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Cap. 19
Tenta Alfonso aver approvato dal Re la sua Regola, e
di nuovo ritrovasi in altri gravi imbarazzi.
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Non era Alfonso, tra le
mani di Dio, una statua, che si formasse a getto, ma perfezionar dovevasi a
colpi di martello. Contava egli gli anni ottantatré. Giustificati essendosi
avanti al Re i capi criminali, respirò, e goder credeva in pace il resto de'
suoi giorni; ma altro temporale stavagli apparecchiato, che profondar dovevalo
nel più alto mare. Non avendo potuto il demonio espugnar la piazza,
attaccandola al di fuori, adoprossi che tradita di dentro, resa si vedesse, e
soggiogata.
Pietra di scandalo per
i comuni avversarj, come dissi, era la nostra Regola confirmata dal Papa, e non
approvata dal Sovrano. Essendosi ottenuto dal Re l'approvazione per varj capi
col Dispaccio de' 21. Agosto 1779., si pensò ottenerla in tutto il di più,
affinchè comprovandola il Sovrano, i contrarj non avessero più potuto
cavillare.
Questo progetto non
dispiacque ad Alfonso. Volle bensì che sessionato si fosse in Napoli, e cercato
il parere da' più Savj. Similmente essendosene fatta parola a Monsignor Testa,
Cappellano Maggiore, non esitò favorirlo, purché manoscritta si fosse la
regola, e tolto di mezzo ciò, che ostava ai Regali Dispacci; cioè gli acquisti,
e la rendita delle Case.
Sistemato il tutto, fu
affidato l'affare al P. D. Angiolo Majone, uno de' Consultori, che con comune
soddisfazione assistito aveva, e tuttavia assisteva ne' Tribunali, e presso la
Corte per le attuali emergenze. Geloso Alfonso, ripetette, e protestossi più
volte, che tolti gli acquisti già dal Re proibiti, la regola non si fosse in
altro alterata.
Scabroso stimavasi il tentativo.
Avendosi i nemici a fronte, intraprendente che fosse il Padre Majone, anch'esso
ne temeva. Se si oppongono, disse, ricevuta la negativa dal Re, resteremo per
sempre pregiudicati; e se non restringesi il segreto nella sola Consulta,
l'incautela de' nostri potrebbe ruinarci. Volle, ed ottenne da' Consultori, ed
anche da Alfonso un giurato segreto. Tutto sembrava ragionevole. Godeva, e
sospirava il nostro vecchio veder stabilita la sua Regola coll'autorità del
Sovrano, ed avere colla benedizione del Papa, anche il compiacimento del
proprio Principe.
Non fu fedele il Padre
Majone, come si credeva. Mal soddisfatto il buon Padre della saviezza di
Alfonso, e punto non curando gli oracoli del Vaticano, invasato dallo spirito
di novità, unito con un altro della Consulta, che stava di fianco a Monsignore,
tutti e due nuovo - 94 -
contorno
diedero alla Regola, e nuova forma. Ove smozzicossi una cosa, ed ove vi si
aggiunse un altra, e tante altre rotondamente si tolsero di mezzo.
Cautelato che fosse il
Padre Majone, rimpastando la Regola, cosa in confuso penetrossi; ed entrar fece
in maggior sospetto la medesima cautela, con cui operava. I fuochi delle
Comunità sono anch'essi, come quei de' folti boschi. Una scintilla che scappa,
tutto accende, e consuma. Vociferato, che in Napoli travagliavasi sulla Regola,
e temevasi di novità, più non vi volle per vedersi sossopra tutte le Case.
Proteste vi furono con Alfonso, che dubitavasi, e non volevasi alterata la
Regola. Il povero vecchio non avendo motivo per dubitarne, accertava ognuno non
esservi cosa in contrario.
"P. D. Antonio
mio, così mi scrisse in Iliceto, non solamente da voi, ma ancora dagli altri mi
è stato riferito che vogliasi mutare la Regola. Questo non è vero: si fanno le
cose, ma senza danno della Regola: quietatevi, e fate quietare anche gli altri,
e soggiunge: questo è bugia, bugia, bugia".
Così in una de' 4. Settembre 1779. al P.
