napoli, non davasene pace: ed
essendoseli detto, che perché decrepito, e cionco, più non era nello stato di
governar la Diocesi. "Non è così, rispose, Monsignor Liguori governavala
col solo suo nome".
Essendosi portati da Monsignore, il giorno
antecedente alla partenza, il Parroco D. Pasquale Bartolini, ed il Canonico
Truppa non finivano di piangere, considerandone la perdita. "Che credete,
ei disse, che non mi dispiaccia il partire. Troppo mi dispiace, perché lascio i
figli miei. Rinuncio, soggiunse alzando la voce, perché Dio così lo vuole. Lo
stato in cui sono mi ha obbligato farlo presente al Papa, e col Papa mi sono
spiegato, che se la Diocesi era per soffrire il menomo danno, io era pronto
tirar questo carro fino alla morte. Ma se parto col corpo, non vi lascio col
cuore".
Più di tutti se ne
dolsero i poveri. In sentirsi la trista nuova, le donne o pentite, o
pericolanti, e così le zitelle povere, che speravano sussidio, tutte, sentendone
la perdita, vedevansi inconsolabili: maggiormente tante famiglie bisognose, che
da lui secretamente erano soccorse.
"La rinuncia di
Monsignor Liguori, dissemi un degno Sacerdote, è stata sensibile, specialmente
ai poveri, non solo in S. Agata, ed Arienzo, ma per tutta la Diocesi. Ho veduto
io, ed attestar si può da tutti, che ogni povero, portandosi da lui, non
ritornavasene vuoto con le mani; e tutti chi più, e chi meno vedevansi
consolati".
Incontrandosi per strada il nostro Padre D. Angelo Gaudino con un povero
villano, questi non poteva darsi pace per la partenza di Monsignore.
"Quando noi andavamo alla montagna, ei disse, lasciavamo i nostri figli
nel palazzo di Monsignore, ed eravamo sicuri di esser alimentati: ora che ha
rinunciato, e se ne parte. a chi dobbiamo ricorrere?"
Piangevano, e non
finivano rammaricarsi anche i tanti o che infermi si videro visitati, o altri
che nelle carceri furono sollevati. "Non avremo - 410 -
più Monsignor Liguori, essi dicevano, o che mandava,
o che di persona era a consolarci. Chi s'interporrà per noi, dicevano altri
presso i creditori; e chi farà le nostre parti coi Governatori, se per delitti,
o per debiti saremo arrestati? Tutto poteva Monsignore, perché era santo, e
tale stimavasi da tutti".
L'afflizione comune era
anche afflizione per Alfonso. Se con pena erasi egli unito con questa sua
sposa, con maggior pena di presente soffrivane il divorzio.
Anche fè senso questa
sua rinuncia in Napoli, ed altrove. Avutane la notizia il Marchese Avena,
Consigliere della Maestà del Sovrano, "Monsignor Liguori, disse, ha fatto
male, e gran male. Se stesse a me lo farei restar in Diocesi. Solo la sua
presenza bastava per governarla, e tener tutti nel dovere". In sentire
accettata la rinuncia dal Papa Monsignor Capece Galeoti, Arcivescovo di Capua,
"Il papa, disse, ma con sentimenti di somma amarezza, ha accettata la
rinuncia di Monsignor Liguori, che tanto bene faceva nella Chiesa di Dio, ed ha
ributtata la mia, che sono inutile".
Tale fu il sentimento
di altri gravi personaggi, e Vescovi, che io tralascio.
Male l'intese ancora il
suo fratello D. Ercole. "Sento che vi lamentate della mia rinuncia, così
Alfonso a' 22. di Luglio, ma io non ho rinunciato per andare a spasso, ma
perché le infermità m'impedivano soddisfare il mio obbligo. Io ho esposti i
miei mali al Papa., e 'l Papa ha voluto che io rinunciassi".
Dubitando Alfonso, che
vi fosse interesse per lo mezzo, "Voi forse avete timore, disse, che io
non abbia da litigare con voi per la mia porzione, giacché, come sento, vi è il
dubbio che non mi tocca più la porzione del Collegio, se non risiedo in Napoli.
In Napoli non vi posso stare. Del resto non abbiate timore, perché io non
pretendo alcuna porzione. Spero che il Papa mi assegni la pensione, e spero che
la Corte di Napoli mi ci dia l'Exequatur;
ma se mi si nega l'Exequatur, ed il
Collegio la pensione, mi basterà quel carlino che mi guadagno colla Messa, per
comprarmi quel poco di minestra, che mi mangio".
A' 17. di Luglio la
rinuncia formalmente fù accettata in Concistoro. Divulgata tal notizia in
Diocesi, vi fu chi scherzando li disse, che accettata la rinuncia, vedevasi
colla testa più dritta, e non così curva, come per l'innanzi. Sì, disse Alfonso, perché mi ho levata
la Montagna di Taburno da sopra il Collo. Taburno è un monte altissimo, che
sovrasta alla Città di S. Agata.
Avendo ringraziato il
papa per degnazione sì grande verso di Lui, supplicollo ancora per tutti quei
privilegj, che annessi vanno col Vescovado, e specialmente per l'Altare
portatile.
Rescrivendoli - 411 -
il Cardinale Giraud,
disse: "Si è il S. Padre degnato esaudirla nella maggiore sua estensione,
onde può, e potrà VS. Illustrissima avvalersene, e starne sopra di ciò
tranquillissimo". Ancorché non richiesto, ebbe di mira il Papa il suo
mantenimento. "pensa altresì Nostro Signore, scrisse il Cardinale, nel
conferire ad altri cotesta Chiesa, riservare a di lei favore una congrua
pensione per lo di lei mantenimento, lo che le serva di regola".
Non volendo Alfonso
aggravar la Chiesa, rescrisse, che volendo il papa degnarlo della pensione,
ducati quattrocento erangli sufficienti. Questa moderazione edificò
estremamente il S. Padre; ma considerando il suo stato, graziosamente
assegnolli scuti ottocento.
Troppo in
quest'occasione favorito venne Alfonso dall'Eminentissimo Castelli. Tra l'altro
dovendosi spedire le Bolle per l'ottenuta pensione dei scuti 800, non mancò far
di nuovo presente al Papa i gravi meriti, che egli aveva con tutta la Chiesa, e
quanto sudato aveva colla voce, e colla penna in beneficio delle Anime.
Sorpreso vie più Pio
VI., dalle tante opere del di lui zelo, facendo idea maggiore di Alfonso,
rilasciolli anche scudi cento e cinque, che erano per spettare alla Camera
Apostolica. "Mediante i valevoli, e premurosi officj di questo
Eminentissimo Castelli, così nel primo di Settembre l'Agente D. Melchiorre
Terragnoli, cui deve VS. Illustrissima professare le più distinte obbligazioni,
si è ottenuto da Nostro Signore un ribasso notabilissimo sulla spedizione della
Bolla della sua pensione".
In Napoli fece le parti
di Monsignore presso il Collegio de' Dottori l'Avvocato D. Gio: Minieri. Anche
questi dimostrandosi graziosi non ebbero difficoltà accordarli anche per
intiera, come presente, tutta la pensione. "Io sono un cadavere, così egli
espose, che non posso dare da me un solo passo; vivo sempre o sopra di un
letto, o gettato sopra una sedia; buona parte dell'anno non posso uscire dalla
stanza, perché patisco di petto, e tante volte vicino alla morte; ogni poco di
vento, o pioggia, o freddo, o umido mi cagiona catarri mortali, e sono in età
vicino agli ottant'anni.
Del resto, così conchiude, io non voglio esiger niente, se vi è scrupolo di
coscienza. Iddio mi ajuterà in questi altri pochi giorni, che mi restano di
vita. Non contento di questa sua indifferenza, consigliò l'affare per esser
esente da scrupolo, con varie persone intendenti".
Monsignore Testa tra
gli altri gli rescrisse, che per l'infermità era scusato dalla residenza, e che
altri Collegiati anche di lontano per lo stesso motivo avevano
partecipato". Così restò consolato, e per la porzione del Collegio, e per
la pensione sulla Chiesa accordata dal Papa.