Corrado nella Casa de' Ciorani. "D. Bartolomeo mio, ho inteso dubitarsi da
taluni, che io voglia far Regole nuove, diverse dalle antiche. Come mai ha
potuto quest'uno sospettare di ciò, mentre io sono stato sempre gelosissimo di
questa Regola; secondo questa ho sempre governata la Congregazione; e fino
all'ultimo fiato procurerò con tutte le mie forze, che la Regola non resti
mutata in menoma parte".
Non altrimenti si
spiega col medesimo Padre con altra de' 15. Dicembre. "Ho ricevuto, e
considerato parola per parola la vostra lettera. Non credo, vogliate sospettare
che io v'inganni, o che voglia asserire una bugia, o che sia tanto scimunito
che voglia permettere, che si muti cosa alcuna nella Regola. Non dico altro. Se
poi non posso essere creduto, che voglio dire! me lo prendo per li peccati
miei. Il sentire queste cose mi danno gran pena, vedendo chiaramente, che sono
cose del Demonio, cioè inventate dal Demonio, per mantenerci inquieti. Ripeto:
assicuratevi in mia coscienza, che non vi è cosa contro la Regola, o contro
l'osservanza della Comunità. Se poi non mi vogliate credere, pazienza".
Questo istesso accertò
in altre Case, non dubitando della fedeltà del P. Majone, e dell'altro
Consultore, che assistevalo, sicuro ch'eseguivasi, quanto eravisi convenuto.
Ci furono taluni, e ci
fui anch'io, che non mancarono risentirsi col medesimo Padre Majone. Non ebbe
ritegno negar tutto, e rescrivere con franchezza, che tutt'altro trattavasi in
Napoli, che la Regola, e Costituzioni.
Temendo di se,
vedendosi in contrario le Case, avvanzò lettera ad Alfonso in data de' 22. Agosto. "La poca
cautela, ei dice, - 95 -
che
si è usata per questo affare, oltre aver posto l'esito in pericolo, mi ha mossa
la persecuzione di tutta la Congregazione, che si è insospettita a segno delle
mie operazioni, che taluni sono anche giunti a scrivermi lettere improprie, e
piene di minacce. Ho dovuto fingere, ma conservo le lettere per riconvenire a
suo tempo questi tali. Sicché la cautela, e la segretezza sono assolutamente
necessarie".
Tra l'altro, essendosi
penetrato che novità vi erano circa la Povertà e Vita Comune, non si lasciò
strepitare presso il medesimo Padre, ed avvanzarne i sospetti presso
Monsignore. Persistendo il povero vecchio nella buona fede, accertava tutti,
che non vi era di che temere. "Io vi assicuro, disse un giorno, prendendo
nelle mani la crocetta, che aveva in petto, che niente vi è contro la Regola.
Mancano gli acquisti, perché il Re non li vuole, e noi dobbiamo ubbidire".
Tanti riclami però
qualche senso fecero in Alfonso. Per maggior accerto non mancò farne inteso il
P. Majone, con cercare di esserne sincerato. "Si è compiaciuto avvisarmi,
così egli ad Alfonso, che cotesti Padri gli riempiano la testa di mille
sospetti, de' quali mi ordina rischiarargli la mente, ma non dice intorno a che
l'hanno insospettito. Se intende dell'affare che si è proposto al Re, dico che
le cose sono nello stesso piede, che gli confidai a voce: se poi intende di
altro affare, non so che dirvi".
Troppo chiaro erasi
spiegato Monsignore, che sospettavasi di novità circa la Povertà, e Vita
Comune; ed egli rescrive non avergli scritto intorno a che si raggiravano i
sospetti. Incostante, e dimentico delle sue assertive, soggiunge: circa quello
mi accenni della Vita Comune, tanto è dire voler dismettere la Vita Comune,
quanto voler distruggere la Congregazione... "Fido nella Divina Provvidenza
(così investendosi di zelo) che distruggerà piuttosto cotesti seminatori di
zizzanie, con espellerli da noi, che distruggere la Congregazione".
Scaltro il buon Padre rescriveva in modo, e così sono tutte le sue risposte,
che non lasciava luogo a dubitarsene.
Quì non finirono le sue
trame. In Settembre essendosi portato in Nocera, con presenza di spirito,
esibisce ad Alfonso il fatto borrone, accertandolo, che tolto ciò, che
appartenevasi ai Reali Dispacci, il dippiù tutto era in conformità della
Regola.