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Anche tra la folla di tanti
pensieri, e così spinosi ebbe in veduta Alfonso i bisogni de' suoi Congregati.
Più volte pregato aveva il proprio fratello D. Ercole, che disposto avesse,
facendo testamento, per una gratuita abitazione ai nostri, come per l'innanzi,
in un quartino del proprio palazzo.
"Di presente a'
29. di Giugno vi prego, li scrisse, ad aggiustare da ora quella carità, che
volete fare dell'ospizio ai Padri miei, perché se Iddio vi chiamasse, senza
darvi il tempo di lasciar le cose disposte, li Padri miei non avranno niente.
Così bisogna lasciare aggiustata quella cosa della Cappellania. Desidero veder
aggiustate queste due cose per non pensarci più, mentre da oggi avanti, non
vorrei pensar più a cose di mondo, ma solo per apparecchiarmi alla morte, che
mi sta così vicina. Prego acquietarmi sopra queste due cose".
Tra questo tempo
abbiamo una profezia di Alfonso, ma troppo lambante. Correvano varie le voci di
chi era per succeder Vescovo in S. Agata. Essendosi i pretendenti senza numero,
tutti della Diocesi anziosi ne stavano per sapere sopra di chi era per cadere
la sorte. Monsignor istesso anche dimandavane di chi fosse più accertata la
notizia. Varj soggetti se li dissero, e ne sentì di tutti con indifferenza.
Essendosi un giorno portato da lui il Canonico D. Pietro Ferrara, richesto se
vi fosse altra notizia, disse, che con certezza dicevasi Monsignor Rossi
Vescovo d'Ischia. "Monsignor Rossi? ripigliò Alfonso , ma tutto acceso: O
Dio, o Dio! mò voglio scriver a Roma, che mi facciano stare in residenza fino
alla venuta del nuovo Vescovo; ed esclamando quasi fuori di se: povera Chiesa
mia! quanto tempo dovrai star vedova, e senza pastore".
Sollecito, scrisse in
Roma, credendo che il Papa era per accordarli il governo a tenore dell'antica
disciplina fin'all'arrivo del Successore, non sapendo che preconizzato il
nuovo, a tenore dell'odierna, il vecchio lasciar deve la Diocesi. Tanto li fu
rescritto.
Profetizzò Alfonso,
esclamando così. Essendosi impedito in Napoli dal Clero d'Ischia, ma fuori di
aspettativa, a Monsignor Rossi l'Exequatur alle Bolle, vedova, e priva di
pastore videsi la Chiesa di S. Agata, non per giorni, e mesi, ma per quattro in
cinque anni.
In altra afflizione
anche grave si vide Alfonso fatta la rinuncia prima della preconizzazione di
Monsignor Rossi. Se li disse, che per le note controversie tra la Corte di
Roma, e questa di Napoli non era per destinarsi dal papa il Vescovo in S.
Agata. Chi diceva, che persistito avrebbe il Vicario Capitolare, e chi che dal
Papa era per destinarsi un Vicario Apostolico. Questa notizia ben che svanita,
sentendosi eletto Monsignor Rossi, anche afflissero, e posero in costernazione
Monsignor Liguori, ma tale che non mangiava, e nè dormiva.
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Dissi, che se Alfonso
lasciava la diocesi col corpo, non lasciavala col cuore. In che seppe
preconizzato Vescovo di S. Agata Monsignor Rossi, così li scrisse a 17. Giugno.
"Dopo che VS. Illustrissima avrà preso possesso di questa Chiesa, prego,
se così le piace, favorirmi due giorni nella nostra casa di Nocera, perché ivi
l'informerò a pieno di tutti i soggetti, e nascondigli del Vescovado, per
sapere i quali ho stentato tredici anni, ma fra due giorni io la informerei di
tutto, e spererei, che Vs. Illustrissima colle mie notizie, e colla sua grande
abilità sarebbe per fare un ottimo governo per la gloria di Dio, e per la
gloria sua".
Vi fu Monsignor Rossi; ed Alfonso quasi piangendo lo
fe carico di quanto in S. Agata egli operato vi aveva.
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