Diffidandosi di leggerlo il povero vecchio, perché con cassature, e chiamate,
anche con carattere minuto, e scabroso, a maggior cautela diedelo a leggere al
P. Villani. Vedendo questo tolti i Voti, ed alterata la Povertà, restò
sorpreso.
Non vuole Voti il Re, disse il Majone, perché ci costituiscono Semiregolari.
Altre cose le sostenne, che non erasi nel caso di dar la legge, ma di riceverla
da Monsignor Cappellano: che se variavano certe minuzie, avendosi in sostanza
confirmata la Regola, queste non facevano al caso.
Era il Majone irruente
di natura ed imponeva. Non avendo avuto spirito il - 96 -
Padre Villani di opporsegli, anche così capacitato
dall'altro Collega, che col Majone andava di concerto, portandosi da
Monsignore, e non volendo, nello stato che era, metterlo in agitazione, disse,
che tutto andava bene. Monsignore così persuaso contava i momenti per aver la
grazia tra le mani; e giulivo poter intonare anch'esso il Cantico di Simeone.
Credette con questo il Padre Majone essersi posto al coperto contro il riclamo
delle Case, e molto più dal disgusto, che già prevedeva in Alfonso.
Tutto essendosi
sistemato con Monsignor Cappellano, il Majone a' 2. di Gennajo 1780., con petto
apostolico rescrisse ad Alfonso: "Se viene alcuno a scorgerla, o a dire
che altro non vuole osservare fuori di quello è nell'antica Regola, francamente
può rispondere, che quando si proponga ad osservare altro, fuori di quello è
prescritto nei Reali Dispacci, e nella Regola, che non l'osservi".
Volendosi giustificare intorno all'oscurità delle sue lettere, per cui Alfonso
erasene lagnato, soggiunge: "come VS. Illustrissima non può leggere,
dubito non siano lette le mie, e perciò uso qualche cautela nello
scrivere". Chiese il secreto per operare con sicurezza, e sotto il medesimo
secreto covrivasi, se nelle risposte non spiegavasi come dovea.
Così persuaso Alfonso,
e molto più dal Padre Villani, viveva sicuro esser tutta opera del Demonio le
diffidenze dei Soggetti.
Affliggevasi bensì non per
quello si temeva, ma per la libertà, che nel Dispaccio de' 21. Agosto 1779. di
certo rilevavasi a favore dei Soggetti; cioè di poter ognuno a suo arbitrio
abbandonar, se voleva, la Congregazione, e ritornarsene in propria casa. Questa
ferita pungevagli il cuore; anzi gli tolse il sonno per più notti, perché,
diceva, distruttiva della Congregazione.
Sollecito scrisse
intanto al P. Majone voler rappresentare in suo nome a Monsignor Cappellano
esser troppo ingiusto il contratto tra la Congregazione ed il Soggetto.
"Se si obbliga la Congregazione, ei disse, sostentar il Soggetto,
istruirlo, e provvederlo, non è dovere che sia nella libertà il Soggetto di non
servirla, e defraudarla delle sue fatighe. Che l'equità restava offesa. Siccome
senza giusta causa la Congregazione non può licenziare un Soggetto, così, senza
ragionevol causa, ne anche il Soggetto può lasciare la Congregazione;" e
soggiunse: "che una tal libertà era contro l'intento del Re, il quale
volendo persistente e nel suo fervore l'Opera delle Missioni, non potrebbe
ottenerlo, potendosi la Congregazione lasciare ad arbitrio".
Questa incombenza,
benché data più volte non piacque al P. Majone, avendo altro in testa.
Volendosene sbrigare, se ne uscì che più non erasi in tempo. "L'affare,
rescrisse nella medesima lettera, mi lusingo, che sia in limine expeditionis. Sicchè non abbiamo più che farvi, - 97 -
né possiamo ancorché
vogliamo".
Così Monsignor Liguori viveva ingannato, e tra di tanto il P. Majone tra le
tenebre e l'oscurità del secreto operava a man salva, e disponeva le cose come
voleva.
Tra queste tante
sollecitudini afflitto vedevasi Alfonso per l'estrema povertà, in cui vedevansi
le due Case dello Stato Pontificio, massime quella di Frosinone: "Mi
ritrovo così stretto, scrisse al medesimo P. Majone, dalle miserie, che sto in
qualche pericolo di perdere il cervello. Da Frosinone mi scrive quel Rettore,
che sta col pensiere di venirsene, perché non sa come rimediare per dar da
mangiare ad otto, o nove compagni. Io questa mattina ho mandato a vendere le
quattro posate che aveva, ma queste per quanto tempo possono rimediare a'
bisogni, che premono intorno al vitto che manca. Ho pensato levarmi la spesa
della cioccolata, e levarmi anche la carrozza, ma se non esco a prendere un
respiro di aria, come finora ho fatto, ed ho mantenuta la vita, temo che presto
la mia vita vada a finire, e non so che fare".
Tutto l'appoggio di
Monsignore era la pensione, e quello che riscuoteva in Napoli dal Collegio dei
Dottori; ma della pensione non speravane che ad Ottobre col maturo della
raccolta.
"Se Vostra
Riverenza, così sussiegue nella medesima lettera, potesse trovar persona che mi prestasse un
semestre della pensione, così potrei rimediare. Io non so a chi pensare. Veda
Vostra Riverenza se mai potesse trovar persona, giacché le rendite del Collegio
poco possono rimediare; e Vostra Riverenza giacché sta applettata per gli
regali che ha da fare, e per la spesa della stampa del Dispaccio. Tutti questi
pensieri mi confondono e sto come uno stolido, perché non so che risolvere.
Lascio di scrivere per non finire di perdere la mente.
Prego mandarmi il denaro delle posate in una fede per mandarla a Frosinone,
perché temo vedermi giunti qui il Rettore con tutti li compagni, con vedere
dissipata la Fondazione di Frosinone. La benedico, e resto, perché non posso
più".
Così Alfonso vedevasi interessato per le Case dello Stato. Ma facciamo ritorno
alle Case del Regno.
Nel primo di Gennaro
1780. fu proposto l'affare in Consiglio di Stato. Non fu difficile al P. Majone
ottenere quanto voleva. Il favore del Sovrano, e il venerato nome di Alfonso,
che portava in faccia, gli fece strada da per tutto.
Non conoscendosi l'inganno, ci concorsero con piacere, credendosi far cosa
grata al nostro vecchio, non solo Monsignor Testa, Cappellano Maggiore, ed il
Marchese de Marco, ma anche l'intiero Consiglio di Stato.
Solo il Marchese Tanucci, quando si lesse, non ingerirsi i Missionarj in
trattati di Matrimonio, ed altri contratti, saviamente volle vi si aggiungesse:
e ne' Testamenti. Ma si fe vedere dal
P. Majone, che anche a questo pensato aveva - 98 -
Monsignor Liguori, e che erasi omessa dal Copista la
parola Testamento.
Si compiacque il Re
della grazia, ma soddisfatto non restò il Marchese della risposta del Padre
Majone. Dispacciando il Marchese de Marco a' 22. dello stesso mese a Monsignor
Cappellano, disse, che essendosi proposta al Re la sua consulta sulli capi
formati da Monsignor Liguori per l'interiore Regolamentodelle Case di sua
Congregazione, "S. Maestà è rimasta informata, che tali capi punto non
eccedono i precedenti reali ordini, che con somma moderazione conceputi, altro
non riguardano, se non il modo che i Missionarj tener debbono nell'esercizio
del loro ministero".
Soggiunse, e disse:
"Si è degnato S. Maestà approvare tai capi, con doversi aggiungere di non
prendere parte alcuna i Missionarj ne' testamenti, ai quali essi assistono, o
predicano nelle loro Missioni".
A' 19. Febrajo
riscontrato il Re da Monsignor Cappellano di essersi inserita tal particola, se
gli rescrisse: "E' rimasto inteso il Re di contenersi tra i capi del
Regolamento formato da Monsignor Liguori per le Case de' Missionarj di sua
Congregazione l'articolo voluto da S. Maestà, di non dovere i Missionarj
prendere veruna parte ne' testamenti".
Attento il Padre Majone in veder fermo il suo operato,
volle, ed ottenne che di real ordine due copie del Regolamento suddetto
trasmesse si fossero nella Real Segreteria, e rimandarsi una al Delegato della
Real Giurisdizione, e l'altra nella Real Camera. Così senza veruna opposizione
ottenne il buon Padre quanto voleva, non per vantaggio, ma per ruina della
Congregazione.
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